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- Il
dolore nella quotidianità assistenziale
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IID Daria Da Col
- Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative
(SIMPA), Milano
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- Chi prende i colpi ha un'esperienza
diversa da chi li conta.
- Proverbio arabo
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Introduzione
- Nell’assistenza
quotidiana sono ancora molti i malati che vivono la tragedia del dolore
evitabile e non voluto, non riconosciuto e non trattato. Non riconosciuto,
perché a questa esperienza tsi collega l’umiliazione della sofferenza: il
malato subisce gli effetti del dolore sul corpo, sul sé, sulla vita personale,
e talora anche gli sguardi indagatori di chi, da osservatore esterno, giudica
irreali o esagerate le manifestazioni di sofferenza. Non trattato, perché
farmaci analgesici sono in grado di controllare il dolore
(1), eppure , molte persone
continuano a sperimentarlo inutilmente, anche in ospedale, dove gran parte dei
ricoverati riferisce di avere dolore non controllato. Gli studi di prevalenza
effettuati negli Stati Uniti (2-4),
in Canada (5), in Inghilterra
(6) e in Olanda
(7) , indicano che la percentuale di
malati con dolore durante il ricovero varia dal 45% al 79%. Questi risultati
sono confermati in Italia da una ricerca trasversale realizzata negli ospedali
della Liguria (8): al momento della
rilevazione il 40% dei malati aveva dolore, 56.6% nelle ultime ventiquattro
ore, e di questi il 61% e il 29% rispettivamente avevano un'intensità massima
e un'intensità media superiore a cinque su una scala da zero a dieci. Questi
dati sono preoccupanti, se assumiamo il controllo del dolore come un
indicatore di qualità delle cure. I numerosi studi sulle ragioni dello scarso
trattamento del dolore (9-11) ,
permettono di individuare tre gruppi di cause che coesistono nei diversi paesi
e nei diversi gruppi professionali. Vi sono le cause ideologiche, connesse
alla cultura di sopportazione della sofferenza; quelle istituzionali, legate
alla scarsa integrazione delle prestazioni sanitarie e alla severa
legislazione che ostacola l'uso terapeutico della morfina a domicilio; e
quelle connesse alla formazione dei professionisti, carente e fonte di
opinioni sbagliate sul dolore e sul suo trattamento.
- Gli aspetti
cruciali su cui la letteratura ha posto l'attenzione sono da un lato la
tendenza degli operatori a sottostimare e sottotrattare il dolore, dall'altro
i timori infondati e i pregiudizi comuni per i quali il cittadino rinuncia ad
esprimere il proprio dolore, ad accettare di trattarlo prima che insorga, a
seguire gli schemi terapeutici efficaci.
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Il dolore e la sua valutazione: la parola al malato
- La letteratura
infermieristica non fa eccezione rispetto ai numerosi studi che documentano
una discordanza tra l'intensità del dolore riferita dal malato e quella
stimata dai curanti (12-14). In
particolare è poco applicata la raccomandazione di domandare sempre al malato,
e di accettare la sua valutazione. I fattori che sembrano influenzare la
richiesta e l'accettazione del parere del malato sono l'età, i segni vitali e
il comportamento doloroso: i neonati, i bambini piccoli e le persone con
disturbi intellettivi sono particolarmente a rischio di non essere
interpellati, valutati e capiti nel loro dolore; al malato è richiesta (e
viene accettata) la sua valutazione del dolore soprattutto se la mimica del
volto è accentuata, se sono presenti i segni di iperattività del sistema
nervoso periferico e se il comportamento doloroso è quello culturalmente
atteso (15).
- La cultura
prescrive al malato come deve percepire, esprimere, comunica il dolore e come
deve comportarsi nella sofferenza. La cultura stabilisce anche come la
medicina deve valutare e curare il dolore. Il sistema sanitario è un
sottosistema culturale che motiva le proprie decisioni cliniche con due
assunti fondamentali: uno tecnico scientifico, l’altro morale.
- L’assunto tecnico
scientifico sul modo di interpretare il dolore crea l’aspettativa del
professionista, ma anche quella del malato, e l’interazione delle due può
portare sia alla collaborazione sia all’incomprensione. Quando il dolore ha
una causa organica, l’infermiere tende ad accettarne la descrizione se è nei
termini che si aspetta per quella lesione, e a rifiutarla se non è non
coerente con la sua visione scientifica. Quando invece la causa del dolore è
psicogena, l’infermiere accetta una descrizione che non corrisponde a una
lesione, ma è il malato che respinge una valutazione non spiegabile in termini
organici.
- L’assunto morale
si basa sul fatto che i problemi psicologici sono meno rispettabili di quelli
fisici. Il dolore psicogeno non è unanimemente accettato dalla comunità
scientifica e il malato stesso ricerca una spiegazione organica del suo
dolore, rifiutando un poco rispettabile riferimento ai toni dell’umore e alla
psiche. Il dolore psicogeno è difficilmente distinguibile da quello causato da
danno tessutale se si considera il racconto soggettivo, ma se le persone
considerano la loro esperienza come dolore e la riportano nello stesso modo
del dolore causato da danno tessutale, si dovrebbe accettarla come dolore
- L’incomprensione
tra infermiere e malato si risolve in un solo modo: l'esperienza del malato,
comunque descritta, deve essere considerata come dolore. E’ questa la
posizione espressa nella definizione dell'Associazione Internazionale per lo
Studio del Dolore (iasp)
(16) : ”Il dolore è una esperienza
sensoriale ed emozionale, associata ad un danno tessutale reale o potenziale,
o descritta in termini di tale danno”. Il dolore è tutto ciò che il malato
afferma che sia (17); reale o
immaginario, e per quanto insignificante possa sembrare all’osservatore
esterno, il malato non ha dubbi sulla sua esistenza e importanza
(18).
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Prima di riconoscere che un dolore viene lamentato in buona
fede, siamo invece portati a controllare il valore dell’evidenza organica o
funzionale (19). In assenza di
elementi obiettivi ci poniamo il dubbio se il malato stia simulando, se il
dolore sia psicogeno. Inoltre
il dolore può precedere di molto l’evidenza di segni clinici e strumentali che
dimostrino obiettivamente una lesione: succede spesso nei tumori. Sprechiamo
molta energia per capire se il dolore è reale eppure i malati che dicono di
avere dolore quando non lo hanno sono una piccolissima minoranza. Possiamo
scegliere tra il sospettare tutti i malati, e sbagliare in moltissimi casi, o
credere a tutti ed essere in errore in pochissimi.
- Ad uno stimolo
doloroso si associa costantemente una componente emotiva, ed è attraverso
questo filtro che il dolore diventa sofferenza. Di tale sofferenza qualcosa
traspare sempre nell'atteggiamento dell'individuo, anche se incosciente, e
questa espressione, l’atteggiamento doloroso, è tutto quanto possiamo
percepire della sofferenza. Da osservatori esterni ed estranei possiamo
quantificare solo l'inizio e la fine di questo processo: l'entità dello
stimolo doloroso e l'atteggiamento doloroso
(20). Per quanti sforzi si possano fare, l’esperienza del dolore altrui
non può essere compresa se non se non in maniera remota.
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- Misurazioni
soggettive a dimensione singola: l’intensità del dolore
- La misura del
dolore non è data da quanto gli altri pensano che la persona soffra, ma da
quanto il malato dice di soffrire. A questo criterio devono uniformarsi la
valutazione e il trattamento. L’autovalutazione del malato è il singolo
indicatore più attendibile di intensità del dolore
(21,22) e non può essere sostituita
dall’osservazione dei comportamenti e dalla rilevazione dei segni vitali. I
lamenti, le smorfie, i gesti come quello di tirare una sonda o allontanare da
sé una mano che tocca, i segni di iperattività del sistema nervoso periferico
nel dolore acuto e le variazioni nel sonno o d'alimentazione nel dolore
cronico, il pianto nel bambino e i cambiamenti nella continenza dell'anziano,
suggeriscono la presenza di dolore, si possono analizzare e
quantificare, ma non danno indicazioni certe sull'intensità del dolore
(23) .
- E' quasi sempre
possibile avere un'autodescrizione che integra l'osservazione del
comportamento, anche se l’autodescrizione verbale è preclusa, se la
coordinazione visiva e motoria è compromessa o non ancora sviluppata, se le
capacità intellettive e percettive sono ridotte. Un mezzo semplicissimo di
ampio e sicuro utilizzo per indicare l'intensità del dolore è la scala
analogica visiva: una linea lunga dieci centimetri una un'estremità della
quale indica l'assenza di dolore e l'altra il peggiore dolore immaginabile
(24). Ha delle varianti adatte per i
bambini (25), quella con una serie di
espressioni facciali che vanno dal viso sorridente al pianto, e per le
persone con difficoltà cognitive (scala dei grigi). La presenza di una di
queste scale nella documentazione clinica è considerato un fattore
fondamentale di qualità dell’assistenza dei malati con dolore
(26).
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- Misure soggettive
multidimensionali
- Comprendono il
diario del dolore, cioè l’esposizione personale orale o scritta con
annotazione del dolore in relazione ad esperienze e comportamenti quotidiani;
le mappe del dolore, che consistono in un diagramma che rappresenta una figura
umana sul quale sono riportate la sede e l’irradiazione del dolore avvertito;
i questionari, composti da un elenco di parole che descrivono la dimensione
affettiva, sensoriale, e cognitiva del dolore; le scale, che danno un a
indicazione numerica. Ciascuna misura ha vantaggi e limiti; ad esempio il
limite principale dei questionari è di essere lunghi ed utilizzare termini non
conosciuti, che non rientrano nel linguaggio comune. Un mezzo semplice ed
efficace è lo schema di intervista
pqrst (20), facile da
ricordare perché richiama le onde dell’elettrocardiogramma (Tabella 1): cosa
lo provoca (e cosa lo allevia), qualità (punge, strappa, opprime),
irradiazione (dov'è e dove si irradia), severità o intensità, tempo (continuo,
discontinuo, si accentua di notte) .
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- Tabella 1 - Schema PQRST per
valutare il dolore (da G. Frova
20)
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- Domanda
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Provocato
da
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- Cosa lo fa peggiorare?
- Cosa lo fa migliorare?
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- Qualità
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- A cosa assomiglia?
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- IRradiazione
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- Dov’è il dolore?
- Dove si sposta?
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- Severità
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- Quanto è forte?
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- Tempo
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- C’è sempre o va e viene?
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Il dolore e il suo trattamento: le opinioni infondate
- Valutare il dolore
anziché giudicarlo è la premessa, ma non la garanzia, di un buon trattamento.Un
esempio relativo al dolore cronico è che, nonostante siano disponibili molti
strumenti di valutazione ampiamente validati, il dolore da cancro viene
trattato solo nel 50% dei casi nei paesi avanzati e nel 20 % nei paesi in via
di sviluppo (9). Un esempio relativo
al dolore acuto è che nonostante il dolore postoperatorio abbia una causa
organica chiara nell’incisione dei tessuti e nella manipolazione dei visceri,
una significativa parte della popolazione chirurgica non ha un trattamento
efficace di questo tipo di dolore (27,28).
- Nel trattamento
del dolore alcune categorie di persone sono particolarmente a rischio: neonati
e bambini (29 -31), anziani
(13, 32) e donne
(16). Le motivazioni scientifiche
sottostanti e note, nonché infondate, sono che i neonati non sentono il
dolore, i bambini lo dimenticano e le persone anziane lo sentono meno.
Ricerche americane evidenziano un inadeguato controllo del dolore nei
dipartimenti d'emergenza (33) e che i
malati ricevono meno analgesici se sono neri o ispanici
(34).
- La revisione
letteratura e la sistematica raccolta di esperienze di infermieri esperti
(36) testimoniano l'esistenza di
problemi nel trattamento del dolore, specie se con oppiacei
(35, 18), e consentono di elencare le
opinioni infondate che rappresentano un serio ostacolo ad un efficace
trattamento del dolore. Ecco alcuni esempi di convinzioni erronee dei malati e
dei loro familiari che hanno un corrispettivo in timori presenti negli
infermieri anche se scientificamente o moralmente infondati: “devo
aspettare il più a lungo possibile prima di chiedere analgesici; è meglio fare
iniezioni che prendere pillole; se ho bisogno di una dose maggiore vuol dire
che sono dipendente; la morfina si usa solo in casi estremi: solo i farmaci
sono abbastanza forti per controllare il dolore”.
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Aspettare che il dolore si manifesti
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Alcuni malati rinunciano alle misure efficaci per evitare che
il dolore si manifesti o accettano di curarlo solo quando non sono più in
grado di sopportarlo. Questi comportamenti hanno ragioni diverse, ma tutte
accettabili per il fatto che il malato ha il diritto di decidere secondo i
suoi valori e ciò che giudica il suo migliore interesse. Se il malato vuole
cercare di sopportare il dolore, il professionista deve rispettarne la
decisione senza tentare di modificarla, anche se gli pare irrazionale, e
tuttavia deve porsi il problema di comprendere le cause del comportamento del
malato, per due ragioni. La prima è che è inammissibile non rispettare una
persona sul cui corpo si sta per intervenire, ma per rispettarla è
indispensabile fare qualcosa per conoscerla, per sapere cosa è per lei il
dolore, di cosa ha paura, qual’è il benessere cui aspira.
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La seconda ragione è che la scelta deve esser informata, il
malato deve sapere che può chiedere analgesici in qualsiasi momento, anche
prima che il dolore insorga, e che il ritardo nella terapia e il peggioramento
del dolore implicano la necessità di usare dosaggi più elevati di farmaco. Ma
anche un malato informato può avere dubbi, può essere combattuto perché vuole
mantenere una certa immagine di sé o perché si pone interrogativi morali
inquietanti(37) .
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Un altro scopo dell’informazione al malato è evitare l’errore
della terapia analgesica al bisogno Questo modo di somministrare i farmaci non
è accettabile né nel dolore acuto né nel dolore cronico, perché porta a
richiedere farmaci solo quando il dolore è insopportabile.
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Il malato è teso per diverse ragioni: perché non vuole
assumersi la responsabilità di sollecitare la somministrazione, perché
l’intervallo tra la richiesta e la somministrazione provoca ritardo
nell’analgesia, perché la sua stessa tensione aumenta il dolore (Figura 1).
Per le successive somministrazioni è probabile che il malato, sperimentato il
ritardo nell’analgesia, chieda il farmaco in anticipo rispetto alla comparsa
del dolore o al suo peggioramento. Ed è probabile che il suo comportamento si
interpretato come un segnale di sviluppo di “assuefazione”.
- E’ dimostrato che,
se il dosaggio è distribuito regolarmente, la quantità totale di analgesici
nelle ventiquattro ore è inferiore a quella dei farmaci al bisogno, e che sono
minori gli effetti collaterali dovuti alle concentrazioni plasmatiche di picco
che si ottengono con la singola somministrazione
(20) .
- La terapia del
dolore al bisogno però non si verifica solo per ignoranza scientifica: l’idea
di somministrare farmaci solo quando il dolore è insostenibile implica che il
dolore o la sofferenza abbiano qualche valore positivo. Ma se anche questo
fosse vero, non lo è certamente se avviene per decisione del professionista.
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Le vie di somministrazione e l’effetto placebo
- Esaminando i
livelli plasmatici nel tempo di un farmaco analgesico somministrato per via
parenterale e dello stesso farmaco somministrato per via orale (figura 2), si
desume che in entrambi i casi, se la dose è appropriata, si supera la soglia
di sollievo del dolore: gli analgesici per via orale, a dosi equianalgesiche
sono potenti come quelli somministrati per via parenterale. Il guadagno in
rapidità d'azione della via parenterale si accompagna ad uno svantaggio in
durata e al rischio di raggiungere la soglia degli effetti tossici, cioè di
andare oltre la finestra terapeutica, rischio che con la somministrazione
orale è ridotto (38).
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La via endovenosa è indicata per il trattamento nel dolore
postoperatorio, mentre se il malato non vomita, può deglutire e non ha dolore
acuto, la via orale è da preferire perché efficace, semplice, ben accettata e
non causa ulteriori fastidi. Le iniezioni accrescono il disagio e nei bambini
possono portare ad un rifiuto della terapia, in alcuni casi aumentano la
possibilità di lesioni della cute, e obbligano l'individuo, se già non è
costretto, a dipendere da altri.
- La via
intramuscolare può essere richiesta e proposta per varie ragioni, tra cui la
suggestione o effetto placebo, che funziona anche in altri modi, per esempio:
due capsule di placebo sono più efficaci di una e una capsula grande è più
efficace di una piccola.
- L'uso del placebo
è, salvo rarissime situazioni, un non senso, un errore sul piano clinico ed
etico. E' dimostrato che un terzo di tutti i malati che ricevono un placebo
attiva le proprie sostanze endogene simili alla morfina, le endorfine, ed ha
un sollievo dal dolore. Il meccanismo di risposta al placebo è complesso ed è
sempre attivo in ogni situazione terapeutica, farmacologica e non, a
prescindere dalla terapia del dolore. Non vi è dunque una giustificazione
razionale dell’uso del placebo nemmeno per evidenziare la potenziale natura
psicogena del dolore. I placebo dovrebbero essere usati unicamente in pochi
studi farmacologici controllati, con il consenso informato del soggetto
(39).
- L’effetto placebo
è una risposta fisiologica che fa diminuire l’ansia, se il malato crede nel
trattamento o nel professionista. Il fenomeno però tende a non durare, il
malato si accorge dell'inganno, si arrabbia, e perde la fiducia nei curanti.
L'uso del placebo è un errore sul piano etico e sottomette l'individuo ad un
rapporto che lo rende oggetto di sospetto e inganno piuttosto che soggetto che
chiede aiuto e comprensioneIl codice deontologico dell’infermiere enuncia, nel
punto 4.14: l’infermiere si impegna a ricorrere all’uso di placebo solo per
casi attentamente valutati (40),
eppure l’uso frequente del placebo testimonia quanto il dolore sia poco
rispettato. “Nulla è così facilmente sopportabile come il dolore degli altri”,
diceva La Rochefoucauld.
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Dipendenza e tolleranza
- La paura di
prendere gli oppiacei e in particolare la morfina è provocata principalmente
dal timore della dipendenza. L’esagerata paura dei curanti di causare
dipendenza contribuisce a rallentare l’uso degli oppiacei
(41,42) tanto quanto la confusione
sui termini: ”dipendenza”, “tolleranza”, “assuefazione” possono essere
sinonimi nel linguaggio del malato e dei familiari, ma non devono esserlo in
quello dei medici e degli infermieri.Tra i possibili fattori in grado di
accrescere la preoccupazione che insorga dipendenza per effetto della terapia
con oppiacei (età del malato, tipo di farmaco usato - codeina o morfina - ,
causa del dolore cronico – cancro o altra malattia - e durata della
somministrazione), quello che influenza maggiormente gli infermieri sembra
essere la durata del trattamento (15)
. Una In realtà quando gli oppiacei sono usati per la terapia del dolore la
dipendenza è molto rara (minore dell’1%), anche se la durata del trattamento è
di un mese o più. La tolleranza e la dipendenza fisica, invece, rare se il
trattamento dura pochi giorni, si verificano nella maggior parte dei malati
che assumono oppiacei per un mese o più (43)
. La dipendenza fisica che gli oppiacei provocano è un fenomeno reversibile e
ben distinguibile dalla dipendenza psicologica cioè dall’atteggiamento
compulsivo di ricerca del farmaco per scopi ulteriori rispetto al sollievo del
dolore. La dipendenza fisica è la necessità di non interrompere
bruscamente il trattamento pena l’insorgenza di effetti indesiderati. I malati
in trattamento con oppiacei per il controllo del dolore sono dipendenti
(fisicamente) dal farmaco così come lo sono i diabetici in trattamento con
insulina, per i quali la sospensione della terapia può comportare un coma
diabetico. Il malato che ha bisogno di aumentare la dose degli oppiacei per il
controllo del dolore non sta diventando dipendente, può essere che stia
dimostrando tolleranza: l'organismo richiede dosi crescenti di farmaco
per mantenere gli stessi effetti. Alcuni studi sui malati di cancro indicano
che la causa principale dell’aumento delle dosi sia l’aumentare del dolore
dovuto alla progressione del tumore: persone con malattia stabilizzata
rimangono con le medesime dosi per lungo tempo
(44,45). D’altra parte sono spesso
gli errori nell’uso degli analgesici, dovuti a sotto dosaggio, che causano una
“tolleranza precoce” e danno la falsa impressione di dover aumentare
continuamente e inutilmente le dosi.
- Un'insieme di
disinformazione e paure fa sì che a differenza di quanto accade per altri
farmaci analgesici gli effetti collaterali della morfina vengano esagerati
fino alla deformazione e che sia considerata un farmaco da usare in “casi
estremi”. La definizione di “farmaco estremo” è fuori luogo perché la morfina
viene usata da anni per lenire i dolori che accompagnano il decorso
dell’infarto miocardio acuto e nel post operatorio; nel cancro trova
indicazione non solo per affrontare le sofferenze gravi che segnano la fase
terminale, ma anche per placare dolori oncologici precoci.
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Terapie farmacologiche e non farmacologiche
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La terapia del dolore agisce a vari livelli delle vie del
dolore: i farmaci posso agire a tutti livelli, da quelli più periferici
(recettori) a quelli più centrali (corteccia), a livello intermedio agiscono
le terapie fisiche e manuali come la ginnastica, il massaggio, la
magnetoterapia, il laser, gli ultrasuoni; a livello centrale i metodi di
rilassamento e distrazione, come il rilassamento muscolare, la meditazione, la
visualizzazione guidata e la musicoterapia. L’utilità di queste tecniche nasce
dalla constatazione che le soglie del dolore sono influenzate anche dai
processi emotivi e cognitivi della corteccia, e che molte situazioni di stress
e tensione funzionano da amplificatore degli stimoli dolorosi. Quando si è
soli, preoccupati, malinconici o in preda a cupi sentimenti, la sensazione
dolorosa può essere resa insopportabile anche da blandi stimoli luminosi o
acustici. Il collegamento tra dolore e stati d’animo impone tuttavia una certa
cautela. L’ansia e la depressione possono far crescere le sensazioni dolorose
ma accade frequentemente anche il contrario, cioè che il dolore provochi
tensione e insonnia, che isoli l’individuo da familiari e amici, che lo
rinchiuda nel proprio corpo e gli impedisca pensare ad altro: “mettiti
questa palla di cannone nell’intestino e vedi quanto puoi preoccuparti del
chiaro di luna sulle dune di sabbia
(46).
- Può darsi però che
il malato non abbia il concetto di terapia multidimodale del dolore o che
- non riconosca come
terapie le tecniche fisiche e manuali che impiega nel quotidiano come il
riscaldamento o il massaggio della parte dolente. E può darsi che non conosca
l’uso antalgico dei metodi come il rilassamento muscolare, la visualizzazione
guidata, la musicoterapia. Queste terapie sono ormai recepite dall’evidence
based nursing, e malgrado la dimostrata efficacia non trovano grande
impiego in Italia se non con i bambini. E anche laddove gli infermieri, in
ambito pediatrico, utilizzano un ventaglio di tecniche non farmacologiche,
spesso il bambino ha un ruolo passivo (47).
Esistono invece evidenze anche per l’impiego nell’adulto. Uno studio americano
descrive gli effetti positivi della visualizzazione guidata nel periodo
postoperatorio di adulti con bypass coronarico
(48). Negli hospice, i luoghi di
ricovero per i malati terminali, la visualizzazione guidata, la musicoterapia,
l'arte terapia sono un capitolo importante della strategia di controllo del
dolore, insieme ai farmaci (49).
- Le ragioni per cui
queste tecniche sono poco usate sono probabilmente molte, ma e c il linguaggio
stabilisce una potente gerarchia: terapie farmacologiche e non
farmacologiche.
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Il dolore e la sofferenza: il sentimento della persona
- Sofferenza è
temine che indica una dimensione antropologica del dolore, un vissuto negativo
nel quale la coscienza è direttamente implicata
(50). La sofferenza è propriamente
sentimento della persona, inevitabilmente la coinvolge: i corpi non soffrono,
le persone soffrono (51). La
sofferenza non è solo il dolore, è un’insieme di sensazioni negative, di
sentimenti e pensieri che fanno male, è dolore esperito come peso, minaccia,
contraddizione rispetto all’ideale di vita umana. La sofferenza può
prescindere dal dolore, e non sempre vi è una proporzione tra dolore e
sofferenza: vi sono situazioni in cui la consistenza obiettiva del dolore è
significativa, ma la sofferenza percepita è minima, mentre esistono sofferenze
profonde che hanno minimo rapporto col dolore fisico.
- Il dolore connesso
ad una malattia o un trauma ha una componente somatica sui cui si innestano
risonanze emotive, culturali ed esistenziali; è sempre fisico, ma non è mai
solo fisico perché ad esso si può aggiungere un insieme di altre sensazioni
negative. Non sempre è chiaro se i farmaci siano buoni o cattivi, migliori o
peggiori di altre opzioni, ma i farmaci per la terapia del dolore sono
sicuramente efficaci, di migliore efficacia antalgica rispetto ai trattamenti
analgesici invasivi, che trovano indicazione in pochi casi. Nessuno studio
inoltre ha mai correlato uno scarso controllo del dolore allo scarso uso dei
trattamenti non farmacologico, per quanto ne sia riconosciuto il valore.,,.
- La terapia con
farmaci analgesici è la modalità più efficace di controllare molte forme di
dolore, da quello postoperatorio a quello a cancro. L’utilizzo di farmaci
analgesici è un problema che certamente non riguarda solo gli infermieri ma
riguarda anche gli infermieri, che possono e debbono mettere in atto anche
degli interventi indipendenti per almeno tre ragioni.
- La prima è che
talune persone non hanno possibilità di esprimere il loro dolore e non hanno
la possibilità di esprimere una legittima richiesta di farmaci antalgici: "il
dolore spesso non riesce a farsi sentire; facciamo in modo che chiami ed abbia
risposta attraverso la voce, le richieste e le azioni degli infermieri"
(52). La seconda: i malati che
possono dar voce alla loro esperienza non sempre hanno le informazioni
necessarie per scegliere e chiedere i trattamenti che riducano il dolore.
Fornire loro queste informazioni, è un impegno di grande civiltà per tutti i
professionisti della sanità e l'infermiere non fa eccezione.La terza ragione è
che talora l'uso dei farmaci è un mezzo per essere al servizio della persona e
dei suoi bisogni, il mandato prioritario di un infermiere.
- La
somministrazione di farmaci è chiaramente parte dell'attività infermieristica,
e la somministrazione di analgesici, eliminando o riducendo il dolore,
contribuisce a realizzare un ulteriore scopo: aumentare il benessere della
persona, cioè ridurre la sua sofferenza.
- La sofferenza
certo non è solo collegata al dolore. La sofferenza è anche vedere che il
proprio dolore non è riconosciuto, non sentire il sapore dei cibi, avere sete,
non riuscire a parlare, sentire l'odore delle proprie feci, non poter vedere
le persone care, dover rimanere a letto o su una carrozzina. L’impiego dei
farmaci può non bastare, come possono non bastare le terapie non
farmacologiche e l’aiuto di Socrate, Confucio o Sant’ Agostino. In alcuni
casi, per alcuni malati, i farmaci e gli altri mezzi di cui la terapia del
dolore dispone nonché una fede solida sono d’aiuto; in molti casi e per molti
malati sarà d'aiuto una competente attenzione ai loro bisogni.
- Una ricerca sui
familiari di persone morte per varie cause, ha mostrato che i familiari
associano un inadeguato controllo del dolore al fatto di essere stati poco
coinvolti nelle cure, al fatto che i bisogni quotidiani del malato – come
l'alimentazione - non erano stati sufficientemente soddisfatti, e che il
malato non aveva ricevuto abbastanza sollievo per
- disturbi come la
bocca secca (53).
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Alcuni problemi etici
-
L’azione dell’infermiere deve tendere a
realizzare prestazioni di sicura efficacia e benessere e ad evitare sofferenze
inutili. L'infermiere, in ragione del suo ruolo professionale, può provocare
dolore, specie in ambiti come i centri per ustionati, anche solo pungendo la
cute, togliendo un bendaggio adesivo, medicando una ferita. Pochi studi hanno
considerato le reazioni dell’infermiere a questa situazione
(54) . Alcune ricerche evidenziano
il disagio degli infermieri di area critica quando le terapie provocano
sofferenza senza dare benefici proporzionati
(55-57) .
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L'infermiere, specie in area critica, applica
una tecnologia invasiva, in grado di salvare la vita ma anche di provocare
dolore e sofferenza. L’infermiere compie una valutazione etica e non ha dubbi
sulla cosa giusta da fare, né quando mantiene le funzioni vitali con mezzi
aggressivi, né quando fa il monitoraggio dell'attività dell'organismo
frequentemente e con mezzi invasivi. Ma l’infermiere è capace anche di una
valutazione etica sulla qualità della vita. E se il monitoraggio richiede la
manipolazione dei presidi applicati oppure uno spostamento del malato, valuta
la possibilità di dilazionare il controllo, assumendo così una prospettiva che
riunisce in sé l'attenzione per la vita (nel senso biologico) e per chi la
vive. Il problema si pone quando non solo un monitoraggio invasivo ma anche
gran parte degli esami di routine, non solo la rianimazione ma anche la
nutrizione artificiale, sono inappropriati e fonte di dolore e sofferenza
inutili.
- Tra i fattori che
danno una forte connotazione etica a un caso clinico, almeno due sono
tipicamente presenti in area critica: una è l'emergenza – urgenza; l’altra è
l’impossibilità di informare il malato se è incompetente, cioè incapace di
scegliere razionalmente, di manifestare la sua scelta, di comprenderne le
conseguenze. Tuttavia, in emergenza - urgenza o no, che il malato sia
competente o non lo sia, alcuni trattamenti non si devono offrire né attuare.Si
tratta dei trattamenti futili, che danno un beneficio illusorio, come la
nutrizione parenterale totale nello stato vegetativo persistente; di quelli
molto onerosi o rischiosi rispetto ai benefici, come la ventilazione per una
dispnea da tumore polmonare; di quelli che non danno un beneficio neanche in
termini di qualità di vita.
-
-
Un uomo con tumore della testa o del collo può morire per
disfagia, asfissia, emorragia, polmonite. Gli effetti della disfagia si
possono evitare con una gastrostomia: il malato vivrà abbastanza da avere una
ostruzione tracheale, che si può risolvere con una tracheostomia. Allora vivrà
ancora fino ad avere una emorragia, e se si praticano delle trasfusioni fino
ad avere una polmonite, curabile con antibiotici. Il malato avrà ricorrenti
emorragie una delle quali sarà fatale.
-
-
I trattamenti che risolvono un evento critico permettono al
malato di vivere fino ad un evento peggiore del precedente. Se si considera
"proporzionato" ciò che serve alla continuazione del processo biologico, non
c'è accanimento; se invece che al processo biologico si pensa alla qualità di
vita la sproporzione è manifesta. Nel codice deontologico dell’infermiere, al
punto 4.15, è indicato che “l’infermiere tutela il diritto a porre dei limiti
ad eccessi diagnostici e terapeutici non coerenti con la qualità di vita del
malato (40) .
- In area critica si
presentano situazioni estreme come la sospensione delle terapie salva vita e
delle terapie infusive, e la sedazione terminale
-
-
“… si verificò in Norvegia il più grave
incidente ferroviario che la storia di quel Paese ricordi. Tra le lamiere
inestricabilmente contorte rimasero prigioniere, ma ancora vive, alcune
vittime del disastro, che non avevano possibilità alcuna di essere estratte.
L’opinione pubblica norvegese si commosse del fatto che i medici accorsi sul
luogo dell’incidente decisero, compassionevolmente, di somministrare morfina a
quanti, tra atroci dolori, si trovavano lì intrappolati”
(58 )
.
-
- Una solida
argomentazione portata dal mondo cattolico legittima la sedazione terminale
per evitare una morte tra atroci dolori. E’ la teoria del doppio effetto,
secondo la quale se l'intenzione del professionista è togliere il dolore e la
sofferenza, la perdita di coscienza e l'eventuale abbreviazione della vita
possono essere accettate come conseguenza indiretta. E’ la posizione espressa
da Pio XII nel 1957 (59) e ribadita
dal concilio vaticano II.
- Togliere il
dolore, anche in queste circostanze, è un dovere scientifico ed etico. A
livello scientifico valgono le evidenze, e bisogna stabilire se la terapia del
dolore è efficace e migliore di altre opzioni. Sono ormai molte le
segnalazioni in letteratura degli effetti deleteri del dolore sul decorso
clinico oltre che sulla qualità di vita. Il controllo del dolore è un elemento
importante per migliore il cosiddetto outcome chirurgico, sentire
dolore ha effetti negativi sulla situazione emotiva attuale e a distanza, il
dolore accentua i limiti relazionali che già di per sé la condizione di malato
e di degente comporta.
- A livello etico
valgono le argomentazioni. I pareri dei comitati etici e i testi del Magistero
Cattolico, la letteratura bioetica, dimostrano che il dibatto c’è già stato e
che togliere o limitare il dolore e la sofferenza comincia ad essere
considerato un dovere fornito di adeguate basi etiche oltre che scientifiche.
In questi due campi l’azione dell’infermiere può essere immediata.
-
-
Due cose che l’infermiere può fare subito
- Ogni cittadino ha
il diritto di sottrarsi alla tragedia del dolore inutile e all'umiliazione
della sofferenza (60). Ha anche il
diritto che la valutazione del dolore sia “appropriata”, non solo nel senso
che il professionista debba essere competente, ma anche in quello che sia
considerata la sua “propria” esperienza. L’infermiere può impegnarsi per
evitare ulteriori ritardi nella garanzia di questi diritti, così come
garantisce una attenzione competente ai bisogni delle persone, soprattutto di
quelle che non hanno mezzi per difendersi. Ha almeno due modi concreti
attuabili subito: il primo è migliorare la propria capacità di valutare i casi
anche dal punto di vista etico; il secondo è conoscere i dati scientifici
correnti per correggere le opinioni sbagliate.
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