CONGRESSO NAZIONALE 2005

XXIV Congresso Nazionale Aniarti -- Diretta dal Congresso

 
24° Congresso nazionale
Sorrento, 26 – 27 - 28 Ottobre 2005
 L’Infermiere in Area Critica: pensare, essere, fare.

Il codice deontologico dell’infermiere italiano: l’orientamento, la valenza  giuridica, l’ipotesi evolutiva

Laura D’Addio, Firenze

Infermiera, Docente di Deontologia Corso di Laurea in infermieristica dell'Università degli Studi di Firenze

 

Questo contributo, all’apparenza teorico e/o distante dalla realtà, si prefigge di accompagnarvi nell’esplorazione di un documento, il Codice Deontologico (CD), ma soprattutto della deontologia infermieristica e della responsabilità degli infermieri.

 

 

C’è un grosso dibattito oggi sulla deontologia, intesa soprattutto come questione etica. Di quest’ultima si parla molto ormai, essendo entrata nel dibattito quotidiano odierno. Siamo contornati, per esempio, da una serie di telefilm, serial tv, ecc. in cui ci vengono proposti contesti sanitari in cui, pur non parlando di deontologia, etica e bioetica, in realtà viene proposto al grande pubblico quello che oggi è l’elemento di riflessione, forse più criticato, nella nostra realtà, ovvero come gestire le decisioni nei confronti dei nostri assistiti. Se questo è vero in generale, ovviamente lo è ancora di più nell’area critica, come anche poco fa abbiamo avuto modo di apprezzare.

E allora cominciamo a valutare qual è la nostra situazione in termini di riflessione deontologica, inoltrandoci nell’analisi del CD degli infermieri, ovvero dove ci ha portato e ci sta portando la deontologia infermieristica. Questo percorso inizia ricordando che gli infermieri italiani sono stati accompagnati da un CD (sebbene poco conosciuto) fin dal 1960. Per meglio dire, un codice delle infermiere. In quegli anni le infermiere sono una realtà particolare, forse ancora molto coniugata ad uno spirito missionario, vocazionale, confessionale. Il CD del 1960 è un codice fortemente prescritto, immaginato e predisposto per cercare di sviluppare e costruire una disciplina e uno zelo per coloro che non erano ancora così preparati a svolgere un impegno, un’attività così rilevante nei confronti degli assistiti. Quindi un codice col quale si cerca di dare una disciplina a chi una disciplina di fatto non aveva, per una carenza formativa molto forte.

Scorrendo gli articoli si può notare (vedi art. 6) il riferimento alla “leale collaborazione” nei confronti del medico, frutto sicuramente del tempo: già allora gli infermieri si impegnavano ad essere i mediatori culturali nei confronti del rapporto medico- assistito, come oggi!

“pongono i rapporti con i medici su un piano di leale collaborazione eseguendo scrupolosamente le prescrizioni terapeutiche e sostenendo nel malato la fiducia verso il medico e verso ogni altro personale sanitario”
(art. 6)

Nell’art.9 si indica di onorare la propria professione, dichiarando l’impegno/dovere di aggiornarsi e perfezionarsi:  gli infermieri ritenevano importante e fondamentale mantenere adeguata la loro attività e l’espletamento del loro esercizio professionale. Nonostante mancassero gli ECM!

“…hanno il dovere di onorare la propria professione: sia loro cura aggiornarsi e perfezionarsi continuamente e abbiano un esemplare comportamento nella vita privata”
(art. 9)

Ancora: nell’art. 4 si indica di non lasciare il posto di lavoro senza la sicurezza della sostituzione, aspetto che forse oggi non necessita più di una precisazione deontologica, poiché ormai parte del pensiero professionale stesso. Tuttavia il codice sottolinea che non si tratta di una semplice regolamentazione della turnistica, piuttosto di una responsabilità individuale prima ancora di qualsiasi regolamentazione aziendale.

“…non abbandonano il posto di lavoro senza che vi sia la certezza della sostituzione”
(art. 4)

Ma nel CD del 1960, che oggi conta più di 45 anni di età, si trova anche quella che possiamo considerare una perla in termini di responsabilità professionale: l’articolo sul segreto professionale. Le infermiere riconoscono che questo segreto è per loro un impegno, è per loro un’intima convinzione che va al di sopra di ogni obbligo giuridico, quindi ci avviciniamo ad una questione che Zamperetti  ha già annunciato essere basilare:

“essi osservano il segreto professionale in base ad intima convinzione al di sopra di ogni obbligo giuridico. Il segreto si estende a tutto ciò che i professionisti siano venuti a conoscere nell’esercizio della professione: non solo quindi a ciò che gli fu confidato, ma anche a ciò che essi hanno veduto, inteso o semplicemente intuito”
(art. 5)

La deontologia esiste. Il senso di responsabilità professionale esiste al di là della legge. La legge è molto importante, ma gli individui e le loro coscienze esistono anche al di là della legge.

Il segreto professionale, tornando all’oggetto in questione, è un impegno, una intima convinzione proprio per il rapporto specifico che l’infermiere ha e che costruisce con la persona assistita. Se anche il codice penale non parlasse assolutamente del segreto professionale in termini di violazione, di possibile reato, gli infermieri sempre e comunque vi si atterrebbero. Gli infermieri esprimono con questa ricercatezza, con questa precisione, il concetto di segreto professionale, che non è relativo soltanto a quello di cui si è venuti a conoscenza per il ruolo rivestito,  ma che comprende anche quello che la persona può aver confidato, magari in misura individuale. Pensiamo a quello che avviene durante la notte, in alcuni momenti di particolare apertura per le persone assistite, a quante volte gli infermieri possono vedere, intendere o semplicemente intuire/percepire, per esempio osservando  gli assistiti nei momenti delle visite dei parenti o delle persone significative. Sono momenti che si osservano da lontano a cui non partecipiamo direttamente, ma certamente molto significativi per comprendere molti aspetti.

Abbandoniamo adesso il CD del 1960, per passare al secondo codice, quello del 1977.

Gli anni Settanta sono stati anni importanti in Italia, così come in altre parti del mondo, anni in cui i movimenti sociali, i primi interrogativi morali cominciavano a diffondersi anche nei cittadini comuni, nella società del quotidiano. Sono anni in cui la professione infermieristica assume una dimensione sociale e anche un’identità professionale più precisa.

Il CD del 1977 si presenta più strutturato rispetto al precedente, organizzato al suo interno con titoli e premessa; i suoi contenuti non mirano più ad un fine disciplinare, ma a dare fondamenta precise, appunto quelle dei valori della professione, alla identità dell’infermiere. Nella premessa si parla appunto dei valori della professione, indicando nell’infermiere il soggetto al servizio della salute e della vita.

“l’infermiere svolge una professione al servizio della salute e della vita. E’ chiamato non solo ad assicurare una qualificata assistenza infermieristica, ma anche a dare risposte professionali nuove per favorire, con la collaborazione di tutto il personale sanitario, il progresso della salute nel paese”
(Premessa)

L’infermiere è chiamato non solo ad assicurare una qualificata assistenza infermieristica (fatto rilevante già di per sé), ma anche ad essere innovativo e propositivo, quindi a dare risposte professionali nuove per favorire il progresso della salute del paese. Come vediamo, quindi, gli infermieri, risalendo dal mero esercizio quotidiano, si propongono obiettivi ben più alti: vale la pena ricordare che il CD è l’espressione di una comunità professionale, a cui a sua volta ogni professionista appartiene. Qualora gli infermieri o un singolo infermiere non lo condivida, è opportuno mettere in atto un processo di discussione democratica, utilizzando tutti quegli strumenti costruttivi a disposizione.

Come abbiamo visto, gli infermieri lavorano per il progresso della salute del paese: in pratica gli infermieri affermano, prima ancora di qualsiasi legge, di lavorare per il singolo e la collettività, contemporaneamente in ambito di prevenzione, cura e riabilitazione. Il primo documento giuridico che lo affermerà sarà la L. 833/1978, di un anno e mezzo dopo. Pertanto gli infermieri hanno abbondantemente preceduto la suddetta legge.

“l’infermiere  promuove la salute del singolo e della collettività operando contemporaneamente per la prevenzione, la cura e la riabilitazione”
(art. 4)

Gli infermieri, nella loro autonoma responsabilità e nel rispetto delle diverse competenze, collaborano attivamente con i medici e con gli altri operatori, sempre al fine della tutela migliore della salute dei cittadini.

“l’infermiere, nella sua autonoma responsabilità e nel rispetto delle diverse competenze, collabora attivamente con i medici e con gli altri  operatori socio-sanitari per la migliore tutela della salute dei cittadini, sia nella programmazione e nel funzionamento delle strutture, sia nella gestione democratica dei servizi, tenendo sempre presenti i bisogni reali della popolazione nell’ambito del territorio”
(art. 6)

E come vedete non si parla soltanto di una operatività quotidiana, ma di programmazione, funzionamento della strutture, gestione democratica dei servizi. In ambito sociale e giuridico, si deve ricordare, la partecipazione dei cittadini alla valutazione e gestione dei servizi è stata elemento acquisito solo molti anni dopo.

Ma guardiamo anche a quegli artt. del CD del 1977 che oggi ci appaiono oggetto di considerazioni critiche:  nell’art.1 si parla dell’infermiere come di un soggetto al servizio della vita dell’uomo:

“l’infermiere è al servizio della vita dell’uomo: lo aiuta ad amare la vita, a superare la malattia, a sopportare la sofferenza e affrontare l’idea della morte”
(art. 1)

Lo scopo e il mandato dell’infermiere è proprio quello di aiutare la persona a sopportare la sofferenza, il dolore? O piuttosto si tratta di un evento della vita degli altri per il quale l’infermiere si impegna a supportare, aiutare, a seconda delle scelte della persona, ma anche a eliminare o contenere il dolore. Infatti, se per un assistito il dolore non ha significato, è mandato dell’infermiere cercare di ridurre questa sua esperienza negativa, considerate le opzioni che oggi abbiamo.

“l’infermiere afferma e difende il suo diritto all’obiezione di coscienza di fronte alla richiesta di particolari interventi contrastanti i contenuti etici della professione”
(art. 11)

Guardando ora all’obiezione di coscienza, gli infermieri del tempo esprimevano nel CD un’imprecisione, dichiarando che questa può essere evocata di fronte alla richiesta di un particolare intervento contrastante i contenuti etici della professione. L’obiezione di coscienza, in realtà, è più che altro una “ciambella di salvataggio” nei confronti di richieste provenienti dalla persona, dalle istituzioni, dal contesto sociale. Ne è un esempio la L. 194/1978, che riconosce al singolo operatore/professionista il diritto di obiezione nel caso in cui l’intervento di interruzione vada a configgere con i suoi valori individuali, con la sua coscienza di persona. Nel CD del 1999 l’obiezione è stata ripresa e corretta, con riferimento a richieste che possono confliggere con la coscienza individuale, più che nei confronti delle scelte etiche della professione.

Arriviamo quindi al CD del 1999. Nell’impossibilità di trattarlo in modo esaustivo, cercheremo di chiarire quali sono le logiche che lo sostengono. Intanto questo codice nasce da una maturità degli infermieri nel frattempo raggiunta: gli infermieri italiani sono divenuti più grandi, più maturi, più adulti e quindi sono in grado di collocare la deontologia nella sua giusta posizione,  ovvero lontana, a giusta distanza dalla morale della società in cui viviamo.

 

  La deontologia infermieristica si rifà ai valori infermieristici, non alla morale: la società circostante in cui viviamo immersi influenzerà i valori infermieristici, si combinerà con questi, ma ciò non comporterà mai, non potrà mai comportare il cambiamento dei nostri valori. Ma anche: l’infermiere lavora sulla soggettività di approccio. Pensate se il medico o l’infermiere che mi capita ha un suo orientamento (e non penso solo a quello religioso, ma anche filosofico-spirituale, scientifico anche) e non si prefigga di andare a incontrare il mio! Per fortuna nostra e dei nostri assistiti, questo è un aspetto chiave per arrivare a riflettere sulla separatezza e sull’integrazione che deve esistere tra la deontologia e l’etica soggettiva, che possiamo definire coscienza individuale. Definendo col termine coscienza individuale i valori della persona e col termine coscienza professionale quelli che sono i valori della professione a cui ho aderito nel momento in cui sono diventato infermiere, riusciamo a capire che nel momento in cui io indosso la mia divisa e sono in servizio non posso rifarmi esclusivamente ai valori individuali. Devo quindi cercare di integrare la mia coscienza individuale con la mia coscienza professionale. A questo punto ci sarebbe da discutere quanto nella nostra formazione questa coscienza professionale ha avuto modo di svilupparsi e anche di mantenersi grazie all’esercizio e all’esperienza. Si tratta di una questione critica, perché il focus nella formazione dei sanitari è sul contenuto scientifico e non umanistico-deontologico. Eppure i sanitari sono chiamati tutti i giorni a prendere decisioni per altri, a guidare processi decisionali importanti, rilevanti, basilari: pensate all’accompagnamento nei confronti dei familiari in una scelta che riguarderà un assistito (spesso loro congiunto), non più in grado di esprimersi. Non può bastare semplicemente la biologia, non può bastare la genetica, non può bastare l’anatomia. Sono competenze che derivano anche da altro.

E’ importante a questo punto sottolineare, seppur brevemente, che la deontologia è cosa diversa dal diritto. C’è una distanza precisa fra la coscienza professionale e la legge. Anticamente (mi riferisco proprio al giuramento di Ippocrate, che ha dato il via al concetto di professionalità per i sanitari) la deontologia era superiore a qualsiasi regola giuridica, oltre a qualsiasi definizione sociale. I sanitari spesso si trovano in condizioni di dover decidere, affrontare situazioni che sono oltre qualsiasi riferimento giuridico: questo è quello che il giuramento di Ippocrate sostanzia.

Introdurre questo tema ci permette di riflettere sul fatto che spesso e volentieri decidiamo semplicemente in base alla legge. “Facciamo questa cosa, altrimenti i familiari vengono qui, espongo loro il problema e ci denunciano”. I sanitari non possono essere in posizione ricattabile. Hanno della responsabilità e queste sono chiamate a gestire. In altre parole, più che parlare dei doveri dell’infermiere, oggi il Codice Deontologico esprime  in primo luogo le responsabilità e gli impegni che gli infermieri hanno assunto. La parola impegno ha un valore ben più alto rispetto al termine dovere: non è quindi un caso, come molti autori hanno sottolineato, che gli infermieri nel loro Codice abbiano completamente escluso il termine dovere (come il termine paziente!). Neppure è casuale aver optato per una performance infermieristica che si evidenzia con azioni quali l’infermiere si attiva, l’infermiere promuove, l’infermiere garantisce, e via dicendo. Il Codice deontologico è quindi una vera e propria dichiarazione, quasi solenne, degli impegni che questa professione si assume verso i suoi interlocutori: i cittadini, le istituzioni, i colleghi, gli altri professionisti, e via dicendo.

Quindi la deontologia infermieristica, a differenza di quella di altri ancora fortemente incentrata sui doveri, ha come prospettiva unica quella degli impegni. D. Rodriguez ha pubblicato un articolo nel 2001, nel quale confronta i Codici deontologici dei professionisti sanitari: il Codice di deontologia medica riporta l’incipit “il medico deve …” per ben 34 volte! Inutile dire che questo gli attribuisce un carattere fortemente prescrittivi, piuttosto che responsabilizzante.

Vediamo allora brevemente il Codice Deontologico del 1999, esaminando 3 articoli tra i meno citati, ma che ci permettono di mettere in luce elementi utili al nostro scopo qui oggi. Siamo nel Titolo VI del Codice, quello che indica gli impegni e le responsabilità verso le istituzioni.

“ L’infermiere, ai diversi livelli di responsabilità, di fronte a carenze o disservizi provvede a darne comunicazione e per quanto possibile  a ricreare la situazione più favorevole “
(art. 6.3)

Quello che ci viene presentato non è un infermiere che si limita a eseguire disposizioni di legge, eseguire regolamenti aziendali e quanto altro: è un partecipatore attivo, riflessivo, anche critico rispetto alla situazione della sua realtà. Già i precedenti relatori ci hanno sottolineato il buon utilizzo della risorse, quindi quanto nella carenza e/o disservizio possa entrare anche la razionalità, l’analisi organizzativa, per mettere in luce quanta inappropriatezza vi sia nelle nostra organizzazione del lavoro. Quanti infermieri rispondono al telefono, prendono prenotazioni, fanno da filtro  e via dicendo (ovvero attività a carattere amministrativo) ?

“ L’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione fisica e farmacologica sia  evento straordinario e motivato, e non metodica abituale di accudimento. Considera la contenzione una scelta condivisibile quando vi si configuri l’interesse della persona  e inaccettabile quando sia una implicita risposta alle necessità istituzionali “
(art. 4.10)

Altra questione emblematica in questa nostra analisi è la contenzione fisica e farmacologia. La contenzione fisica è spesso presente anche nell’area critica, a volte come azione scontata, la cui entità passa misconosciuta. E’ certo che ci sia da garantire la sicurezza dell’assistito rispetto a gesti inconsulti in cui potrebbe incorrere, quindi a conseguenze importanti, ma ogni mezzo di contenzione  è comunque espressione di una limitazione della persona, della sua dignità e libertà e questo non va mai dimenticato. Quindi sarebbe importante considerare anche qui con opportuni protocolli se è sempre e comunque necessario questo trattamento terapeutico, senza escludere, come spesso accade, quanto i sanitari potrebbero avvalersi del contributo dei familiari, che possono limitare i gesti di una persona sicuramente meglio di qualsiasi mezzo di contenzione. Una considerazione anche sul ruolo dei familiari, importante ma non ricattatorio. Il parere dei familiari è di fondamentale importanza, nel momento in cui c’è da assumere una decisione, ma la scelta e la responsabilità conseguente viene assunta dai sanitari. Di fronte ad una differenza di posizione tra parenti e sanitario su un trattamento terapeutico, i sanitari cercano di arrivare ad una decisione che sia anche democratica, e che sia  anche comprensibile, che si avvalga di tutti gli spunti, la biografia di cui si diceva poco fa, ma la decisione ultima finale è dei sanitari, anche se il familiare minaccia di portarci in tribunale! E’ il clinico chiamato a decidere. Sarebbe veramente strano che una decisione a carattere clinico venisse  delegata ad altri! Rispetto alle indicazioni espresse dall’assistito, il Codice precisa che è solo in relazione a questo che l’infermiere si impegna a facilitare i rapporti con la persona, la comunità e le persone significative che coinvolge nel piano di cura. Ma nella realtà dei servizi a cosa assistiamo oggi? Si chiede l’autorizzazione ai familiari per tutto: per la trasfusione, per l’intervento chirurgico dell’anziano, come se la titolarità del consenso potesse essere trasferita ad altri. In altre parole i sanitari cedono lo scettro delle decisioni ai familiari. Un altro caso interessante è quello della donazione di organi: “i medici hanno chiesto l’autorizzazione all’espianto ai familiari” si sente dire in televisione e/o si legge. Quale autorizzazione? Dal 1999 una legge sancisce che in Italia siamo tutti donatori, esiste il tacito assenso. Se non lo voglio essere, lo dichiaro e verrò incluso in una banca dati. Perché se una legge afferma un certo qualcosa, i sanitari continuano a farne un’altra? Su quale presupposto si muovono? Su un presupposto deontologico? Non lo ritrovo. Non lo ritrovo nel Codice degli infermieri, né in quello dei medici. Viene allora da supporre che ci sia una tradizione, un’abitudine, una prassi che risulta più forte di qualsiasi riflessione logica, scientifica e anche di coscienza. Ovvero i sanitari continuano a chiedere ai familiari se possono prelevare gli organi, sebbene questo sia in contraddizione con la norma, che peraltro vale per tutti. Viene veramente da supporre che l’abitudine, la consuetudine, la prassi siano quello che a volte guida più di qualsiasi considerazione.

I sanitari hanno un mandato importante: prendere in carico delle persone. Per gestire la meglio questo mandato, la bioetica suggerisce di muoversi secondo 3 coordinate di riferimento: i principi di autonomia, beneficità e giustizia, peraltro rintracciabili anche nel Codice Deontologico dell’infermiere (artt. 2.6- 2.7).

Il Codice Deontologico non ha solo una valenza deontologica, anzi, a partire dalla L. 42/1999 il Codice ha avuto anche riconoscimento giuridico. E’ la prima volta che il mandato sociale (l’insieme delle norme giuridiche che assegnano ruoli e responsabilità ai sanitari) riconosce pienamente il mandato professionale (l’insieme degli standard e delle definizioni interne alla professionale che completa la visione sociale) come elemento parimenti costitutivo. Anche nei tribunali si comincia ad accorgersi di questo, non solo: da quest’anno nelle Università di Roma, Firenze e Milano è stato attivato un nuovo master: analisi e metodologia della responsabilità professionale nell’area infermieristica. In questo master parte rilevante dell’insegnamento si rifà alla deontologia. Quindi l’infermiere che dovrà esprimersi in termini di perizie, in termini di consulenze, in termini di analisi della realtà per definire le responsabilità, dovrà essere esperto dell’uno e dell’altro. Tra le responsabilità infermieristiche ricordiamo quella di mantenere adeguate le proprie conoscenze e competenze mediante non solo i mezzi più ordinari (ricerca e formazione permanente), anche attraverso la riflessione critica (art. 3.1). Nel Codice si fa  riferimento alla necessità di supportarsi con l’evidenza scientifica: non è vergognoso ammettere i limiti del proprio  sapere, quindi io non oserò, ma anzi sarò un professionista che assume impegni, responsabilità, ruoli in relazione alle competenze possedute, mettendo in atto tutti i meccanismi leciti per poter caso mai compensare questi limiti . La responsabilità di cui ci parla il Codice è una responsabilità agita, non solo nel rispondere delle proprie colpe, ma sempre e comunque nel rispondere delle conseguenze delle proprie azioni. Sempre e comunque, di qualsiasi tipo siano gli esiti dei miei comportamenti. In altre parole, gli infermieri sono responsabili dei loro comportamenti e scelte, e non solo di quello che hanno sbagliato. Ciò implica il concetto di co-responsabilità, perché oggi, nel complesso mondo sanitario, e socio-sanitario, poche volte c’è un solo responsabile di un effetto su una persona. In generale condividiamo una responsabilità complessa, come quella di curare e assistere la persona.

 

Abbiamo esaminato il ruolo e le responsabilità dell’infermiere così come emergono dalla deontologia odierna, con un professionista che declina gli impegni assunti nel suo Codice (che è il nostro pubblico manifesto), non rifacendosi solo alla legge. Parlando nella sede dell’ANIARTI, mi sembra opportuno, però, sottolineare anche il ruolo delle associazioni professionali, quindi società scientifiche come questa, che dovrebbero prendere posizione rispetto all’evidenza scientifica, certo, come pure, però, sulla tutela del mandato professionale, considerando sempre e comunque che gli assistiti sono la nostra ragione di essere. Senza di loro e senza i loro bisogni non avremmo ragione di essere ! Quindi un invito che propongo a tutte le società scientifiche è quello di riflettere sul fatto che anche ANIARTI, come tutte le altre, ha un ruolo nel cercare di costruire un laboratorio all’interno con i suoi iscritti.

Certamente dobbiamo richiamare anche il ruolo del nostro organismo professionale, il Collegio e la sua Federazione, e non trovo modalità migliore per chiudere sulle ipotesi evolutiva riportando un’affermazione che la Presidente Silvestro ha presentato la settimana scorsa nel Convegno di Roma:

“ Essere infermiere oggi non è come esserlo stati all’inizio della nostra storia o solo 10 anni fa;

è però indubbio che continua ad esserci un filo rosso, ben visibile, mai interrotto, che ci unisce.

E’ il filo rosso:

                                                  della scelta del prendersi cura

della serietà e responsabilità che caratterizza il nostro impegno

della certezza di svolgere un ruolo rilevante ed anche insostituibile a fianco delle persone che hanno bisogno di assistenza

della consapevolezza di volere e dover essere sempre all’altezza dei nostri alti compiti sia sul piano umano che su quello professionale”

(A. Silvestro, 2005)

Esiste un filo rosso: mi sembra una questione estremamente importante. Gli infermieri rappresentano una comunità professionale responsabile, forse fino ad oggi non molto presente, meglio la loro presenza è spesso più tacita, non pubblica, ma non per questo meno importante. Bene, è il momento di diventare anche importanti e visibili.

 

Bibliografia

Calamandrei C., D’Addio L., Commentario al nuovo codice deontologico dell’infermiere, Milano, Mc Graw-Hill, 1999

 

Aniarti: www.aniarti.it

 
 
 
20/09/2006