Il costo dell’assistenza intensiva: i confini, l’etica, la responsabilità.
Dott. Nereo Zamperetti ([1])
Dipartimento di Anestesia e Rianimazione
Ospedale S. Bortolo – ULSS 6, Vicenza
Quando si parla di costo, è importante capire di
quale costo si intende parlare. Esso infatti è sia economico che umano. Per costo
economico si intendono soprattutto i costi monetari per mantenere e rinnovare
il personale, le strutture e attrezzature. Sul costo del personale (soprattutto
per quanto riguarda la figura dell’infermiere), è stato discusso molto e a
lungo, tanto che gran parte degli indici di gravità di malati si fanno proprio
sui carichi di lavoro infermieristico.
Quello di cui vorrei parlare oggi, invece, è
soprattutto il costo umano e sociale della gestione del malato terminale. Mi
sembra questo un argomento particolarmente importante.
Qualche anno fa, abbiamo fatto un questionario in cinque ospedali fra cui Vicenza. In
esso abbiamo coinvolto medici e infermieri riguardo all’applicazione della
rianimazione cardio-polmonare. Una delle domande era: “Chi dovrebbe decidere se
rianimare un malato ospedalizzato (non in terapia intensiva), per il quale era
prevedibile la necessità di una rianimazione cardio-polmonare?”.
Le possibili risposte erano: l’anestesista-rianimatore
chiamato d’urgenza; il medico di reparto; il medico e gli infermiere del
reparto; i familiari; il medico con i familiari; il medico e gli infermieri del
reparto con i familiari; il malato, precedentemente coinvolto; nessuno, nel
senso che non ci si pone la domanda poiché il malato va sempre rianimato; altro
(risposte non date o non valide).
Vedete nella figura i risultati, che si possono
leggere in modi diversi: c’è una notevole discrepanza, testimoniata da un p di
0,0001; e forse non stupisce che i medici segnino come decisori i medici,
mentre gli infermieri denotino una ovvia e legittima volontà di coinvolgimento.
Quello che ha colpito di più, però, è che gli infermieri segnano al primo posto
il paziente, al secondo posto medici infermieri e familiari, al terzo posto
medici e infermieri. Cercano cioè di mettere il malato come primo decisore
riguardo una rianimazione cardio-polmonare che lo riguarda, al secondo posto
pongono la collegialità.
I medici, al contrario, mettono al primo posto i
medici del reparto, al secondo posto i medici e i familiari, al terzo posto il
malato.
Partendo da questi dati, pensavo di parlare della
difficoltà, soprattutto per i medici della terapia intensiva, di prendere
decisioni. E di proporre poi un protocollo che abbiamo iniziato ad elaborare e che,
pur non essendo ufficialmente in corso, mi sembra abbia iniziato a cambiare il
nostro approccio a questo problema.
Comincerei a parlare del senso della terapia
intensiva, per come almeno la intendiamo noi; e cioè un mezzo per il
trattamento di malati con patologie gravi, non altrimenti curabili ma
reversibili (o comunque condizionanti una qualità di vita che il malato giudica accettabile)
. In altre parole, il paziente ideale in terapia
intensiva (quello che ci piace di più avere) è quello che è ingestibile senza
quest’ultima ma potenzialmente curabile.
In questo senso, siamo alla continua ricerca di indici prognostici che siano precoci, affidabili e che possano aiutarci nella decisione del singolo paziente.
Gli americani parlano da anni di futility (inutilità, inaffidabilità), intendendo con questo una terapia che sostanzialmente non serve allo scopo per cui viene iniziata. Il problema, però, è definire esattamente cosa è futile. La prima definizione è del 1987 ed è dell’Hasting Center: “se un trattamento è chiaramente futile nel raggiungere il suo obiettivo fisiologico e non offre benefici fisiologici al paziente, il professionista non ha nessun obbligo di fornirlo” ([2]).
Ovviamente, bisogna definire cosa è un obiettivo fisiologico e cosa un beneficio fisiologico. Perché l’obiettivo di un ventilatore automatico è quello di pompare aria avanti indietro in trachea fino agli alveoli; mentre l’obiettivo di un contropulsatore aortico è quello di gonfiarsi e sgonfiarsi ritmicamente sincronizzato col ritmo cardiaco, in aorta. E’ questo il senso?
E’ ovvio, quindi, che la definizione di futility deve comprendere la prognosi di ogni singolo paziente. Diviene quindi inevitabile ricorrere a concetti statistici, tipo la probabilità, la cui interpretazione però - per quanto riguarda le indicazioni operative - non è univoca. Sapere infatti che un malato ha una sopravvivenza stimata al 30%, non ci dice molto sulle decisioni che dobbiamo prendere.
Per quanto riguarda le nostre capacità prognostiche abbiamo a disposizione dei punteggi di gravità che sono indispensabili ma che rischiano di non essere dirimenti per la decisione del singolo paziente. Essi sono infatti un indice utile per dirci quanto è grave un paziente, ma vanno poi inglobati in quello che è il quadro complessivo del malato: in genere gli indici di gravità hanno una buona discriminazione ma una cattiva calibrazione; non correggono per i fattori locali e possono essere alterati da fattori particolari.
In pratica, se un indice di gravità ci dice che un malato ha una mortalità del 67%, l’unica cosa che possiamo dire è che se abbiamo fatto le cose per bene, su 100 malati uguali al nostro, 67 moriranno. Questo è quello che ci dice il nostro indice di gravità. Non ci dice se il nostro malato è il 27, il 37, il 68, o il 99 della lista, cioè non ci dice che cosa farà quel singolo malato con quell’indice di gravità. Quindi serve un giudizio clinico complessivo per formulare una prognosi e dare un giudizio sull’opportunità di un trattamento intensivo.
Abbiamo poi dei falsi salvati e dei falsi non salvati: abbiamo, cioè, dei malati per cui noi pensavamo di fare qualcosa ma di fatto poi non si salvano; e abbiamo malati che fanno sorgere il dubbio che potevamo fare di più e avremmo potuto salvarli.
E alla fine vi è la soggettività della discriminale; che significa che anche se noi avessimo dei numeri certi non sapremmo poi dove mettere gli indici di futilità: non interveniamo quando un malato ha quale sopravvivenza? Del 20%? Del 10% Dell’1%? Quand’è che ci fermiamo?
Ricapitolando, abbiamo decisioni da prendere su dati che non sono riferiti sostanzialmente su quel malato ma ad un gruppo omogeneo di malati cui speriamo che quel malato corrisponda; e abbiamo una soggettività della discriminante e, conseguentemente, della accettabilità della prognosi. In questo senso, diventa indispensabile il coinvolgimento del malato.
Per
sottolineare questo concetto, Civetta parlava già 10 anni fa di futility gap([3]), intervallo di futilità. In pratica, nel momento in cui il massimo della qualità
di vita futura che noi possiamo offrire al malato cade al di sotto del minimo
accettabile da quel malato, quell’intervallo di qualità che rimane fra il
massimo ottenibile ed il minimo accettabile è un’espressione quantitativa della
futilità, cioè della inutilità di quella terapia: offriamo al malato qualcosa
che non gli serve, dato che il risultato sarà inaccettabile; quella terapia che
noi facciamo diventa sostanzialmente inutile. Il futility gap è un concetto
molto bello, ma prevede che noi riusciamo ad identificare molto bene tanto la
prognosi che la volontà del malato critico.
Per
quanto riguarda la difficoltà prognostica, vorrei ricordare solo alcune frasi
tratte da un lavoro pubblicato su Circulation dall’American Heart Association,
che ha rivisto le linee guida della rianimazione cardio-polmonare in caso di
arresto cardiaco. Alla fine c’è una sezione riservata agli aspetti etici: sono
frasi importanti per quanto riguarda la nostra capacità prognostica in quella
situazione. Ci dicono che nessun fattore singolo o combinazione di fattori
raggiunge i criteri di futilità quantitativa, cioè se il malato potrà
sopravvivere o meno; che quando iniziamo una rianimazione cardio-polmonare, non
abbiamo nessun criterio affidabile che determini
l’outcome neurologico, cioè la futilità qualitativa; che non esiste nessun
sistema di punteggio, con variabili riferite al malato o alla tecnica di
rianimazione che abbia una sensibilità accettabile per predire con sufficiente
accuratezza l’outcome finale ([4]).
Allo
stesso modo, Sprung sostiene che - anche al di fuori dell’arresto
cardiorespiratorio - nessuno dei sistemi correnti che abbiamo a disposizione
può predirci quale specifico paziente, alla fine morirà ([5]).
Un
altro aspetto importante - sottolineato da Vincent ([6]) - è
che le decisioni di fine vita possono essere influenzate da vari fattori che
comprendono l’età, l’esperienza del medico, il paese e la cultura di origine,
le abitudini dell’area in cui il medico lavora e i suoi coinvolgimenti
religiosi.
Tutto
questo porta ad una grande variabilità nelle decisioni. Al riguardo va
ricordato un lavoro molto bello, pubblicato sul JAMA 10 anni fa ma
assolutamente ancora attuale. Esso prende in considerazione 37 rianimazioni in
Canada, nelle quali tutti gli operatori sanitari, medici ed infermieri, hanno
compilato un questionario comprendente 12 scenari clinici ipotetici. Per ogni
caso clinico la scelta possibile cadeva fra 5 possibili soluzioni terapeutiche
che andavano dalla più intensiva fino alla più palliativa. Il risultato è stato
che solo in uno di questi scenari, più del 50% fra quelli che avevano risposto
avevano fatto la stessa scelta; solo uno su
Ancora
Sprung sottolinea come ci sia una estrema variabilità fra i medici nel definire la prognosi del paziente e
quindi la futilità, e nella decisione di sospendere il suo sostentamento vitale
([8]).
Per
quanto riguarda il coinvolgimento del malato critico nelle decisioni che lo
riguardano, i dati pubblicati, sia a livello americano che europeo,
sottolineano come in meno del 5% dei casi i malati siano in grado di prendere
delle decisioni che riguardano i trattamenti in terapia intensiva ([9]) e
solo lo 0.5% sia stato coinvolto nella decisione, nel caso della sospensione
del supporto vitale ([10]).
Un
paio di anni fa, abbiamo fatto un questionario a Vicenza e a Melbourne
approfittando di due congressi di nefrologia intensiva. Una domanda era: “Come
mai non informiamo i malati riguardo la terapia di sostituzione renale?”. La
ragione più frequente è la mancata capacità decisionale del malato, e supera
l’80% delle risposte.
Tutto
questo, di nuovo, porta ad una estrema variabilità decisionale. Il dato più
significativo viene da un lavoro di Prendergast ([11]) che
ha preso in considerazione 131 rianimazioni in 38 stati dell’ America; 6300
sono stati i pazienti morti nel periodo di osservazione, divisi in 5 classi a
secondo dell’approccio terapeutico in occasione del processo di morire: classe
1, terapia intensiva piena (sono stati rianimati anche con il massaggio
cardiaco); classe 2, rianimazione piena tranne la rianimazione
cardio-polmonare; classe 3, astensione da supporti vitali (cioè non è stata
intrapresa terapia specifica nel momento dell’arresto); classe 4, limitazione
del supporto vitale in relazione con la morte del malato (ad esempio riduzione
delle amine, riduzione della frazione di ossigeno inspirato); classe 5, morte
cerebrale (che in questo contesto non ci interessa). Importante è la
variabilità fra le quattro classi: 23%, 22%, 10% e 38%, rispettivamente. Ma
soprattutto quello che fa pensare è che in classe 1 la variabilità fra le
diverse rianimazioni va da
Perché
succede questo? Perché non riusciamo a gestire il processo di morte in terapia
intensiva? Perché probabilmente non abbiamo ancora le categorie culturali:
dobbiamo ancora arrivare ad una riflessione che ci aiuti a gestire queste situazioni.
Noi
veniamo da una medicina che per millenni è stata sostanzialmente descrittiva e
palliativa, in cui il morire era un processo intoccabile, non avevamo nessun
mezzo per sostenere un cuore che si stava fermando o un respiro che si stava
affievolendo.
Poi
ad un certo punto, 50 anni fa, arriva la terapia intensiva, il supporto vitale.
Arriva cioè la possibilità di mettere un tubo e supportare la funzione
respiratoria che altrimenti non sarebbe più sufficiente. E la possibilità di
far ripartire il cuore, sostenerlo con le amine. E se si ferma il rene abbiamo
l’ultrafiltrazione.
Qualche
volta i supporti vitali funzionano, altre volte non funzionano. Ed in questo
caso, di fatto, quello che facciamo è intervenire nel processo di morire.
Purtroppo, tale intervento si riduce spesso solo ad una manipolazione dei
parametri biologici (aggiustiamo il potassio, aggiustiamo
Probabilmente
parte di questa difficoltà viene a noi in Italia dal fatto che non abbiamo
delle norme giuridiche precise che ci aiutino. A dire il vero, noi medici
abbiamo un bellissimo codice deontologico, ma purtroppo la norma deontologica
in questi anni è sentita come meno importante di quella giuridica.
A
questo punto probabilmente un aiuto viene dal porsi 3 domande.
La
prima: usiamo un linguaggio adeguato?
Perché alle volte le parole ci scivolano tra le mani, si consumano, vogliamo
dire una cosa ma ne diciamo un’altra. Quello che dico io ha un senso per me ma rischia
di avere un senso diverso per gli altri. Per questo è importante che i concetti
siano gli stessi. Allora dovremo incominciare a non chiamare eutanasia la sospensione o non
esecuzione della terapia sproporzionata. Propongo al proposito il punto di
vista della Chiesa Cattolica non perché penso che debba per forza essere valida
per tutti ma perché è sicuramente la posizione più di garanzia in questo senso,
ed è quindi accettabile anche da chi ha posizioni diverse: “Per un corretto
giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per
eutanasia in senso vero e proprio
si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni
procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa,
dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati. Da essa va distinta la
decisione di rinunciare al cosiddetto accanimento
terapeutico, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale
situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si
potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e la sua famiglia. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati
non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione
della condizione umana di fronte alla morte.” ([12])
Allo stesso tempo, dovremmo incominciare a non usare più
il termine di “accanimento terapeutico” perché è un termine così caricato di
grande negatività che nessuno ammette di farlo. Se si chiede in giro, nessuno
sostanzialmente lo fa. Ma di fatto si fa. Se
cominciassimo a parlare di eccesso terapeutico cominceremo a capirci meglio.
Gli inglesi usano il termine “over-treatment” che potremmo tradurre con
trattamento sproporzionato, cioè un termine meno assoluto e che introduce in
qualche modo un concetto di relatività che ci costringe a farci delle domande.
Trattamento sproporzionato rispetto a che cosa? A quello che vogliamo ottenere?
Rispetto a quello che sono le aspettative del malato? Rispetto quello che sono le aspettative della
famiglia? Probabilmente potremmo incominciare a ragionare di più e a parlarci
di più su questo problema.
La
seconda domanda è per chi lavoriamo?
Nella maggior parte dei casi la risposta è irrilevante, e ognuno di noi lavora
per un mucchio di motivi diversi: per mantenere la famiglia, perché gli piace,
perché in un qualche modo quando le cose vanno bene pensa di essere stato
utile. Il risultato in fondo non cambia. Ma ci sono situazioni in cui bisogna
chiedersi effettivamente per chi lavoriamo. Poi alla fine scopriamo che l’unico
motivo per cui lavoriamo sono i nostri malati, cioè la gente che ha bisogno che
noi siamo lì. Ed è sostanzialmente a
loro e a noi stessi che moralmente dobbiamo rendere conto.
La
terza domanda è qual è il fine del nostro
lavoro? E non fa male scoprire che noi non dobbiamo sconfiggere la morte.
E’ una stupidaggine solo a pensarci. Non gestiamo nemmeno la salute, che è un
fine estremamente personale e diverso
per ognuno. Gestiamo scienza medica, farmaci, interventi, diagnosi, terapia per
assicurare il miglior livello di salute possibile ai nostri malati nel rispetto
della loro dignità. La scienza medica ed infermieristica che noi gestiamo sta
alla salute come le leggi stanno alla giustizia. La salute e la giustizia sono
i fini a cui vogliamo arrivare, i mezzi che abbiamo sono la medicina, sono le
leggi.
Con
questo dobbiamo fare i conti. Sapendo che per i malati in cui l’efficienza non
ha più spazio perchè di fatto non c’è
più nulla da fare, l’importante non è fare qualcosa, ma fare le cose
importanti. E se alla fine morire bisogna, è la qualità di quel morire la cosa
più importante: la prima e l’ultima di cui valga la pena preoccuparsi.
Un bozza di protocollo
Vi
propongo ora quello che è la bozza di un protocollo a cui stiamo tentando di
lavorare da anni.
Premetto
che non è quello che facciamo sempre, ma un tentativo di esplicitare quello a
cui vorremmo arrivare quando ci si trova in queste situazioni.
Si
divide in due parti: la prima tratta l’aspetto decisionale, cioè come arrivare
ad una decisione che sia valida clinicamente, “buona” moralmente e difendibile
dal punto di vista medico legale.
Perché
non possiamo illuderci che il non prendere decisioni ci salvi: il non prendere
decisioni è proprio il modo peggiore per prenderle.
L’aspetto decisionale
Il
primo punto è che ogni paziente va considerato in trattamento pieno finché non
viene ufficialmente deciso il contrario. Questo vuol dire che le cose devono
essere chiare, per evitare che quello che viene fatto di giorno non sia capito
e condiviso dal medico di guardia che
arriva di notte e che decide di farne un’altra, magari in senso contrario.
Tale
decisione ufficiale, in emergenza (cioè per il malato critico che arriva di
notte) può essere presa dal medico di guardia, dopo aver sufficientemente
chiarito diagnosi e prognosi del malato, aver discusso con i familiari e gli
infermieri presenti e aver comunicato loro la decisione finale.
Al
di fuori dell’emergenza, cioè nella maggioranza dei casi dei malati che muoiono
in terapia intensiva, l’approccio viene discusso in una riunione convocata su
richiesta di un familiare o di un operatore della terapia intensiva. Vi
partecipano gli operatori che lo desiderano, il responsabile della terapia intensiva,
l’infermiere che ha in cura la persona, il caposala, il medico curante (il
neurochirurgo, il cardiochirurgo, l’oncologo che seguono il malato) e gli
operatori che lo desiderano.
La
discussione verte sui seguenti aspetti: la clinica, i soggetti coinvolti e una
possibile soluzione.
La clinica significa che è impossibile prendere decisioni su
dati clinici inadeguati. Se dobbiamo decidere qualcosa dobbiamo essere sicuri
dei dati clinici che abbiamo. Questo non significa che dobbiamo fare una tac o
una risonanza se questa poi alla fine non cambia l’essenza della decisione;
però i dati devono essere ragionevolmente certi per la diagnosi e per la
prognosi.
I soggetti coinvolti: è importante capire quali sono i soggetti che vanno
coinvolti nella discussione e che verranno coinvolti nella decisione finale,
essere sicuri che abbiano capito la diagnosi e la prognosi del malato
(soprattutto i familiari, ovviamente), e definire quali sono i diritti che
dovranno essere rispettati ed i bisogni che devono essere soddisfatti dalla
decisione.
La
possibile soluzione può essere sostanzialmente di tre tipi:
1) un trattamento massimale senza
limitazione, quando si decide che si tratta di un paziente per cui vale la pena
di andare avanti;
2) una terapia massimale ma limitata nel
tempo (time-limited, definendo
chiaramente il tempo che ci si dà: “andiamo avanti 24 ore, 48 ore, e poi
facciamo il punto”) o limitata per eventi che poniamo come soglia (event-limited, del tipo “proviamo ad
andare avanti, ma se compare un’insufficienza renale non partiamo con
un’ultrafiltrazione).
3) una limitazione diagnostica terapeutica.
E’
importante poi definire quali sono gli ostacoli prevedibili per attuare tale
decisione, quali le soluzioni, quali gli eventuali interventi che possono
allargare il consenso.
Ovviamente,
la decisione finale va riportata, spiegata e motivata in cartella clinica.
Questo è l’unico modo per dare una dignità di decisione adeguata a quello che
stiamo per fare. E’ un modo per chiarire che ci si è riuniti e si è deciso
insieme quale fosse la cosa migliore da fare nell’interesse del malato.
L’eventuale
decisione di un limite diventa operativa quando è comunicata, compresa e
condivisa da tutte la figure coinvolte nella decisione. Ovviamente tale
decisone, essendo una decisione di adeguatezza clinica, può essere modificata
in qualsiasi momento purché ciò sia
motivato, condiviso, spiegato ai familiari e sia riportato in cartella.
Una
volta presa una decisione, questa va
messa in pratica. E questo è l’aspetto operativo.
La
decisione presa va comunicata ai familiari dal medico responsabile assieme
all’infermiere di che ha in cura la persona.
In
generale e quando è possibile, la decisione concordata di sospendere i supporti
vitali si realizzerà nel tentativo - entro la mattina successiva - di svezzare
il malato onde poterlo trasferire in reparto di degenza dove si rende più
semplice la presenza dei familiari al momento del decesso. Se ciò appare ragionevolmente
impossibile, vanno sospesi i farmaci e rimosse le strumentazioni il cui scopo
non sia quello di permettere una morte
dignitosa e priva di sofferenza. Ogni qualvolta si renda necessario devono
essere fornite sedazione ed analgesia adeguate, perché non c’è nessun motivo
per cui il malato debba morire con sofferenza e con dolore.
Uno
dei grossi problemi affrontati è stata la gestione del tubo tracheale: lo
rimuoviamo, lo lasciamo al suo posto mettendoci un filtro e staccando il
respiratore, lasciamo il ventilatore e riduciamo il supporto e la frazione di O2
inspirato?
Abbiamo
pensato che la decisione non può essere presa a priori per tutti, ma va
incarnata nel caso clinico. La gestione del tubo tracheale va decisa di volta
in volta a seconda del caso specifico, del malato, della posizione dei
familiari e della loro comprensione del quadro clinico; peraltro non ci sono
controindicazioni assolute all’estubazione del malato terminale.
Fondamentale
è che i familiari siano costantemente e adeguatamente informati di quanto viene
fatto.
Salvo
situazioni particolari vi è una maggiore libertà all’accesso dei parenti del
malato terminale; in particolare, si rende necessario avvisarli per tempo,
allentare gli orari per le visite e rimuovere ogni ostacolo per un contatto
fisico.
Le
esigenze dei familiari vanno capite, interpretate e soddisfatte. Quelle più
importanti sono di stare vicino al morente, di non sentirsi inutili, di essere
informati sulle sue condizioni, di capire cosa viene fatto e perché, di essere
rassicurati sulla adeguatezza delle decisioni prese, di sapere che il loro caro
non soffre, di essere aiutati a trovare un senso nella morte del congiunto, di
essere confortati, di poter esprimere dubbi e emozioni, di avere se necessario
un supporto esterno – anche religioso, di avere all’occorrenza un ristoro
fisico (alla fine diventa indispensabile una sedia, un bicchiere di thé).
Tempi
e modi della presenza dei familiari al letto del malato vanno gestiti
dall’infermiere responsabile della stanza in relazione alla complessità dei
suoi impegni assistenziali globali
Salvo
eventi eccezionali, deve essere data sempre ai familiari l’opportunità di
essere presenti al momento del decesso. E’ infine opportuno che il medico e
l’infermiere siano presenti in stanza al momento del decesso.
Vorrei
terminare con una frase di Dunstan che riassume bene il senso di tutto questo:
“il successo della terapia intensiva non va misurato solo dalle statistiche di
sopravvivenza, come se ogni morte fosse un fallimento dal punto di vista
medico; va invece misurato dalla qualità delle vite che vengono conservate,
dalla qualità delle morti e soprattutto dalla qualità delle relazioni umane che
vengono coinvolte per ogni morte” ([13]).
[1] Il contenuto di questo testo (soprattutto per quanto riguarda il protocollo presentato nella seconda parte) è frutto del lavoro di gran parte del personale infermieristico e medico del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Vicenza che in molte diverse ed in occasioni riunioni ha discusso i problemi esposti. A tutto il personale del Dipartimento va quindi il merito ed il riconoscimento per la fatica fatta. Il nome posto sotto il titolo rappresenta la persona che ha fatto lo sforzo di preparare la relazione per il congresso di Sorrento e di rivedere la sbobinatura del testo in vista di questa pubblicazione.
Per quanto riguarda a forma, si è ritenuto di poter mantenere la discorsività presente nella sbobinatura della relazione.
[2] Hasting
Center, 1987
[3] Civetta J.,
Crit Care Med, 24(2): 346-351, 1996
[4] “No single factor or combination of factors,
such as morbidity scores or unwitnessed asystolic arrest, meets the criteria
for quantitative futility. (…) No reliable criteria are available to determine
neurological outcome during cardiac arrest. (…) A
scoring system using patient or resuscitation variables with acceptable
sensitivity for accurately predicting a universally poor outcome is not
available.” Tratto da AHA,
Circulation, 102(I): I-12–I-21, 2000.
[5] “Judgments for
individual patients are based on clinical decision-making and not on infallible
prognostic scoring systems. In fact, none of the current systems can accurately
predict which specific patient will die.” Sprung CL, Intensive Care Med 22:
1003-1005, 1996.
[6] “End-of-life decisions are not easy and can be influenced by various factors, including the age and experience
of the doctor, the country and the culture of origin, the attitudes of the
country/area in which the doctor is currently working, and religious beliefs.” Vincent
JL, Crit Care Med 29(S):N52-N55, 2001.
[7] “In only one of 12 scenarios more than 50% of the respondents made the same treatment choice. In eight of 12 scenarios, more than 10% of the respondents chose the opposite extreme. The same patient may thus receive full aggressive intensive care from one health care provider and only comfort measures from another.” Cook DJ, JAMA 273(9):703-708, 1995.
[8] “… there is an extreme doctor variability in
defining a patient’s prognosis or futility and in decisions of forgoing
life-sustaining treatment.” Sprung CL, Intensive Care Med 22: 1003-1005, 1996.
[9] “Less then 4.5% of patients were judged to be
competent to make treatment decisions, throughout their ICU course.”
Prendergast
TJ, Am J Respir Crit Care Med, 155: 15-20, 1997.
[10] “The patient’s willingness to limit his/her
own care was known in only 8% of cases; only 0.5% of the patients were involved
in decisions.” Ferrand E., The Lancet 357: 9-14, 2001.
[11] Prendergast TJ, Am J Respir Crit Care Med 155:
15-20, 1997.
[12] Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, 65.
[13] “The success of intensive care is not to be measured only by the statistics of survival, as though each death were a medical failure. It is to be measured by the quality of lives preserved or restored; and by the quality of dying of those in whose interest it is to die; and by the quality of human relationships involved in each death.” Dunstan GR, Anesthesia, 40:479, 1985