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Congresso Nazionale Aniarti 2005

L'infermiere in Area Critica: pensare, essere, fare.

Sorrento (NA), 26 Ottobre - October 2005 / 28 Ottobre - October 2005

» Indice degli atti del programma

Il costo dell’assistenza intensiva: i confini, l’etica, la responsabilità Nereo Zamperetti

27 Ottobre - October 2005: 09:30 / 10:00

Audio

Presentazione

 

Il costo dell’assistenza intensiva: i confini, l’etica, la responsabilità.

 

 

Dott. Nereo Zamperetti ([1])

Dipartimento di Anestesia e Rianimazione

Ospedale S. Bortolo – ULSS 6, Vicenza

 

 

Quando si parla di costo, è importante capire di quale costo si intende parlare. Esso infatti è sia economico che umano. Per costo economico si intendono soprattutto i costi monetari per mantenere e rinnovare il personale, le strutture e attrezzature. Sul costo del personale (soprattutto per quanto riguarda la figura dell’infermiere), è stato discusso molto e a lungo, tanto che gran parte degli indici di gravità di malati si fanno proprio sui carichi di lavoro infermieristico.

 

Quello di cui vorrei parlare oggi, invece, è soprattutto il costo umano e sociale della gestione del malato terminale. Mi sembra questo un argomento particolarmente importante.

Qualche anno fa, abbiamo fatto un questionario in cinque ospedali fra cui Vicenza. In esso abbiamo coinvolto medici e infermieri riguardo all’applicazione della rianimazione cardio-polmonare. Una delle domande era: “Chi dovrebbe decidere se rianimare un malato ospedalizzato (non in terapia intensiva), per il quale era prevedibile la necessità di una rianimazione cardio-polmonare?”.

Le possibili risposte erano: l’anestesista-rianimatore chiamato d’urgenza; il medico di reparto; il medico e gli infermiere del reparto; i familiari; il medico con i familiari; il medico e gli infermieri del reparto con i familiari; il malato, precedentemente coinvolto; nessuno, nel senso che non ci si pone la domanda poiché il malato va sempre rianimato; altro (risposte non date o non valide).

Vedete nella figura i risultati, che si possono leggere in modi diversi: c’è una notevole discrepanza, testimoniata da un p di 0,0001; e forse non stupisce che i medici segnino come decisori i medici, mentre gli infermieri denotino una ovvia e legittima volontà di coinvolgimento. Quello che ha colpito di più, però, è che gli infermieri segnano al primo posto il paziente, al secondo posto medici infermieri e familiari, al terzo posto medici e infermieri. Cercano cioè di mettere il malato come primo decisore riguardo una rianimazione cardio-polmonare che lo riguarda, al secondo posto pongono la collegialità.

I medici, al contrario, mettono al primo posto i medici del reparto, al secondo posto i medici e i familiari, al terzo posto il malato.

 

Partendo da questi dati, pensavo di parlare della difficoltà, soprattutto per i medici della terapia intensiva, di prendere decisioni. E di proporre poi un protocollo che abbiamo iniziato ad elaborare e che, pur non essendo ufficialmente in corso, mi sembra abbia iniziato a cambiare il nostro approccio a questo problema.

Comincerei a parlare del senso della terapia intensiva, per come almeno la intendiamo noi; e cioè un mezzo per il trattamento di malati con patologie gravi, non altrimenti curabili ma reversibili (o comunque condizionanti una qualità di vita che il malato giudica accettabile)

. In altre parole, il paziente ideale in terapia intensiva (quello che ci piace di più avere) è quello che è ingestibile senza quest’ultima ma potenzialmente curabile.

In questo senso, siamo alla continua ricerca di indici prognostici che siano precoci, affidabili e che possano aiutarci nella decisione del singolo paziente.

Gli americani parlano da anni di futility (inutilità, inaffidabilità), intendendo con questo una terapia che sostanzialmente non serve allo scopo per cui viene iniziata. Il problema, però, è definire esattamente cosa è futile. La prima definizione è del 1987 ed è dell’Hasting Center: “se un trattamento è chiaramente futile nel raggiungere il suo obiettivo fisiologico e non offre benefici fisiologici al paziente, il professionista non ha nessun obbligo di fornirlo” ([2]).

Ovviamente, bisogna definire cosa è un obiettivo fisiologico e cosa un beneficio fisiologico. Perché l’obiettivo di un ventilatore automatico è quello di pompare aria avanti indietro in trachea fino agli alveoli; mentre l’obiettivo di un contropulsatore aortico è quello di gonfiarsi e sgonfiarsi ritmicamente sincronizzato col ritmo cardiaco, in aorta. E’ questo il senso?

E’ ovvio, quindi, che la definizione di futility deve comprendere la prognosi di ogni singolo paziente. Diviene quindi inevitabile ricorrere a concetti statistici, tipo la probabilità, la cui interpretazione però - per quanto riguarda le indicazioni operative - non è univoca. Sapere infatti che un malato ha una sopravvivenza stimata al 30%, non ci dice molto sulle decisioni che dobbiamo prendere.

Per quanto riguarda le nostre capacità prognostiche abbiamo a disposizione dei punteggi di gravità che sono indispensabili ma che rischiano di non essere dirimenti per la decisione del singolo paziente. Essi sono infatti un indice utile per dirci quanto è grave un paziente, ma vanno poi inglobati in quello che è il quadro complessivo del malato: in genere gli indici di gravità hanno una buona discriminazione ma una cattiva calibrazione; non correggono per i fattori locali e possono essere alterati da fattori particolari.

In pratica, se un indice di gravità ci dice che un malato ha una mortalità  del 67%, l’unica cosa che possiamo dire è che se abbiamo fatto le cose per bene, su 100 malati uguali al nostro, 67 moriranno. Questo è quello che ci dice il nostro indice di gravità. Non ci dice se il nostro malato è il 27, il 37, il 68, o il 99 della lista, cioè non ci dice che cosa farà quel singolo malato con quell’indice di gravità. Quindi serve un giudizio clinico complessivo per formulare una prognosi e dare un giudizio sull’opportunità di un trattamento intensivo.

Abbiamo poi dei falsi salvati e dei falsi non salvati: abbiamo, cioè, dei malati per cui noi pensavamo di fare qualcosa ma di fatto poi non si salvano; e abbiamo malati che fanno sorgere il dubbio che potevamo fare di più e avremmo potuto salvarli.

E alla fine vi è la soggettività della discriminale; che significa che anche se noi avessimo dei numeri certi non sapremmo poi dove mettere gli indici di futilità: non interveniamo quando un malato ha quale sopravvivenza? Del 20%? Del 10% Dell’1%? Quand’è che ci fermiamo?

 

Ricapitolando, abbiamo decisioni da prendere su dati che non sono riferiti sostanzialmente su quel malato ma ad un gruppo omogeneo di malati cui speriamo che quel malato corrisponda; e abbiamo una soggettività della discriminante e, conseguentemente, della accettabilità della prognosi. In questo senso, diventa indispensabile il coinvolgimento del malato.

 

Per sottolineare questo concetto, Civetta parlava già 10 anni fa di futility gap([3]), intervallo di futilità. In pratica, nel momento in cui il massimo della qualità di vita futura che noi possiamo offrire al malato cade al di sotto del minimo accettabile da quel malato, quell’intervallo di qualità che rimane fra il massimo ottenibile ed il minimo accettabile è un’espressione quantitativa della futilità, cioè della inutilità di quella terapia: offriamo al malato qualcosa che non gli serve, dato che il risultato sarà inaccettabile; quella terapia che noi facciamo diventa sostanzialmente inutile. Il futility gap è un concetto molto bello, ma prevede che noi riusciamo ad identificare molto bene tanto la prognosi che la volontà del malato critico.

 

Per quanto riguarda la difficoltà prognostica, vorrei ricordare solo alcune frasi tratte da un lavoro pubblicato su Circulation dall’American Heart Association, che ha rivisto le linee guida della rianimazione cardio-polmonare in caso di arresto cardiaco. Alla fine c’è una sezione riservata agli aspetti etici: sono frasi importanti per quanto riguarda la nostra capacità prognostica in quella situazione. Ci dicono che nessun fattore singolo o combinazione di fattori raggiunge i criteri di futilità quantitativa, cioè se il malato potrà sopravvivere o meno; che quando iniziamo una rianimazione cardio-polmonare, non abbiamo nessun criterio affidabile che determini l’outcome neurologico, cioè la futilità qualitativa; che non esiste nessun sistema di punteggio, con variabili riferite al malato o alla tecnica di rianimazione che abbia una sensibilità accettabile per predire con sufficiente accuratezza l’outcome finale ([4]).

Allo stesso modo, Sprung sostiene che - anche al di fuori dell’arresto cardiorespiratorio - nessuno dei sistemi correnti che abbiamo a disposizione può predirci quale specifico paziente, alla fine morirà ([5]).

 

Un altro aspetto importante - sottolineato da Vincent ([6]) - è che le decisioni di fine vita possono essere influenzate da vari fattori che comprendono l’età, l’esperienza del medico, il paese e la cultura di origine, le abitudini dell’area in cui il medico lavora e i suoi coinvolgimenti religiosi.

 

Tutto questo porta ad una grande variabilità nelle decisioni. Al riguardo va ricordato un lavoro molto bello, pubblicato sul JAMA 10 anni fa ma assolutamente ancora attuale. Esso prende in considerazione 37 rianimazioni in Canada, nelle quali tutti gli operatori sanitari, medici ed infermieri, hanno compilato un questionario comprendente 12 scenari clinici ipotetici. Per ogni caso clinico la scelta possibile cadeva fra 5 possibili soluzioni terapeutiche che andavano dalla più intensiva fino alla più palliativa. Il risultato è stato che solo in uno di questi scenari, più del 50% fra quelli che avevano risposto avevano fatto la stessa scelta; solo uno su 12. In 8 su 12, il 10% aveva scelto gli opposti estremi. La conclusione è che - per quanto riguarda la terapia intensiva - uno stesso paziente, a seconda di quale rianimazione e di quale medico di guardia se ne prenderà carico, potrà avere il massimo della terapia intensiva o solamente misure di conforto ([7]).

Ancora Sprung sottolinea come ci sia una estrema variabilità fra i medici nel definire la prognosi del paziente e quindi la futilità, e nella decisione di sospendere il suo sostentamento vitale ([8]).

Per quanto riguarda il coinvolgimento del malato critico nelle decisioni che lo riguardano, i dati pubblicati, sia a livello americano che europeo, sottolineano come in meno del 5% dei casi i malati siano in grado di prendere delle decisioni che riguardano i trattamenti in terapia intensiva ([9]) e solo lo 0.5% sia stato coinvolto nella decisione, nel caso della sospensione del supporto vitale ([10]).

Un paio di anni fa, abbiamo fatto un questionario a Vicenza e a Melbourne approfittando di due congressi di nefrologia intensiva. Una domanda era: “Come mai non informiamo i malati riguardo la terapia di sostituzione renale?”. La ragione più frequente è la mancata capacità decisionale del malato, e supera l’80% delle risposte.

 

Tutto questo, di nuovo, porta ad una estrema variabilità decisionale. Il dato più significativo viene da un lavoro di Prendergast ([11]) che ha preso in considerazione 131 rianimazioni in 38 stati dell’ America; 6300 sono stati i pazienti morti nel periodo di osservazione, divisi in 5 classi a secondo dell’approccio terapeutico in occasione del processo di morire: classe 1, terapia intensiva piena (sono stati rianimati anche con il massaggio cardiaco); classe 2, rianimazione piena tranne la rianimazione cardio-polmonare; classe 3, astensione da supporti vitali (cioè non è stata intrapresa terapia specifica nel momento dell’arresto); classe 4, limitazione del supporto vitale in relazione con la morte del malato (ad esempio riduzione delle amine, riduzione della frazione di ossigeno inspirato); classe 5, morte cerebrale (che in questo contesto non ci interessa). Importante è la variabilità fra le quattro classi: 23%, 22%, 10% e 38%, rispettivamente. Ma soprattutto quello che fa pensare è che in classe 1 la variabilità fra le diverse rianimazioni va da 4 a 79%, per la classe 2 è dello 0-83%, per la classe 3 è dello 0-67%, per la classe 4 è dello 0-79%. Cioè ci sono rianimazioni in America dove solo il 4% dei malati muoiono in classe 1, in altre è il 79%. All’opposto ci sono rianimazioni dove nessun malato muore in relazione a sospensione del supporto vitale, in altre rianimazioni è il 79%, cioè 4 malati su 5.

Perché succede questo? Perché non riusciamo a gestire il processo di morte in terapia intensiva? Perché probabilmente non abbiamo ancora le categorie culturali: dobbiamo ancora arrivare ad una riflessione che ci aiuti a gestire queste situazioni.

Noi veniamo da una medicina che per millenni è stata sostanzialmente descrittiva e palliativa, in cui il morire era un processo intoccabile, non avevamo nessun mezzo per sostenere un cuore che si stava fermando o un respiro che si stava affievolendo.

Poi ad un certo punto, 50 anni fa, arriva la terapia intensiva, il supporto vitale. Arriva cioè la possibilità di mettere un tubo e supportare la funzione respiratoria che altrimenti non sarebbe più sufficiente. E la possibilità di far ripartire il cuore, sostenerlo con le amine. E se si ferma il rene abbiamo l’ultrafiltrazione.

Qualche volta i supporti vitali funzionano, altre volte non funzionano. Ed in questo caso, di fatto, quello che facciamo è intervenire nel processo di morire. Purtroppo, tale intervento si riduce spesso solo ad una manipolazione dei parametri biologici (aggiustiamo il potassio, aggiustiamo la CO2, tiriamo su l’emoglobina), ma l’impressione è che - ora dopo ora, giorno dopo giorno - il malato comunque ci sfugga: il processo del morire va avanti comunque, al di là di quello che noi facciamo.

Probabilmente parte di questa difficoltà viene a noi in Italia dal fatto che non abbiamo delle norme giuridiche precise che ci aiutino. A dire il vero, noi medici abbiamo un bellissimo codice deontologico, ma purtroppo la norma deontologica in questi anni è sentita come meno importante di quella giuridica.

 

A questo punto probabilmente un aiuto viene dal porsi 3 domande.

La prima: usiamo un linguaggio adeguato? Perché alle volte le parole ci scivolano tra le mani, si consumano, vogliamo dire una cosa ma ne diciamo un’altra. Quello che dico io ha un senso per me ma rischia di avere un senso diverso per gli altri. Per questo è importante che i concetti siano gli stessi. Allora dovremo incominciare a non chiamare eutanasia la sospensione o non esecuzione della terapia sproporzionata. Propongo al proposito il punto di vista della Chiesa Cattolica non perché penso che debba per forza essere valida per tutti ma perché è sicuramente la posizione più di garanzia in questo senso, ed è quindi accettabile anche da chi ha posizioni diverse: “Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati. Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto accanimento terapeutico, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e la sua famiglia. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte.” ([12])

Allo stesso tempo, dovremmo incominciare a non usare più il termine di “accanimento terapeutico” perché è un termine così caricato di grande negatività che nessuno ammette di farlo. Se si chiede in giro, nessuno sostanzialmente lo fa. Ma di fatto si fa. Se cominciassimo a parlare di eccesso terapeutico cominceremo a capirci meglio. Gli inglesi usano il termine “over-treatment” che potremmo tradurre con trattamento sproporzionato, cioè un termine meno assoluto e che introduce in qualche modo un concetto di relatività che ci costringe a farci delle domande. Trattamento sproporzionato rispetto a che cosa? A quello che vogliamo ottenere? Rispetto a quello che sono le aspettative del malato? Rispetto quello che sono le aspettative della famiglia? Probabilmente potremmo incominciare a ragionare di più e a parlarci di più su questo problema.

 

La seconda domanda è per chi lavoriamo? Nella maggior parte dei casi la risposta è irrilevante, e ognuno di noi lavora per un mucchio di motivi diversi: per mantenere la famiglia, perché gli piace, perché in un qualche modo quando le cose vanno bene pensa di essere stato utile. Il risultato in fondo non cambia. Ma ci sono situazioni in cui bisogna chiedersi effettivamente per chi lavoriamo. Poi alla fine scopriamo che l’unico motivo per cui lavoriamo sono i nostri malati, cioè la gente che ha bisogno che noi siamo lì. Ed è sostanzialmente a loro e a noi stessi che moralmente dobbiamo rendere conto.

 

La terza domanda è qual è il fine del nostro lavoro? E non fa male scoprire che noi non dobbiamo sconfiggere la morte. E’ una stupidaggine solo a pensarci. Non gestiamo nemmeno la salute, che è un fine estremamente personale e diverso per ognuno. Gestiamo scienza medica, farmaci, interventi, diagnosi, terapia per assicurare il miglior livello di salute possibile ai nostri malati nel rispetto della loro dignità. La scienza medica ed infermieristica che noi gestiamo sta alla salute come le leggi stanno alla giustizia. La salute e la giustizia sono i fini a cui vogliamo arrivare, i mezzi che abbiamo sono la medicina, sono le leggi.

Con questo dobbiamo fare i conti. Sapendo che per i malati in cui l’efficienza non ha più spazio perchè di fatto non c’è più nulla da fare, l’importante non è fare qualcosa, ma fare le cose importanti. E se alla fine morire bisogna, è la qualità di quel morire la cosa più importante: la prima e l’ultima di cui valga la pena preoccuparsi.

 

Un bozza di protocollo

 

Vi propongo ora quello che è la bozza di un protocollo a cui stiamo tentando di lavorare da anni.

Premetto che non è quello che facciamo sempre, ma un tentativo di esplicitare quello a cui vorremmo arrivare quando ci si trova in queste situazioni.

Si divide in due parti: la prima tratta l’aspetto decisionale, cioè come arrivare ad una decisione che sia valida clinicamente, “buona” moralmente e difendibile dal punto di vista medico legale.

Perché non possiamo illuderci che il non prendere decisioni ci salvi: il non prendere decisioni è proprio il modo peggiore per prenderle.

 

L’aspetto decisionale

Il primo punto è che ogni paziente va considerato in trattamento pieno finché non viene ufficialmente deciso il contrario. Questo vuol dire che le cose devono essere chiare, per evitare che quello che viene fatto di giorno non sia capito e condiviso dal medico di guardia che arriva di notte e che decide di farne un’altra, magari in senso contrario.

Tale decisione ufficiale, in emergenza (cioè per il malato critico che arriva di notte) può essere presa dal medico di guardia, dopo aver sufficientemente chiarito diagnosi e prognosi del malato, aver discusso con i familiari e gli infermieri presenti e aver comunicato loro la decisione finale.

Al di fuori dell’emergenza, cioè nella maggioranza dei casi dei malati che muoiono in terapia intensiva, l’approccio viene discusso in una riunione convocata su richiesta di un familiare o di un operatore della terapia intensiva. Vi partecipano gli operatori che lo desiderano, il responsabile della terapia intensiva, l’infermiere che ha in cura la persona, il caposala, il medico curante (il neurochirurgo, il cardiochirurgo, l’oncologo che seguono il malato) e gli operatori che lo desiderano.

 

La discussione verte sui seguenti aspetti: la clinica, i soggetti coinvolti e una possibile soluzione.

La clinica significa che è impossibile prendere decisioni su dati clinici inadeguati. Se dobbiamo decidere qualcosa dobbiamo essere sicuri dei dati clinici che abbiamo. Questo non significa che dobbiamo fare una tac o una risonanza se questa poi alla fine non cambia l’essenza della decisione; però i dati devono essere ragionevolmente certi per la diagnosi e per la prognosi.

I soggetti coinvolti: è importante capire quali sono i soggetti che vanno coinvolti nella discussione e che verranno coinvolti nella decisione finale, essere sicuri che abbiano capito la diagnosi e la prognosi del malato (soprattutto i familiari, ovviamente), e definire quali sono i diritti che dovranno essere rispettati ed i bisogni che devono essere soddisfatti dalla decisione.

La possibile soluzione può essere sostanzialmente di tre tipi:

1) un trattamento massimale senza limitazione, quando si decide che si tratta di un paziente per cui vale la pena di andare avanti;

2) una terapia massimale ma limitata nel tempo (time-limited, definendo chiaramente il tempo che ci si dà: “andiamo avanti 24 ore, 48 ore, e poi facciamo il punto”) o limitata per eventi che poniamo come soglia (event-limited, del tipo “proviamo ad andare avanti, ma se compare un’insufficienza renale non partiamo con un’ultrafiltrazione).

3) una limitazione diagnostica terapeutica.

E’ importante poi definire quali sono gli ostacoli prevedibili per attuare tale decisione, quali le soluzioni, quali gli eventuali interventi che possono allargare il consenso.

 

Ovviamente, la decisione finale va riportata, spiegata e motivata in cartella clinica. Questo è l’unico modo per dare una dignità di decisione adeguata a quello che stiamo per fare. E’ un modo per chiarire che ci si è riuniti e si è deciso insieme quale fosse la cosa migliore da fare nell’interesse del malato.

 

L’eventuale decisione di un limite diventa operativa quando è comunicata, compresa e condivisa da tutte la figure coinvolte nella decisione. Ovviamente tale decisone, essendo una decisione di adeguatezza clinica, può essere modificata in qualsiasi momento purché  ciò sia motivato, condiviso, spiegato ai familiari e sia riportato in cartella.

 

L’aspetto operativo

Una volta presa una decisione, questa  va messa in pratica. E questo è l’aspetto operativo.

La decisione presa va comunicata ai familiari dal medico responsabile assieme all’infermiere di che ha in cura la persona.

In generale e quando è possibile, la decisione concordata di sospendere i supporti vitali si realizzerà nel tentativo - entro la mattina successiva - di svezzare il malato onde poterlo trasferire in reparto di degenza dove si rende più semplice la presenza dei familiari al momento del decesso. Se ciò appare ragionevolmente impossibile, vanno sospesi i farmaci e rimosse le strumentazioni il cui scopo non sia quello di permettere una morte dignitosa e priva di sofferenza. Ogni qualvolta si renda necessario devono essere fornite sedazione ed analgesia adeguate, perché non c’è nessun motivo per cui il malato debba morire con sofferenza e con dolore.

Uno dei grossi problemi affrontati è stata la gestione del tubo tracheale: lo rimuoviamo, lo lasciamo al suo posto mettendoci un filtro e staccando il respiratore, lasciamo il ventilatore e riduciamo il supporto e la frazione di O2 inspirato?

Abbiamo pensato che la decisione non può essere presa a priori per tutti, ma va incarnata nel caso clinico. La gestione del tubo tracheale va decisa di volta in volta a seconda del caso specifico, del malato, della posizione dei familiari e della loro comprensione del quadro clinico; peraltro non ci sono controindicazioni assolute all’estubazione del malato terminale.

Fondamentale è che i familiari siano costantemente e adeguatamente informati di quanto viene fatto.

Salvo situazioni particolari vi è una maggiore libertà all’accesso dei parenti del malato terminale; in particolare, si rende necessario avvisarli per tempo, allentare gli orari per le visite e rimuovere ogni ostacolo per un contatto fisico.

Le esigenze dei familiari vanno capite, interpretate e soddisfatte. Quelle più importanti sono di stare vicino al morente, di non sentirsi inutili, di essere informati sulle sue condizioni, di capire cosa viene fatto e perché, di essere rassicurati sulla adeguatezza delle decisioni prese, di sapere che il loro caro non soffre, di essere aiutati a trovare un senso nella morte del congiunto, di essere confortati, di poter esprimere dubbi e emozioni, di avere se necessario un supporto esterno – anche religioso, di avere all’occorrenza un ristoro fisico (alla fine diventa indispensabile una sedia, un bicchiere di thé).

Tempi e modi della presenza dei familiari al letto del malato vanno gestiti dall’infermiere responsabile della stanza in relazione alla complessità dei suoi impegni assistenziali globali

Salvo eventi eccezionali, deve essere data sempre ai familiari l’opportunità di essere presenti al momento del decesso. E’ infine opportuno che il medico e l’infermiere siano presenti in stanza al momento del decesso.

 

Vorrei terminare con una frase di Dunstan che riassume bene il senso di tutto questo: “il successo della terapia intensiva non va misurato solo dalle statistiche di sopravvivenza, come se ogni morte fosse un fallimento dal punto di vista medico; va invece misurato dalla qualità delle vite che vengono conservate, dalla qualità delle morti e soprattutto dalla qualità delle relazioni umane che vengono coinvolte per ogni morte” ([13]).



[1] Il contenuto di questo testo (soprattutto per quanto riguarda il protocollo presentato nella seconda parte) è frutto del lavoro di gran parte del personale infermieristico e medico del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Vicenza che in molte diverse ed in occasioni riunioni ha discusso i problemi esposti. A tutto il personale del Dipartimento va quindi il merito ed il riconoscimento per la fatica fatta. Il nome posto sotto il titolo rappresenta la persona che ha fatto lo sforzo di preparare la relazione per il congresso di Sorrento e di rivedere la sbobinatura del testo in vista di questa pubblicazione.

Per quanto riguarda a forma, si è ritenuto di poter mantenere la discorsività presente nella sbobinatura della relazione.

[2] Hasting Center, 1987

 

[3] Civetta J., Crit Care Med, 24(2): 346-351, 1996

[4] “No single factor or combination of factors, such as morbidity scores or unwitnessed asystolic arrest, meets the criteria for quantitative futility. (…) No reliable criteria are available to determine neurological outcome during cardiac arrest. (…) A scoring system using patient or resuscitation variables with acceptable sensitivity for accurately predicting a universally poor outcome is not available.” Tratto da AHA, Circulation, 102(I): I-12I-21, 2000.

[5] “Judgments for individual patients are based on clinical decision-making and not on infallible prognostic scoring systems. In fact, none of the current systems can accurately predict which specific patient will die.” Sprung CL, Intensive Care Med 22: 1003-1005, 1996.

[6]End-of-life decisions are not easy and can be influenced by various factors, including the age and experience of the doctor, the country and the culture of origin, the attitudes of the country/area in which the doctor is currently working, and religious beliefs.” Vincent JL, Crit Care Med 29(S):N52-N55, 2001.

[7] “In only one of 12 scenarios more than 50% of the respondents made the same treatment choice. In eight of 12 scenarios, more than 10% of the respondents chose the opposite extreme. The same patient may thus receive full aggressive intensive care from one health care provider and only comfort measures from another.” Cook DJ, JAMA 273(9):703-708, 1995.

[8] “… there is an extreme doctor variability in defining a patient’s prognosis or futility and in decisions of forgoing life-sustaining treatment.” Sprung CL, Intensive Care Med 22: 1003-1005, 1996.

[9] “Less then 4.5% of patients were judged to be competent to make treatment decisions, throughout their ICU course.”

Prendergast TJ, Am J Respir Crit Care Med, 155: 15-20, 1997.

[10] “The patient’s willingness to limit his/her own care was known in only 8% of cases; only 0.5% of the patients were involved in decisions.” Ferrand E., The Lancet 357: 9-14, 2001.

[11] Prendergast TJ, Am J Respir Crit Care Med 155: 15-20, 1997.

[12] Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae, 65.

[13]The success of intensive care is not to be measured only by the statistics of survival, as though each death were a medical failure. It is to be measured by the quality of lives preserved or restored; and by the quality of dying of those in whose interest it is to die; and by the quality of human relationships involved in each death.”  Dunstan GR, Anesthesia, 40:479, 1985


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