Verso un sistema
sanitario più sicuro. La necessità di
imparare dagli errori.
Riccardo Tartaglia, Firenze
Medico Specialista in Igiene e Medicina Preventiva
e in Medicina del Lavoro. Direttore del Centro Regionale per la gestione del
rischio clinico e la sicurezza del paziente - struttura di governo clinico
della Regione Toscana
Desidero
ringraziare Aniarti per l’invito e per la qualifica di esperto, datami, in
questa tavola rotonda. Per ridimensionarne il significato vorrei dire che
l’esperienza “è la somma degli errori che compiamo nella nostra vita”.
Vorrei
cominciare questo mio intervento citando “To err is human”, il rapporto
pubblicato nel 2000 dall’autorevole ”Institute of Medicine”, che dava una nuova
impostazione allo studio delle malpractice. Partendo dal presupposto che la
rischiosità è insita in tutte le pratiche mediche e che sbagliare è umano, è
per questo necessario introdurre nei sistemi sanitari dei meccanismi e delle
barriere per intercettare gli errori prima che arrivino alla loro conseguenza
finale, l’evento avverso.
“To
err is human” faceva conoscere la parte sommersa dell’iceberg degli incidenti
in medicina, quella che è generalmente sconosciuta ai cittadini, fornendo dei
dati sconvolgenti sul numero di morti conseguenti a errori dei medici.
Sulla
base di due importanti ricerche svolte nello stato di New York, Utha e
Colorado, il rapporto stimava da 44 mila a 90 mila il numero di pazienti che muoiono
ogni anno negli Stati Uniti per errori dei medici.
Altro
contenuto importante di questo rapporto era proporre l’aeronautica civile come
un modello di riferimento per quanto riguarda la sicurezza del paziente. In
questi ultimi 30 anni infatti la notevole riduzione degli incidenti aerei è
stata conseguente non solo al progresso tecnologico ma soprattutto alla
considerazione del fattore umano nell’organizzazione del lavoro e progettazione
delle macchine.
E’
opportuno però sottolineare che il sistema sanitario, è un sistema complesso
molto diverso da quello dei trasporti, fosse solo per il fatto che, quando il
pilota sbaglia, le conseguenze le subisce lui in prima persona e per la
variabilità biologica dell’essere umano, difficilmente paragonabile ad una
macchina.
Va
però detto che non sono stati gli americani i primi ad affrontare il problema
della rischiosità delle cure.
Nel
1863, Florence Nightngale aveva già
notato la differenza di mortalità per la stessa classe di malattie negli
ospedali rispetto ai pazienti trattati fuori.
Le
osservazioni di Florence Nightngale hanno evidentemente preceduto nel tempo
quello che successivamente studi più complessi hanno dimostrato. Le ricerche
che sono state condotte fino ad oggi, (le ultime si riferiscono agli anni 2000)
hanno più o meno quantificato dal 4 al 10%, il tasso di eventi avversi negli
ospedali per acuti.
Si
tratta di studi che hanno notevoli limiti dal punto di vista epidemiologico. Ne
saranno necessari altri, preferibilmente di tipo prospettico per avere delle
informazioni più precise ed attendibili sul fenomeno.
Se
vogliamo rendere più sicure le cure è però necessario iniziare a costruire dei
sistemi sanitari che si adattino ai lavoratori e non viceversa. In altre parole
degli ospedali “ergonomici”.
Questa
dell’ergonomia dei sistemi complessi, è una condizione imprescindibile per
quanto riguarda la sicurezza. Ne abbiamo discusso alcuni mesi fa ad un convegno
internazionale organizzato a Firenze su “Healthcare ergonomics and patient
safety”.
Oltre
400 ricercatori da tutto il mondo concordarono sulla necessità di introdurre
l’ergonomia (o fattore umano), nelle pratiche cliniche per adeguare il lavoro
alle caratteristiche dell’uomo-donna, al fine di costruire un ponte fra la
qualità e la sicurezza.
E’
però necessario incrementare i livelli di sicurezza nelle nostre strutture
anche attraverso un maggior collegamento fra la presa in carico, l’accoglienza
del paziente con gli aspetti più strettamente tecnologici legati alla cura e
alla terapia. Da qui l’importanza di una maggiore umanizzazione del nostro
lavoro.
In
sanità inoltre esiste una ulteriore variabile che può favorire gli errori: la
passione. Il coinvolgimento nel nostro lavoro, l’andare oltre i limiti di
quello consentito, talvolta anche come orario di lavoro, come possibilità
fisiche e cognitive per far fronte a determinate situazioni. Ma anche la
passione intesa come sofferenza, dolore con tutto il suo carico di emozioni.
La
complessità, la variabilità biologica, la passione sono solo alcune delle
peculiarità del nostro lavoro che lo rendono unico, estremamente affascinante e
bello, ma anche pericoloso proprio perché lavoriamo in condizioni di elevata
emotività e sappiamo bene come questo stato psicologico abbia delle forti
influenze sulla razionalità e sulle nostre capacità di scelta e decisioni nei
momenti critici.
Altra
questione di estrema importanza che volevo porre, è la comunicazione. La Joint
Commission on Accreditation and Healthcare Quality la mette al primo posto come
causa di eventi sentinella.
La
carenza di personale, il lavoro in sovraccarico sono sicuramente all’origine di
molti errori ma sicuramente esiste nelle
nostre strutture un problema di comunicazione.
Nel
corso di laurea in medicina, rispetto ad una attività come quella sanitaria che
ci porta a dialogare per oltre il 70% del tempo con i pazienti o con i
colleghi, non abbiamo mai ricevuto una ora di docenza in scienza della
comunicazione in modo da avere qualche conoscenza di tipo tecnico su come
comunicare.
La
comunicazione sappiamo bene essere alla base di numerosi errori, per varie
ragioni: omissioni della comunicazione per dimenticanza, per eccessiva
deferenza gerarchica, per ambiguità
semantica, per ambiguità fonetica, nomi di farmaci o di patologie simili.
Conosciamo
nomi di farmaci sui quali è facile equivocare eppure l’attenzione delle
industrie alla etichettatura ed al confezionamento dei farmaci è molto bassa.
Bisogna per questo costruire dei sistemi sanitari basati sui limiti cognitivi,
fisici, sulla razionalità limitata e bisogna tenere in considerazione la
possibilità di sbagliare. Dobbiamo imparare a convivere con la possibilità di commettere degli errori.
E’
necessario per questo creare degli ambienti per la diffusione dell’informazione
e spazi per la libera discussione tra operatori, medici e infermieri. I meeting
di mortalità e morbilità, svolti oggi nel 90% degli ospedali americani,
rappresentano uno degli strumenti più utilizzati per imparare dagli errori.
Bisogna
creare anche dei sistemi informativi per raccogliere, analizzare e diffondere i
dati sugli eventi avversi più importanti e significativi. Ma soprattutto
bisogna cercare di imparare dalle informazioni raccolte, soprattutto dai
mancati incidenti ed azioni insicure, che rappresentano la base della piramide
ed una grande occasione di apprendimento senza dover attendere l’evento
avverso.
Il
modello toscano per la gestione del rischio clinico prevede l’introduzione e
l’uso in ogni struttura di due strumenti di analisi degli eventi avversi: la
rassegna di mortalità e morbilità e l’audit clinico.
La
rassegna di mortalità e morbilità è stata resa obbligatoria almeno una volta al
mese nelle nostre strutture semplici e complesse; l’audit clinico almeno 3
volte l’anno.
Questi
incontri dovranno prevedere ovviamente la partecipazione di medici, infermieri
e tecnici.
Sono
state inoltre lanciate alcune campagne di informazione su strumenti e modalità
operative:
- l’uso della scheda terapeutica unica per evitare
errori di trascrizione;
- l’adozione di una card traccia farmaci per i
pazienti che assumono medicinali che possono, interagendo con altri, causare
gravi effetti collaterali (terapia anticoagulante);
- l’igiene delle mani negli operatori ed utenti,
mediante l’introduzione di ausili come i dispenser di gel alcolico per facilitare e favorire la pratica el
lavaggio.
E’
altresì importante anche che ogni azienda disponga di un suo sistema di
gestione degli eventi avversi e di
indicatori
specifici per la sicurezza del paziente.
Recentemente
ne sono stati messi a punto alcuni, basati sulle schede di dimissione
ospedaliera, da organismi internazionali come la Agency for Healthcare Research
and Quality e l’OCSE.
Bisogna
sicuramente conoscere di più i rischi e introdurre le buone pratiche esistenti
per la sicurezza del paziente. E’ estremamente importante dare a tutti la
possibilità di migliorare gli standard di sicurezza anche per dare maggiori
garanzie di assicurabilità alle nostre aziende sanitarie.
Quello
che non bisogna fare è invece appaltare a strutture ad hoc la gestione del
rischio. La sicurezza non è delegabile.
Oggi
è evidente, sia tra gli infermieri che i medici, il bisogno di un cambiamento.
La gestione del rischio clinico va vissuta come una responsabilità di tutti e
quindi deve essere partecipativa, bisogna rinforzare la fiducia fra pazienti,
professionisti e l’azienda.
Iniziamo
a diffondere le rassegne di mortalità e morbilità, ormai routine negli ospedali
più moderni e avanzati e la pratica del clinical audit.
Vorrei
concludere, con una citazione di Proust, che, attraverso l’autocritica a cui
dobbiamo costantemente sottoporci, da un
estremo significato al nostro lavoro:
“credere
alla medicina sarebbe la suprema follia se il non crederci non ne costituisse
una più grande, giacché da questo accumulo di errori, alla lunga, sono venute
fuori alcune verità”.