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Rimini (RN), 15 Novembre - November 2004 / 17 Novembre - November 2004

» Indice degli atti del programma

Dalla sanita' alla salute: quale il futuro degli infermieri? Tiziano Vecchiato

15 Novembre - November 2001: 10:40 / 11:20

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Dalla Sanità alla Salute : quale il futuro degli infermieri
 
Tiziano Vecchiato 
Direttore scientifico Fondazione Zancan
Presidente della 1° Sessione del Consiglio Superiore della Sanità.
 
- Trascrizione come da registrazione audio  -
 
Sono qui con voi per riflettere sui temi che fanno da guida al vostro incontro di questi giorni e anche al vostro approfondimento.
Io spero che dal lavoro di così tante persone, possono emergere anche nuove indicazioni legate agli obiettivi che vi siete prefissi con questo Convegno e in particolare tutti gli obiettivi  che entrano nel merito del processo assistenziale che vi vede parte attiva e responsabile.
A me è  stato chiesto di riflettere su due questioni : il passaggio dalla sanità alla salute e quale futuro dell’infermiere; vediamo la prime e poi da qui ricavare una agenda di investimenti sia sul piano culturale che sul piano tecnico operativo.
Anzitutto il passaggio dalla sanità alla salute.
È un passaggio che purtroppo è avvenuto solo qualche anno fa , è da tanti anni che si parla di investire in obiettivi di salute, di trasformare il sistema, il servizio sanitario italiano in un sistema che produce salute.
Ma solo con il PSN 1998-2000, c’è stato un vero e proprio cambio di rotta deciso e chiaro.
Il PSN 1998-2000, si è proprio caratterizzato per questa idea guida, dalla sanità alla salute ed il patto con i cittadini, con le persone, con le comunità  locali per la salute.
Tra il dire ed il fare, c’è di mezzo molto lavoro, quindi è ovvio che i risultati di quell’investimento si vedono via via per gradi, si possono già riconoscere in alcuni PSR in una migliore capacità sia programmatoria che operativa, che caratterizza alcune aree del nostro paese, non solo aree regionali ma addirittura bisogna cercarlo all’interno delle regioni, in alcune aree dove ci sono persone che credono in questo ed hanno investito con molta determinazione.
Oltre al PSN 1998-2000, che ha fatto questo salto si qualità e contiene una nuova visione della programmazione, che ragiona per risultati di salute e  non soltanto per risultati di assestamento o di miglioramento di sistema, noi abbiamo degli altri riferimenti che testimoniano questo cambiamento.
Le relazioni sulla salute nel nostro paese, quella del 1999 e del 2000, che fanno  questo sforzo, di rileggere il grosso investimento che quest’anno sono più di 130 mila miliardi, oltre  a questo uno sforzo direi considerevole è stato fatto dal progetto obiettivo anziani, non ancora approvato perché è stato parcheggiato, ma  le ultime notizie dicono che era stato predisposto prima dell’attuale governo e che questo governo lo presenterà alla Conferenza Stato-Regioni per l’approvazione definitiva e quindi io spero che anche questo strumento possa rendere più efficace e più produttivo, sia in termini di efficacia e anche in termini di efficienza il lavoro di chi si occupa di questa area di bisogno.
Però questo passaggio non si porta a casa solo con i cambi di etichette, è vero che c’è stato un cambiamento nella dizione, non esiste più il Ministero della Sanità, adesso è un Ministero della Salute.
Il problema è capire in che misura questa nuova rotta che è stata aperta nel 1998 proseguirà in futuro.
Io proprio nella veste di presidente della 1^ sessione del Consiglio Superiore della Sanità, ho fatto presente questi problemi al ministro, proprio perchè ho avuto la sensazione che ci sia stato un calo di tensione, un calo di investimenti, egli sottoponevo questo problema non solo per la nostra salute, ma anche per il posizionamento che l’Italia vuole o può avere nel dibattito sui sistemi di welfare europei.
Sistemi di welfare solidaristi come noi siamo abituati ad avere o sistemi di welfare che vanno verso altre direzioni.
In questo scenario dove andare a cercare i determinanti del cambiamento, e quindi da qui ricavare qualche ipotesi di lavoro, qualche risposta rispetto al futuro della vostra professione, ma dire non solo della vostra, ma delle professioni che si occupano di servizio alle persone.
La prima questione è questa, noi abbiamo purtroppo, una illusione ottica che si accompagna da molti anni e che assimila specializzazione a chiusura specialistica all’interno di microcompetenze che perdono di vista l’insieme dei problemi e dei bisogni.
C’è quindi una grande esigenza di affermare e di evidenziare che come specializzazione vuol dire  capacità di concentrarsi sul micro, ma vuol dire anche grande capacità di governare unitariamente i diversi fattori che incidono sui problemi e sulla loro soluzione.
Avremo quindi degli specialisti del segmento, ma abbiamo un grande bisogno di avere degli specialisti della globalità, e su questo io credo che gli infermieri abbiano  molto da insegnare ai loro colleghi di altre professioni, e auspico che avranno ancora più da insegnare se investiranno nel superamento di questa contraddizione, cioè di una visione della specializzazione che porta a chiudere invece che ad aprire.
Un secondo problema che può aprire anche degli scenari di sviluppo e quindi di crescita professionale: le funzioni autonome e complementari di ogni professione.
Cosa vuol dire funzioni autonome, vuol dire le funzioni che uno è chiamato  a svolgere autonomamente assumendosi responsabilità proprie indipendentemente da altre responsabilità.
Funzioni complementari cosa vuol dire, che sono funzioni che per essere agite efficacemente, devono essere realizzate condividendo responsabilità con altri centri di responsabilità, professionali e di altra natura.
Quando dico professionali ovviamente intendo altre professioni, mediche o di altra natura, quando dico invece non professionali intendo condivisione di responsabilità con la famiglia, con chi si fa carico dei problemi, a carico del volontariato, ovviamente con la persona quando può condividere responsabilità nel processo assistenziale e nel conseguimento dei risultati attesi di salute.
Quindi è molto importante sviluppare una riflessione sul ruolo e sulle potenzialità di queste funzioni complementari.
Provo ad elencare alcuni punti, alcune aree tematiche che caratterizzano poi queste funzioni, e nel farlo ho cercato di interpretare spero meglio possibile anche quelli che sono i fondamenti della vostra professione.
La prima area tematica che porterebbe a sviluppi interessanti sulla crescita professionale delle funzioni complementari è quella della risposta modulata sull’intensità del bisogno, ogni situazione di bisogno ha un suo ciclo di vita, quindi bisogna modulare la risposta per essere efficace, rispetto al ciclo di vita del bisogno.
Non sempre in sanità c’è questa capacità, anzi spesso e volentieri c’è una capacità  tecnico specifica che porta a non riconoscere che molto dell’efficacia dipende dalla capacità di modulare l’intervento sull’intensità del bisogno.
Seconda questione: la continuità assistenziale.
Per fortuna su questa questione si è aperto un dibattito negli ultimi anni ed è una continuità che va vista all’interno del contenitore operativo in cui uno lavora, può essere l’ospedale, può essere altri ambiti operativi, ma anche vista fra contenitori operativi, fra ospedale, domicilio, servizi territoriali etc.etc., cioè nel passaggio dalla fase acuta intensiva e via via ad altre fasi.
Mi è molto piaciuta la declinazione che avete individuato come guida dei lavori del pomeriggio rispetto alle diverse aree che descrivono il percorso assistenziale nei diversi contesti operativi.
L’altro problema è la funzione di orientamento.
Se uno ha  a che fare con persone, è ovvio che questa persona ha bisogno di comunicare quello che fa, ha bisogno di condividere responsabilità su quello che fa e ha bisogno di orientarle, perché se le orienta, queste persone sono più in grado di essere collaborativi rispetto al programma assistenziale.
Ecco questa funzione di orientamento è una funzione che va gestita in modo complementare, ma spesso e volentieri poi le persone sperimentano questa capacità nel rapporto con l’infermiere piuttosto che con altri professionisti.
Sono da gestire i rapporti non solo con la persona, ,ma con i mondi vitali della persona, quindi la sua famiglia o chi si occupa di quella persona.
Anche questo afferisce alle funzioni dell’area complementare, cioè stiamo parlando di una relazione che non è soltanto una relazione tecnico professionale, ma è una relazione di aiuto, quindi comprende la componente tecnico professionale operativa e deve comprendere ovviamente anche altre componenti che vanno sul fronte dell’educazione, dell’orientamento, della condivisione e delle responsabilità nelle decisioni.
Questo significa capacità di presa in carico, del bisogno, del problema, del progetto personalizzato. Questa è una partita molto impegnativa, la proposta di progetto obiettivo anziani dice che sarebbe opportuno in molti casi superare il consenso informato e di arrivare a  formulare un contratto informato con le persone, perché molto spesso il consenso è proprio l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere, quindi l’idea del contratto evidenzia di più questa necessità di fare incontrare responsabilità diverse rispetto ad una buona gestione del processo assistenziale.
E arriviamo poi ad un’altra area di riflessione che riguarda le funzioni complementari che è quella dell’integrazione professionale ed organizzativa di servizio.
Non a caso il piano nazionale linee guida, parla  di linee guida a contenuto misto, cioè dice storicamente noi ci siamo allenati, ci hanno allattato a pensare che le uniche linee guida possibili fossero quelle cliniche, ma quelle cliniche spesso e volentieri assumono spesso solo il punto di vista di una specialità clinica, non assumono un punto di vista del problema e come quel problema deve essere affrontato efficacemente.
Allora è necessario che spesso e volentieri le linee guida non siano soltanto cliniche, ma siano a contenuto misto, clinico ed organizzativo, cioè descrivono come prendere della buone decisioni professionali e descrivono come i professionisti possono condividere le responsabilità in attuazione di quelle decisioni.
Quindi vedete che c’è bisogno di un grande apporto da parte della vostra professione nella costruzione di linee guida a contenuto misto che specificano quelle che sono i contenuti dell’integrazione professionale operativa, e quelli che sono  i contenuti dell’integrazione invece organizzativa e di servizio.
Ecco se noi guardiamo dai primi esempi che ho fatto, risposta modulata sulla complessità, intensità del bisogno fino all’ultimo esempio che riguarda le linee guida a contenuto misto quindi inerenti l’integrazione ai diversi livelli, noi vediamo che le funzioni complementari possono essere poi descritte se avessimo tempo di farlo in una tabella rispetto a due capitoli:
- le funzioni complementari più propriamente connesse al processo assistenziale, quindi
      assistenziali
- e le funzioni complementari invece di tipo organizzativo che vedono credo parecchi di voi anche esercitare nel proprio ambito di lavoro delle responsabilità organizzative.
 
Questo implica sia nella formazione di base, sia nella formazione successiva, sia soprattutto nella pratica quotidiana una capacità di visione strategica dove coniugare tre dimensioni:
 
Ø l’approccio alla salute
Ø l’approccio al processo assistenziale
Ø l’approccio alle dinamiche organizzative
 
Solo rendendo compresenti queste dimensioni abbiamo una nuova professionalità che quindi assume anche le sfide del passaggio dalla sanità alla salute.
Però oggi tutto questo deve misurarsi con un nuovo problema, cioè come posizionare questa strategia professionale e di sviluppo professionale nel nostro/nostri  sistemi di welfare, perché fino all’altro ieri noi eravamo convinti e probabilmente lo siamo tutt’ora di vivere all’interno di un sistema di welfare solidarista, impegnato a ridurre le diseguaglianze nell’accesso, impegnato a garantire prestazioni eque e solidali con il bisogno rilevato.
Dopo la riforma federalista questo non esiste più, esisteranno sempre di più  dei sistemi regionali di welfare, dove non è detto che ad ogni sistema regionale corrisponda lo stesso tasso di solidarietà.
E anche su questo io vorrei in qualche modo evidenziare una contraddizione che alimenta il dibattito attuale sui sitemi di welfare.
Spesso si simila e si pensa che siano sinonimi la sussidarietà con la solidarietà, non è assolutamente vero, non sono sinonimi, perché se noi guardiamo nei paesi dove c’è un altissimo tasso di sussidarietà, quindi di responsabilizzazione dal basso, pensiamo agli Stati Uniti, c’è un bassissimo tasso di solidarietà, proprio perché questo si realizza in un sistema di tipo assicurativo.
In un sistema europeo, come il nostro in cui la logica non è di tipo assicurativo ma è di diritti di cittadinanza e quindi di solidarietà, non è detto che una spinta alla sussidarietà sia coerente con la garanzia dei diritti dei cittadini e quindi con la garanzia della tutela del diritto alla salute.
Non a caso sul tavolo delle regioni è in corso di discussione la nuova definizione dei livelli essenziali di assistenza, questa nuova definizione per chi ha visto le bozze che sono circolate elenca una serie di prestazioni che sono da garantire all’interno dei livelli di assistenza, quindi chiamiamoli dei diritti di cittadinanza , del diritto alla salute, ma non dice quanto e come le regioni devono garantirle.
Quindi è probabile che le regioni assumono decisioni anche diversificate rispetto a questo, con problemi notevoli, rispetto alla mobilità interregionale, problemi nella misura in cui le regioni riconosceranno alcune tipologie di prestazioni dentro i livelli, altre invece le inseriranno nell’elenco delle prestazioni che possono essere acquistate o a livello di libero mercato o con i fondi integrativi.
Quindi dobbiamo prepararci a questi nuovi scenari di welfare dove è probabile che nel giro di alcuni anni si creerà una divaricazione abbastanza evidente fra regioni e che porterà a rendere visibile quello che invece io  sto ponendo come ipotesi di lavoro, cioè che avremo diversi sistemi di welfare regionale e a quel punto vinca il migliore, e chi sarà il migliore, quello che garantirà maggiori risultati di salute, non maggiori e migliori risultati di sistema, cioè di pareggio di bilancio o di cose di questo tipo, perché dopo che le regioni non sono vincolate o non lo saranno, in termini di finalizzazione della spesa al finanziamento dei servizi sanitari regionali, il vero parametro di comparazione, i veri indicatori sanitari potremmo dire per il nostro paese saranno i risultati di salute riconoscibili nei tassi di mortalità, ed i tutti gli altri indicatori che voi conoscete molto bene e che appartengono ormai alla cultura del dibattito ed anche delle riflessioni di chi ha a cuore la tutela e la promozione della salute delle persone.
Rispetto ai sistemi di welfare regionali io vi sottopongo una questione che sperimentate, essendo di area critica, cioè c’è un problema di equità nell’accesso e non a caso il PSN 1998-2000 faceva della riduzione delle disuguaglianze dell’accesso, una delle strategie prioritarie, cioè ragionava così:
non è sufficiente che noi lottiamo contro le disuguaglianze di salute perché spesso e volentieri, se noi diamo le stesse opportunità a tutti, chi le prenderà, le prenderà chi ha più probabilità sociali, chi ha più informazioni, chi ha più capacità di accedere alle opportunità che sono a disposizione del mercato dei diritti.
Chi invece non arriverà a prendere le opportunità di cui avrebbe diritto, chi non è informato, chi è un soggetto debole, chi non ha nessuno che lo accompagna e lo tutela e lo sostiene.
Ecco quindi direi che l’equità e la riduzione delle disuguaglianze nell’accesso non sarà solo più un obiettivo strategico da piano 1998-2000, ma io immagino diventerà una delle questioni nodali proprio del federalismo sanitario per misurare quali sistemi saranno più equi, più efficaci, più giusti nel tutelare le persone che hanno più bisogno.
E allora qui vengo a una questione che è anche la conclusione del mio intervento che riguarda le implicazioni etiche di tutto questo.
Nell’introduzione del Presidente l’etica è stata l’anima dell’intervento, l’anima che ha visto trasformare l’idea dei confini in un’area in cui bisogna confrontarsi e mescolare le diversità per trarne valori aggiunti.
Come vengono immaginate le questioni etiche?
Sono state immaginate intanto su piano individuale, per cui c’è un etica professionale che va approfondita e che attiene alle scelte e alla bontà delle scelte che la persona professionista fa.
Questo è fondamentale, è importantissimo ma non possiamo presumere immaginare che noi viviamo sottovuoto o relazionale, organizzativo e sociale, quindi quello che io decido sotto anche l’ottica di una scelta etica devo misurarlo rispetto alle decisioni che non devo prendere da solo ma che sono chiamato a prendere con altri, quindi andrà molto sviluppata la riflessione di quella che è l’etica inter professionale, cioè le responsabilità etiche, i quesiti etici che interpellano diverse professioni nella misura in cui insieme su quel bisogno, su quella persona, debbono prendere una decisione.
E allora qui le gerarchie saltano o devono saltare perché ogni persona vale in quanto persona e non in quanto posizione organizzativa o in quanto quantità di stipendio percepisce all’interno dell’organizzazione.
Però non basta, perché in un sistema che andrà divaricandosi, quindi con diversi modelli di welfare regionali più solidaristi, più universalisti e più “ assicurativi “, con l’introduzione più o meno forzata dei fondi integrativi che faranno le regioni, ecco io qui credo che bisognerà rispolverare quella che è anche una etica sociale, cioè del professionista, dell’operatore che nel momento in cui opera deve anche chiedersi se il contenitore operativo in cui sta agendo è abbastanza altruista, equo, solidale etc., altrimenti avremo tanti vuoti a perdere fuori di un contesto di solidarietà, altrimenti ad esempio non ci preoccuperemmo dei vostri colleghi che abbiamo ricordato poco fa e potremmo fare degli altri esempi, cioè di una realtà in cui il professionista chiude le serrande finchè lavora e poi uscito dal lavoro riprende a pensare in quanto persona, mentre bisogna che la dimensione etica attraversi l’esperienza professionale sia quando uno è chiamato a decidere da solo, sia quando deve decidere con altri, sia quando si rende conto che il proprio operato in quanto categoria professionale, in quanto gruppo professionale può incidere nel miglioramento o può in qualche modo assecondare dei cambiamenti che non vanno nella direzione della equità e della giustizia sociale.

 

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