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Rimini (RN), 15 Novembre - November 2004 / 17 Novembre - November 2004

» Indice degli atti del programma

La persona politraumatizzata soccorsa attraverso il "sistema 118" Gianfranco Sason

15 Novembre - November 2001: 14:20 / 14:50

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La persona politraumatizzata soccorsa attraverso il “ Sistema 118 “
 
Gianfranco Sanson
Pronto Soccorso, Ospedale di Cattinara (Trieste)
 
Il soccorso alla persona traumatizzata: dall'evidenza alle linee guida
Esistono al mondo pochissimi studi epidemiologici che permettano di quantificare e descrivere correttamente il “fenomeno trauma”, sia a causa della carenza di informazioni disponibili durante la fase preospedaliera, sia per la mancanza di studi che, soprattutto in Europa, impieghino una definizione rigorosa di “trauma grave”. Si ricorre in genere all’Injury Severity Score (ISS)[1], scala che tiene esclusivamente conto della gravità anatomica delle lesioni e non dei parametri clinici, essendo questi profondamente influenzati dai tempi di accesso all’ospedale e dalle manovre di stabilizzazione sul terreno. Vengono considerati traumatizzati gravi i feriti che presentano un ISS>15.
Le conseguenze di un trauma sono dovute a due fattori: da un lato l’effetto diretto dell’impatto (danno primario), causato dell’applicazione di una forza su un'area del corpo, dall’altro l’insieme dei danni secondari che si determinano in conseguenza di alterazioni delle funzioni vitali e che sono legati a fenomeni come ipossia, ipovolemia, ipercapnia e manovre di soccorso scorrette. Il danno primario può essere limitato soltanto con interventi di prevenzione (es. limiti di velocità, normative antinfortunistiche) o migliorando i sistemi protettivi (es. casco, cinture di sicurezza, air-bag) con l’obiettivo di ridurre la violenza dell'impatto. La caratteristica principale del danno secondario è invece il fatto che esso può essere prevenuto, o comunque limitato, attraverso l'erogazione di manovre terapeutiche che portino al ripristino dell'omeostasi. L'entità del danno secondario è direttamente proporzionale al tempo che intercorre fra l'evento traumatico e il momento in cui avviene la correzione dei fenomeni fisiopatologici che ne sono responsabili (therapy free interval); ne consegue che l’obiettivo di ridurre la mortalità da trauma può essere perseguito solo se il ferito riceve precocemente un adeguato supporto vitale. Ma proprio l'argomento della "precocità" del supporto vitale, che rappresenta peraltro il vero nocciolo di qualsiasi strategia relativa alla gestione del paziente traumatizzato, la comunità scientifica internazionale non ha ancora trovato un consenso unanime. Esiste infatti un ampio disaccordo relativamente alla strategia da adottare per ridurre il therapy free interval, se cioè sia più corretto procedere a una stabilizzazione completa del malato sulla scena oppure se l'obiettivo sia quello di raggiungere la struttura ospedaliera nel minor tempo possibile. Tale dicotomia, che ha ingenerato una serie infinita di equivoci, ha spesso spostato l'attenzione dei ricercatori e degli operatori dal vero obiettivo del soccorso preospedaliero: ridurre la mortalità nella prima fase del trattamento, tenendo conto di quanto razionalmente e scientificamente sia da considerarsi necessario affinché il paziente critico riceva il trattamento migliore e nei tempi più brevi.
Poiché la maggior parte delle morti da trauma avviene prima che il traumatizzato giunga in ospedale, è indispensabile che un adeguato supporto vitale sia garantito già nella fase preospedaliera, soprattutto quando i tempi di trasferimento dal terreno alla struttura ospedaliera sono lunghi: in assenza di soccorso avanzato, la probabilità di decesso durante il trasporto aumenta di sette volte se il trauma è avvenuto in area rurale distante da un ospedale piuttosto che in area urbana[2]. La stabilizzazione dei pazienti sul terreno (stay and play) ha dato ottimi risultati in caso di trauma chiuso e quando sono state impiegate équipe ad alta professionalità; infatti, in presenza di trauma chiuso, in molti casi il decesso è dovuto a lesioni potenzialmente trattabili come pneumotorace iperteso, emorragie intra-addominali e anossia secondaria a lesioni del midollo cervicale[3]. La stabilizzazione avanzata sembra tuttavia non offrire vantaggi in caso di trauma penetrante, ove invece a determinare il miglioramento della sopravvivenza è la capacità di provvedere all'immediato trasporto del paziente in ospedale (scoop and run), a condizione che l'ospedale sia accessibile entro pochi minuti ed in grado di affrontare qualsiasi tipo di emergenza chirurgica.
Le due possibili differenti strategie hanno contribuito a generare uno storico equivoco, nella convinzione che fosse corretto sposare unicamente l'uno o l'altro metodo di soccorso. È per questo che l’importanza della stabilizzazione avanzata sul terreno viene ancor oggi valutata differentemente nelle casistiche statunitensi ed europee che, sulla base dei propri dati, sostengono tesi opposte a sostegno dell'una o dell'altra strategia. La discrepanza nei dati è però dovuta al diverso tipo di traumi inseriti nelle casistiche e alle diverse competenze dei soccorritori coinvolti. Le statistiche USA fanno riferimento ad una situazione in cui prevalgono i traumi penetranti dovuti a ferite da arma da fuoco o da taglio: come visto, in questo caso, i tempi di arrivo in sala operatoria sono il fattore cruciale. Nella realtà europea, dove prevalgono i traumi chiusi da infortunistica stradale, la stabilizzazione sul terreno appare più importante, purché garantita in modo "avanzato" da équipe ad alta professionalità.
Pur nella loro apparentemente inconciliabile diversità, le due strategie indicano con chiarezza la sintesi definitiva della questione: il soccorso al paziente con trauma chiuso dev'essere pianificato in modo diverso da quello al paziente con trauma penetrante, garantendo però che ogni singolo traumatizzato sia soccorso con la massima competenza.
In presenza di qualsiasi tipo di trauma, l'obiettivo del soccorso preospedaliero è di far giungere il traumatizzato nel minor tempo possibile all’ospedale più adatto per lui, ma di far sì che ci arrivi vivo e nelle migliori condizioni possibili!
Abbandonati metodi assistenziali per lo più fondati su criteri improntati alla tradizione o all'improvvisazione, tale obiettivo va perseguito attraverso lo sviluppo di linee guida per il soccorso preospedaliero basate sull'evidenza. È necessario sottolineare che, se le linee guida Advanced Trauma Life Support (ATLS) dell’American College of Surgeons costituiscono lo standard internazionale di riferimento per la gestione del paziente traumatizzato in fase intraospedaliera, non esistono a tutt'oggi modelli di riferimento per la gestione del traumatizzato in fase preospedaliera che godano di un consenso altrettanto ampio. La tipologia dei traumi e il rapporto proporzionale tra traumi penetranti e chiusi, la diversa organizzazione dei soccorsi e della rete ospedaliera, l’assoluta disomogeneità nelle caratteristiche professionali e nelle competenze degli operatori, la presenza di aspetti legislativi e normativi estremamente variabili da Paese a Paese, ha infatti comportato lo sviluppo di linee guida e protocolli sostanzialmente diversi tra loro, almeno per quanto riguarda le indicazioni all’esecuzione di manovre avanzate. Al contrario, il metodo secondo cui pianificare la prima valutazione e l’immediato trattamento del traumatizzato grave, deve garantire l’applicazione rigorosa di linee comportamentali omogenee e misurabili e, pertanto, CONFRONTABILI.
Nella consapevolezza che la riduzione della mortalità precoce e dell'incidenza di danni secondari vada perseguita tenendo conto di quanto razionalmente e scientificamente sia da considerarsi necessario affinché il paziente critico riceva il trattamento migliore e nei tempi più brevi, l’Italian Resuscitation Council, associazione scientifica che coinvolge medici e infermieri operanti nel settore dell'emergenza, ha sviluppato nel nostro Paese le linee guida per il soccorso preospedaliero avanzato (Prehospital Trauma Care - PTC). Frutto di un complesso iter di consenso multidisciplinare che ha visto gli infermieri coinvolti in prima persona, le linee guida sono divenute la base per la costituzione dei protocolli di intervento sul traumatizzato di parecchi Sistemi di soccorso.
Obiettivo delle linee guida è la definizione di una strategia che preveda la rapida valutazione del quadro clinico per individuare, e contestualmente risolvere, quelle condizioni che mettono in immediato pericolo la vita del paziente. L’obiettivo terapeutico fondamentale del supporto vitale è, in estrema sintesi, quello di garantire il più precocemente possibile una buona perfusione del cervello e degli altri parenchimi nobili con sangue ben ossigenato. Ciò si ottiene attraverso la trasposizione al trauma di uno schema di approccio nato e pensato per l’arresto cardiaco, che di seguito sarà sintetizzato: prima la garanzia della pervietà delle vie aeree (A), poi l’identificazione e il trattamento delle cause di alterata ventilazione (B), infine la verifica e il sostegno del circolo (C). L’applicazione al traumatizzato del modello comportamentale, che va affrontato sempre e rigorosamente nello stesso ordine, comporta la necessità di alcune integrazioni. In particolare, l’immobilizzazione del rachide cervicale viene considerata elemento di priorità assoluta e, come tale, assume dignità pari a quella della pervietà delle vie aeree.
 
A - Controllo delle vie aeree …
Il ripristino della pervietà delle vie aeree e il loro controllo sono più problematici nel paziente traumatizzato che non nel paziente medico, sia per la contemporanea necessità di evitare potenziali danni al rachide cervicale, sia perché i traumatizzati presentano, soprattutto quando vi è trauma cranico, una spiccata tendenza al vomito. Quando l’ostruzione delle vie aeree è una conseguenza del trauma, è raro che le semplici manovre di ripristino della posizione neutra del capo e di sublussazione della mandibola siano sufficienti a garantire il ripristino e il mantenimento della pervietà.
Il metodo migliore per il controllo delle vie aeree per i pazienti con alterato livello di coscienza, in shock o comunque con un quadro clinico che porti alla possibile compromissione della capacità di controllare le vie aeree è l'intubazione tracheale[4]; nel paziente intubato sono infatti facilitate l'ossigenazione e la ventilazione grazie al fatto che le vie aeree sono protette, è migliore il riempimento polmonare ed è garantita la protezione dall'aspirazione di sangue o contenuto gastrico nell'albero bronchiale. L’intubazione precoce del traumatizzato grave rappresenta l’intervento di soccorso avanzato di maggior impatto sulla riduzione della mortalità e degli esiti invalidanti. I dati della letteratura dimostrano che dal 15 al 35% di tutti i pazienti con trauma cranico grave vanno incontro a danni cerebrali secondari dovuti all'ipossia e all’ipovolemia verificatesi nella fase preospedaliera[5] e che se i pazienti in stato di coma (GCS≤8) vengono intubati sul terreno subito dopo il trauma, le possibilità di sopravvivenza con un buon outcome neurologico aumentano in modo sensibile[6],[7]. In una recente revisione di un’ampia casistica di decessi da trauma, la mancata intubazione in fase preospedaliera è risultata essere la causa principale di morte prevenibile[8].
L’intubazione endotracheale del paziente traumatizzato rappresenta però una manovra invasiva non priva di complicanze. La necessità di utilizzare procedure più complesse (intubazione con collare cervicale rigido in sede e con stabilizzazione manuale di capo e collo garantita da un assistente durante la manovra) e la possibile coesistenza di lesioni cranio-facciali anche gravi (alterati rapporti anatomici, presenza di sangue in cavità orale) diversificano e rendono assai critica la manovra. Non devono sorprendere pertanto i dati di letteratura, che indicano in maniera chiara che, pur in presenza di indicazioni alla sua effettuazione, la procedura viene tentata solo in un ridotto numero di casi e solo in una percentuale di casi ancora inferiore l'intubazione viene portata a termine con successo. I dati si riferiscono a sistemi di Emergenza che utilizzano sia personale tecnico o paramedico, sia personale medico che, se anche addestrato a effettuare la manovra, presenta una scarsa esperienza nell'intubazione del paziente traumatizzato. A riprova di ciò, va sottolineato che gli stessi operatori dimostrano un'efficacia vicina al 100% nell'intubazione di pazienti non traumatizzati in arresto cardiaco.
Le ovvie conclusioni di tale analisi sono, di solito, che l'intubazione preospedaliera del traumatizzato è deleteria, pericolosa, aumenta la mortalità e comporta un'ingiustificata perdita di tempo prezioso,[9]; il consiglio finale è quello di migliorare il training ed enfatizzare l'importanza della ventilazione pallone-maschera. Al contempo, si riconosce che l'intubazione effettuata sulla scena è assai diversa da quella che è possibile effettuare in ambito ospedaliero e che la manovra sarebbe senz'altro più efficace in presenza di personale adeguato e con adeguata preparazione, in grado di provvedere in sicurezza anche alla sedazione e alla miorisoluzione del paziente[10]. Sono necessari, perciò, addestramento adeguato e verifica delle abilità; la tecnica dev’essere eseguita esclusivamente da personale specificamente addestrato, che intuba frequentemente e viene periodicamente riaddestrato4.
A livello internazionale non esiste pieno consenso sui criteri per l’intubazione sulla scena del paziente traumatizzato e le norme abitualmente proposte per l’intubazione in fase intraospedaliera[11] non risultano sempre adeguate al soccorso preospedaliero. Esiste tuttavia un universale consenso sulla necessità di intubare tutti i pazienti in coma con GCS£8[12]. Winchell6 ha dimostrato che la mancata intubazione tracheale precoce nei traumatizzati cranici in coma e con GCS <9 aumenta significativamente il rischio di outcome sfavorevole; tuttavia nella sua casistica il 50% dei traumatizzati con queste caratteristiche non era stato intubato sulla scena. Un'intubazione tentata senza la sufficiente competenza e, laddove indicati, senza l'ausilio di farmaci induttori, espone il traumatizzato a rischi peggiori di quelli legati a una possibile aspirazione: tentativi prolungati di intubazione, così come l'intubazione accidentale e misconosciuta dell'esofago, espongono il malato a prolungati periodi di ipossia/anossia. La laringoscopia e i tentativi di intubazione senza farmaci si associano al rischio potenziale di incrementare la pressione endocranica, di indurre il vomito e l'inalazione e di aumentare la probabilità di intubazione accidentale dell'esofago. Pertanto, l'intubazione dei gravi traumatizzati dovrebbe essere sempre effettuata impiegando una sedazione profonda o un'induzione rapida che include l'impiego di miorilassanti; di conseguenza, la manovra va pertanto riservata esclusivamente a personale di grande esperienza e rigorosamente proscritta a chiunque, medico o infermiere che sia, non è in grado di metterla in pratica con sicurezza e competenza.
Anche se meno efficaci nell'assicurare una ventilazione ottimale, esistono una serie di alternative per il mantenimento della pervietà delle vie aeree. In tali casi, le manovre di minima sono rappresentate dall'’introduzione di strumenti come le cannule oro o rino-faringee le quali, pur caratterizzate da una minore invasività, presuppongono comunque una serie di conoscenze specifiche. L’inserimento di una cannula orofaringea, manovra normalmente insegnata anche ai soccorritori non professionali nei corsi BLS, è controindicato nei pazienti traumatizzati che conservino i riflessi, perché stimola il vomito e limita le difese delle vie aeree; l’unica indicazione al suo impiego nel trauma è quindi rappresentato dai pazienti in coma profondo, in particolare da quelli in cui il ripristino delle vie aeree debba essere ottenuto in modo rapido: l'arresto respiratorio e l'arresto cardiaco costituiscono le indicazioni elettive. Nei pazienti in coma, ma con normale attività respiratoria, è preferibile l'impiego di una cannula rinofaringea, in genere meglio tollerata della cannula di Guedel in quanto raramente provoca il vomito. L’applicazione dal presidio deve avvenire esclusivamente a opera di personale professionale specificamente addestrato. Le indicazioni principali riguardano pazienti traumatizzati con ostruzione anche parziale delle vie aeree e conseguente desaturazione, anche in presenza di riflessi di difesa, purché inadeguati a proteggere le vie aeree. La cannula rinofaringea trova inoltre indicazione d’uso nell’ingombro delle prime vie aeree da sangue e/o secrezioni, poiché facilita le manovre di aspirazione attraverso il suo lume. Le complicanze legate all’utilizzo della cannula rinofaringea sono per lo più dovute a manovre scorrette. La cannula è invece controindicata nel bambino per la fragilità delle strutture e in tutti i casi di grave trauma facciale, dove i rischi superano i vantaggi; una controindicazione relativa è data dalla presenza di segni di frattura della base cranica. Nel grave trauma facciale, una lesione diretta dell’orofaringe e/o del rinofaringe può tuttavia rendere impossibile il ripristino della pervietà senza il ricorso a manovre avanzate complesse e di difficile esecuzione.
 
A - ... e protezione del rachide cervicale
Non vi è dubbio che l’immobilizzazione del rachide cervicale sia da considerare elemento di priorità assoluta; pertanto, il posizionamento del collare cervicale assume dignità pari a quella della pervietà delle vie aeree.
Le lesioni del rachide con interessamento midollare sono indubbiamente le più gravi; paraplegia e tetraplegia post-traumatica cambiano in maniera drammatica la vita di soggetti generalmente giovani, sollevando gravi problemi terapeutici, riabilitativi, psicologici e sociali. La frequenza di lesioni vertebrali varia notevolmente a seconda del tipo di trauma, della velocità di impatto e di fattori dinamici non sempre documentati. Recenti statistiche dimostrerebbero che il 4.3% di tutti i traumatizzati presenta fratture del rachide cervicale e il 4.4% del rachide toraco-lombare[13]. Il 18% dei traumatizzati gravi che richiedono il ricovero in terapia intensiva presenta fratture del rachide, la metà delle quali con interessamento midollare; inoltre, dai dati autoptici sui pazienti vittime di trauma grave deceduti entro la prima ora dall’ingresso in ospedale, risulta che il 50% presenta fratture del rachide cervicale6. L’incidenza di fratture del rachide varia anche a seconda della dinamica dell’incidente. Le precipitazioni, seguite dalle cadute dalla moto e dai pazienti proiettati all'esterno di una vettura, comportano il più elevato rischio di lesioni vertebro-midollari.
L'assenza di segni e sintomi caratteristici di lesione midollare non è sufficiente a giustificare l’omissione della manovre di immobilizzazione. Alcuni studi hanno dimostrato che in pazienti perfettamente coscienti e con fratture del rachide, il dolore alla palpazione della colonna può mancare completamente (27% dei casi). L’assenza di dolore a livello del rachide, soprattutto dorsale, è particolarmente frequente nei feriti che presentano traumi gravi in altri distretti; nel paziente in coma o confuso (GCS£14) il dolore non viene riconosciuto nel 72% dei casi13. Tutto ciò a sottolineare la necessità di porre in atto una corretta immobilizzazione del rachide sul terreno, mantenendola durante il trasporto e per tutto l’iter diagnostico intraospedaliero, cioè fino alla completa esclusione di eventuali lesioni midollari[14].
 
B - Ventilazione e ossigenazione
La prevenzione dei danni secondari conseguenti a ipossiemia e ipercapnia costituiscono una priorità assoluta nel trattamento del traumatizzato, specialmente in presenza di un trauma cranico. Oltre all’occlusione delle prime vie aeree, le cause di insufficienza respiratoria acuta post-traumatica possono essere numerose e vanno dalle lesioni tracheo-bronchiali, alle lesioni ossee della gabbia toracica, alle lesioni del parenchima polmonare o delle pleure, alle lesioni neurologiche.
La valutazione della ventilazione deve essere rapida e ai problemi evidenziati, o anche solo sospettati, deve essere posto immediato rimedio. È necessario pertanto procedere a una rapida valutazione dell’attività respiratoria, attraverso l’identificazione e l’immediato trattamento di quelle cause di alterata ventilazione che possano compromettere le funzioni vitali del paziente. L’attenta individuazione e soluzione dei problemi ventilatori dovrà essere comunque completata sulla scena, anche al fine di evitare peggioramenti durante il trasporto, quando può essere più difficile intervenire.
Il primo fondamentale provvedimento terapeutico è quello di somministrare ossigeno a elevata concentrazione per correggere l’ipossiemia. Durante le manovre di soccorso e di trasporto l’ossigeno deve essere somministrato a tutti i traumatizzati gravi. Nei pazienti che respirano spontaneamente si utilizzano le mascherine con reservoir, che permettono di ottenere una FiO2 uguale o superiore all’80% (senza reservoir la percentuale massima raggiungibile è di circa il 50%) con flusso di ossigeno di 12-15 l/min e reservoir gonfio. I tempi dell’emergenza non consentono che l’elevata concentrazione di O2 eserciti una qualche tossicità. Se la ventilazione è garantita, invece, l’O2 aumenta la tensione di ossigeno arteriosa (PaO2) e la saturazione dell’emoglobina (SaO2); in presenza di circolo conservato, l’O2 contrasta i danni da ipoperfusione migliorando l’ossigenazione tissutale[15].
In caso di depressione respiratoria, apnea o gasping la ventilazione dev’essere assistita avendo tuttavia sempre cura di mantenere neutra la posizione del collo. Le molteplici tecniche di ventilazione utilizzabili variano in relazione alle condizioni del paziente e alla qualificazione del personale operante. Nei pazienti gravemente ipossici (SaO2<85% con FiO2=1), l'intubazione tracheale offre i vantaggi maggiori in quanto, oltre a garantire la pervietà e la protezione delle vie aeree, assicura anche la possibilità di una migliore ventilazione, prevenendo situazioni di ipossiemia e/o ipercapnia durante ogni fase del soccorso. Come già sottolineato per le persone con alterazione della coscienza, l'intubazione di questi traumatizzati è possibile solo impiegando una sedazione profonda o un'induzione rapida che includa l'impiego di miorilassanti; anche in questi casi la manovra va pertanto riservata esclusivamente a personale di grande esperienza.
La più frequente causa di ipoventilazione nel paziente traumatizzato grave è rappresentata dallo pneumotorace (PNX). Nel caso di PNX “ipertensivo” i grossi vasi intratoracici vengono compressi e il ritorno del sangue al cuore è diminuito. Si può giungere rapidamente all’arresto cardiaco. Il PNX iperteso è una delle più importanti cause di morte nei gravi politraumatizzati[16] ed è, insieme alle emorragie non controllate, la più importante e sottovalutata causa di morte evitabile. La presenza di un PNX iperteso deve sempre essere sospettata ed esclusa. Nell’emergenza preospedaliera la diagnosi di PNX iperteso è necessariamente clinica e può essere ottenuta rapidamente mediante una puntura esplorativa.
Esiste generale consenso sulla necessità di procedere quanto prima alla decompressione di un PNX nei pazienti emodinamicamente instabili. Tuttavia, nonostante la decompressione del PNX iperteso sia stata descritta come il fattore principale che comporta un miglioramento della sopravvivenza in fase preospedaliera[17], è ancora del tutto aperta la discussione sull'opportunità di procedere alla decompressione già sulla scena. Una serie crescente di Autori è orientata nel ritenere che il riconoscimento e la decompressione del PNX iperteso devono entrare a far parte delle linee-guida per la gestione preospedaliera del paziente con trauma grave, unitamente alla pervietà delle vie aeree, alla protezione del rachide, alla somministrazione di ossigeno e al rimpiazzo volemico. È pertanto necessario che tutto il personale professionale che opera nell'emergenza sia in grado di eseguire, correttamente e sulla base delle proprie competenze, manovre diagnostiche invasive e non convenzionali, la più importante delle quali è probabilmente la decompressione d'emergenza con un grosso ago, preceduta dalla puntura esplorativa. La decompressione con ago, procedura pressoché priva di complicanze e a basso profilo per ciò che concerne la manualità, per la percentuale d'inefficacia descritta da vari autori dev'essere considerata unicamente quale manovra salvavita, da utilizzare in particolare nella fase preospedaliera. Il golden standard è rappresentato dal posizionamento di un drenaggio di grosso calibro nel più breve tempo possibile.
A fronte di tali evidenze, è stato tuttavia dimostrato che la capacità di mettere in pratica la decompressione toracica d'emergenza sulla scena non è uniformemente presente fra le squadre di soccorso facenti parte dei Sistemi di emergenza territoriale, ma che esiste inoltre una sorta di riluttanza anche nei confronti delle tecniche più semplici. Sovente, medici e infermieri operanti nell'emergenza territoriale si cimentano assai volentieri, ad esempio, nell'intubazione endotracheale, mentre la decompressione con ago, ma anche la stessa puntura esplorativa, vengono difficilmente messe in pratica. Eppure, com'è noto, i rischi associati a un'intubazione malriuscita sono assai più elevati di quelli legati all'esecuzione di una decompressione toracica d'emergenza. Gli operatori sembrano però dimenticare che, mentre esistono numerose efficaci alternative all'intubazione per garantire la pervietà delle vie aeree, nel traumatizzato con PNX iperteso tali alternative non esistono: o si decomprime presto, o il malato muore. A creare questo assurdo paradosso vi è certamente la sensazione di non rischiar nulla nel tentare un'intubazione anche difficile, potendo sempre ripiegare su metodiche meno complesse. Accanto a ciò, tuttavia, vi è probabilmente la mancata percezione dell'immediatezza delle conseguenza di un PNX iperteso non trattato.
 
C - Controllo delle emorragie e correzione dell’ipotensione
Le cause più probabili di shock in un traumatizzato sono l’emorragia, e quindi la diminuzione della massa ematica circolante nei vasi (ipovolemia assoluta), la lesione midollare, con aumento della capacità dei vasi e conseguente diminuzione della pressione arteriosa (ipovolemia relativa), oppure ostruzioni meccaniche al circolo, come nel PNX iperteso o nel tamponamento cardiaco, ove pertanto venga a determinarsi un alterato ritorno venoso al cuore con conseguente diminuzione della gittata. È ovviamente possibile e frequente il riscontro di un’associazione delle cause sovracitate.
Il valore della pressione arteriosa è un buon indicatore dell’entità della perdita ematica, ma questa correlazione dipende dal tempo intercorso fra l’evento traumatico e il momento della prima valutazione. È infatti necessario tenere conto del fatto che la riduzione dei valori di pressione arteriosa conseguente all’emorragia non compare subito, per cui inizialmente emorragie anche gravi possono accompagnarsi a valori di pressione arteriosa normali; affinché compaia ipotensione, è necessario che si verifichi una perdita di almeno il 30% della massa ematica, in senso assoluto o relativo. Pertanto il valore della pressione non è l'unico indicatore di uno stato di shock, che va sospettato sempre in tutti i traumatizzati con estremità fredde e pallide, tempo di riempimento capillare aumentato, tachicardia con polso piccolo (ad eccezione dello shock spinale, in cui può essere presente bradicardia), tachipnea, stato confusionale fino all'agitazione e al coma.
Da un punto di vista pratico, tutti i casi di shock nelle vittime di un trauma vanno trattati come se presentassero un problema di ipovolemia (l’emorragia rappresenta il 90-95% dei casi di shock nel politraumatizzato), almeno fino a che eventuali segni clinici specifici (enfisema sottocutaneo, segni di lesione midollare) non indirizzino diversamente. L'evidenza scientifica attualmente indica che la precoce normalizzazione dei parametri vitali e il ripristino di valori pressori ottimali siano in grado di migliorano la sopravvivenza dei traumatizzati. A fronte di questa indicazione apparentemente banale, è proprio sul concetto di "normalità" dei valori pressori che gli operatori mostrano spesso i dubbi più importanti e, di conseguenza, commettono i più gravi errori.
Le linee guida Prehospital Trauma Care di Italian Resuscitation Council[18] hanno affrontato il problema in modo nuovo, stabilendo obiettivi differenziati a seconda della tipologia del trauma e identificando per ogni categoria un appropriato obiettivo pressorio da raggiungere e mantenere:
- Trauma cranico: PAS³110mmHg. Studi relativi all’effetto dell’ipotensione nel traumatizzato cranico hanno permesso di stabilire che la presenza di ipotensione anche di breve durata nella fase preospedaliera si associa a un incremento di 15 volte nel rischio relativo di morte nel traumatizzato cranico grave, mentre se l’ipotensione compare in fase ospedaliera il rischio aumenta di 12 volte[19],[20]. Viceversa, la preoccupazione che il reintegro della volemia con il ricorso a una terapia infusionale aggressiva possa tradursi in un incremento della pressione intracranica si è rivelata infondata[21] a differenza di quanto era ritenuto in passato. Pertanto, gli attuali protocolli sul trattamento del trauma cranico delle società americane ed europee di neurochirurgia, indicano come obiettivo pressorio il mantenimento di pressioni sistoliche sistemiche maggiori di 110 o 120 mmHg o pressioni medie maggiori di 90 mmHg[22].
- Trauma penetrante: PAS=70 mmHg o mantenimento della coscienza. Le lesioni penetranti del torace o dell’addome impongono un’immediata ospedalizzazione, non potendo giovarsi d’altro se non di un immediato intervento chirurgico. Numerosi studi hanno dimostrato che l’espansione volemica nel paziente con trauma penetrante si associa ad un aumento della mortalità[23], in quanto esiste l’evidente rischio di sostituire in breve tempo buona parte della massa ematica con i fluidi stessi, determinando emodiluizione e riducendo la coagulabilità del sangue. Inoltre, l’entità dell’emorragia aumenta proporzionalmente al valore della pressione arteriosa. Non esistendo la possibilità di un tamponamento esterno, è importante limitare la quantità di fluidi reinfusi, con l’obiettivo di mantenere la pressione sistolica su valori di almeno 70 mmHg per garantire una sufficiente perfusione cerebrale.
- Trauma chiuso: PAS=90 mmHg. Nei traumi chiusi, a differenza dei traumi penetranti, si verifica una certa autolimitazione delle perdita almeno in fase acuta e una parte dei liquidi infusi rimane nei vasi. La terapia chirurgica dei traumi chiusi richiede generalmente una conferma diagnostica ed è pertanto meno immediata di quella delle lesioni penetranti. Benché non esistano dati confermati in letteratura, la condotta probabilmente più ragionevole è quella di limitare le infusioni alla quantità necessaria al mantenimento di un’adeguata pressione di perfusione del cervello e dei parenchimi nobili (indicativamente PAS=90 mmHg) ricorrendo alla minor quantità possibile di infusioni. Tuttavia, in caso di trauma cranico concomitante, l’esigenza di evitare ipotensioni anche transitorie è predominante.
Allo stato attuale, le linee guida accettate internazionalmente prevedono il ripristino della normotensione attraverso la sola somministrazione di fluidi, anche se, per ciò che concerne la fase preospedaliera, la necessità di ricorrere alla terapia infusionale è argomento ancora controverso. Molti Autori ritengono che le somministrazioni preospedaliere di fluidi siano inutili e non incidano in maniera favorevole sulla mortalità da trauma; oltre ai possibili effetti nocivi delle infusioni, ad essere sotto accusa è anche la perdita di tempo che l'incannulamento della via venosa e l'instaurazione della terapia infusionale determinano in vista della realizzazione dell'emostasi chirurgica[24],[25],[26]. 
È essenziale però analizzare con attenzione i lavori citati. Si noterà che gli studi sono stati realizzati su vaste casistiche di traumatizzati, comprendenti molti traumi penetranti, per i quali sono noti i rischi legati al ritardo nel trattamento chirurgico definitivo e la pericolosità di procedere alla terapia infusiva. Tutti i lavori inoltre concordano nel denunciare almeno tre elementi essenziali: la riluttanza del personale nell'instaurare la terapia infusionale, la scarsa padronanza nella tecnica dell'incannulamento venoso periferico e, soprattutto, la minima quantità di fluidi infusi (mediamente meno di un litro di cristalloidi nella fase preospedaliera). È noto che, dopo una breve permanenza nel circolo ematico, l’80% circa delle soluzioni di cristalloidi si sposta nel comparto extravascolare ed extracellulare. Pertanto, l'impatto emodinamico di un litro di soluzione fisiologica, pari a circa 250 ml di espansione volemica reale, non dovrebbe poter essere ragionevolmente responsabile, né in positivo, né in negativo, di alcun impatto sull'outcome dei traumatizzati. Parallelamente, però, la denuncia per la perdita di tempo sulla scena è senz'altro giustificata se la manovra non ha perseguito un obiettivo di reale impatto sulla volemia, soddisfacendo contemporaneamente l'esigenza di assicurare un quantomai difficile equilibrio fra la garanzia di un'adeguata perfusione tissutale, mantenendo l'emorragia a livelli minimi, e la necessità di contrarre il più possibile i tempi che separano il malato dalla diagnostica d'urgenza o dal tavolo operatorio. 
La scelta di merito relativa all’utilizzo di soluzioni di colloidi o di cristalloidi è stata oggetto di un ampio dibattito negli ultimi anni, senza che sia stata dimostrata la superiorità degli uni sugli altri. In mancanza di dati a favore di uno o dell’altro tipo di fluido, la maggior parte dei protocolli internazionali prevede esclusivamente la somministrazione di cristalloidi. È in tal caso necessario tener conto che, in base alla già citata fisiologia della distribuzione dei fluidi, il volume da reinfondere sarà di 4-5 volte maggiore qualora si utilizzino cristalloidi anziché colloidi. La quantità infusa di colloidi, al contrario, rimane quasi interamente all’interno del comparto intravascolare, con corrispondenza precisa, almeno in fase acuta, fra volume da reinfondere ed effettiva espansione volemica. Fatta salva la spesso denunciata riluttanza del personale addetto al soccorso preospedaliero nell'instaurare la terapia infusiva, in realtà la potenzialità di infondere fluidi in quantità massiva esiste ed è tecnicamente di semplice realizzazione. L’utilizzo di cateteri di grosso calibro (14G) in associazione alla sacca a pressione consente di infondere all’incirca 400 ml/min di fluidi18,[27], ossia poco meno di un litro al minuto con due vie venose periferiche. Applicando questa strategia, la capacità di ogni operatore professionale di provvedere efficacemente alla terapia infusionale nel paziente con shock traumatico è indubbiamente enfatizzata. Presupposto fondamentale è, anche in questo caso, la disponibilità di personale professionale di grande esperienza, non solo in grado di provvedere rapidamente all'incannulamento di una o più vene periferiche con aghi di grosso calibro, ma anche di stimare le perdite ematiche del paziente e di provvedere alla terapia infusiva in maniera corretta.
Molti studi hanno analizzato i tempi necessari a EMT e paramedici per assicurare una via venosa nei pazienti traumatizzati; tali tempi risultano decisamente elevati (mediamente 4.1 minuti[28]), a fronte di volumi medi infusi inferiori ai 1000cc di cristalloidi che, come in precedenza è stato evidenziato, determinano un impatto emodinamico decisamente limitato e non significativo. L'esperienza media rilevabile in molti Sistemi d'Emergenza italiani è in assoluta controtendenza e la capacità degli operatori di assicurare un accesso venoso di calibro adeguato e di instaurare la fluido terapia è eccellente. A provvedere all'incannulamento è nella stragrande maggioranza dei casi, l'infermiere professionale che, di norma, arriva per primo sulla scena. Un recente studio condotto in Friuli-Venezia Giulia[29], che ha preso in considerazione circa 250 pazienti incarcerati con trauma grave, ha dimostrato che a tutti i pazienti soccorsi è stato assicurato almeno un accesso venoso periferico, anzi, al 96% di tali malati è stato incannulata anche una seconda vena. Il tempo necessario ad assicurare la prima via venosa è stata mediamente di 1.7 minuti e nei pazienti ipotesi, ove è maggiore l'urgenza di provvedere alla normalizzazione della pressione arteriosa, il tempo necessario è stato di 1.5 minuti. Tempi lievemente superiori sono stati registrati per la seconda via venosa (1.7 minuti nei pazienti ipotesi contro 2 minuti della media totale). Il volume medio infuso pari a 2.480 ml, di cui 1.196 di colloidi e 1.284 di cristalloidi; l’infusione precoce e massiva di fluidi è stata in grado di migliorare lo stato ipotensivo nel 75.8% dei traumi chiusi, portando la PAS oltre 120mmHg in oltre il 50% dei casi[30].
In sintesi, la valutazione dell’entità della correzione volemica in fase preospedaliera dev'essere il risultato di un processo critico, che non può prevedere l'infusione indiscriminata di fluidi ma che richiede strategie differenti a seconda del tipo di trauma. Mentre è assolutamente accettabile, anzi auspicabile, che a ogni traumatizzato sia assicurato almeno un accesso venoso, è del tutto scorretto legare alla disponibilità di una via d'infusione la necessità di iniziare comunque la somministrazione di fluidi, che spesso viene intrapresa anche in pazienti normotesi e in assenza di indicazioni precise. In assenza di indicazioni alla tereapia infusiva, l'accesso vascolare dovrebbe essere mantenuto pervio utilizzando aghi cannula a doppia via bloccati dopo lavaggio con soluzione salina; anche in assenza di cannule a doppia via, comunque, l'obiettivo di tener pervio un catetere non impone certo l'infusione di grandi quantità di liquidi! Inoltre, esiste probabilmente un eccesso nell'uso delle soluzioni colloidali, che rappresentano nell'immaginario di molti soccorritori il fluido ideale per il paziente traumatizzato. Tali fluidi invece, in virtù della loro elevata resa emodinamica, sono pericolosi se non vengono accuratamente rispettati i limiti superiori degli obiettivi pressori. Inoltre i colloidi, che peraltro espongono il paziente a rischi teorici di reazioni allergiche anche gravi, sono molto più costosi dei cristalloidi. Essi vanno quindi usati solo quando ve ne sia effettiva indicazione, cioè in presenza di ipotensione grave, e non come soluzione infusionale di routine.
Infine, appare diffusamente carente fra gli operatori la percezione dell'importanza del monitoraggio delle modificazioni dei parametri emodinamici nei traumatizzati sottoposti a espansione volemica. In altre parole, con l'aumentare dell'esperienza e delle abilità acquisite, la sensazione è che l'attenzione dell'operatore sia più per il gesto tecnico che per l'obiettivo clinico.
 
Indirizzamento del ferito
Ancorché effettuata precocemente e in maniera ottimale, la stabilizzazione preospedaliera non conclude la catena del soccorso, poiché è evidente che il trattamento del traumatizzato non si esaurisce sulla scena; la fase diagnostica e terapeutica intra-ospedaliera di emergenza rivestono un’importanza altrettanto cruciale. Alcuni studi epidemiologici, condotti sia negli Stati Uniti[31] che in Europa[32], hanno dimostrato con chiarezza che, a pari gravità, i traumi gravi trattati in pochi ospedali ad altissima specializzazione (Trauma Center) hanno una mortalità significativamente più bassa. La ripercussione immediata di tale evidenza scientifica è stata la proposta di una strategia, che va sotto il nome di centralizzazione, che stabilisce di indirizzare direttamente i pazienti dalla scena a ospedali idonei a garantire il trattamento definitivo. La strategia della centralizzazione prevede che, in presenza di un ferito con trauma grave, il compito fondamentale dell’équipe sul terreno sia anche quello di garantire la riduzione dei tempi globali di trattamento e l'ottimizzazione dell'iter diagnostico e terapeutico successivo a quello già messo in atto sulla scena. In altre parole, il personale che interviene sul terreno deve avere la competenza e l'autorevolezza per selezionare i feriti più gravi e indirizzarli alle strutture ospedaliere più adeguate (triage di indirizzamento). È necessario sottolineare che questa strategia può essere applicata solo nei sistemi avanzati, ovvero in quei sistemi regolati da precisi protocolli e normative o dove operino sul terreno équipe di soccorso avanzato in grado di stabilizzare adeguatamente i feriti.
L'efficacia e l'applicabilità del triage di indirizzamento dipende anche, e in larga misura, da situazioni locali. In alcune realtà ove esistono numerosi piccoli ospedali, ma un solo ospedale di riferimento per pazienti traumatizzati, si preferisce centralizzare anche feriti leggeri (overtriage). Il rischio di sottovalutazione (undertriage) viene così eliminato a scapito di un ingiustificato sovraccarico di alcune strutture.
Attualmente, solo in un numero minore di realtà al triage di indirizzamento viene attribuita una reale importanza. Allo scopo di evitare il rischio di overtriage, tali Sistemi si pongono l'obiettivo di selezionare per l’immediata centralizzazione solo i feriti più gravi. Poiché tale strategia spesso comporta il by-pass di alcuni ospedali e l'allungamento dei percorsi, le decisioni a riguardo sono prese da personale di riconosciuta competenza e nel contesto di una strategia concordata dall'intero Sistema. Al contempo, i criteri attraverso i quali si decreta l'indirizzamento di un certo ferito devono tutelare dal rischio di undertriage.
In sintesi, l'ottimizzazione dell'indirizzamento alle strutture ospedaliere dei feriti con trauma grave può concretizzarsi solamente a tre condizioni:
1. ogni ferito con trauma grave sia direttamente indirizzato all’ospedale di definitivo trattamento (centralizzazione), ovvero alla struttura ospedaliera in grado di completare l'iter diagnostico e terapeutico senza necessità di ricorrere a trasferimenti ulteriori, che comporterebbero rischi e ritardi. La centralizzazione immediata è il fattore che ha dimostrato la maggior efficacia nella riduzione della mortalità da trauma. In assenza di una strategia di questo tipo, l'invio di équipe avanzate sulla scena perde gran parte della propria efficienza;
2. esista un’integrazione tra l’assistenza preospedaliera e quella intraospedaliera. Chi riceve un ferito deve conoscere e condividere i criteri clinici e dinamici che hanno guidato le scelte dell'équipe intervenuta sul terreno. I criteri di triage preospedaliero devono essere pertanto conosciuti e compresi da tutti coloro che gestiscono i pazienti traumatizzati;
3. esista una strategia concordata e riconosciuta che permetta di indirizzare i feriti meno gravi a strutture ospedaliere di livello intermedio, in modo tale da non sovraccaricare gli ospedali con caratteristiche di trauma center.
Benché non esista ancora un atteggiamento univoco, i criteri adottati nelle diverse realtà per identificare i feriti da centralizzare (Tabelle 1 e 2) sono sostanzialmente molto simili; l'obiettivo è di identificare, nel modo più corretto possibile, i traumi maggiori.
 
ü GCS 12 o deficit di lato
ü Trauma del rachide con deficit motori o sensitivi
ü Ustione di 2° o 3° grado (>30% negli adulti o 20% nei bambini)
ü Trauma toracico con lembo mobile
ü Trauma toracico chiuso con PAS<90 o FR>35 o SaO2<90
ü Trauma addominale con PAS < 90
ü Ferita penetrante (esclusi gli arti)
ü Frattura di due o più ossa lunghe prossimali
ü  Amputazione prossimale a gomito o ginocchio
ü  Revised Trauma Score < 11
TABELLA 1 -  Identificazione dei traumi maggiori:
criteri clinici e anatomici di centralizzazione
 
ü Caduta da altezza superiore a 5 metri
ü Presenza di persone decedute nello stesso veicolo
ü  Proiezione all'esterno del veicolo
ü Caduta dalla moto con distacco
ü  Arrotamento
ü  Necessità di estricazione prolungata (> 20')
ü Età inferiore a 5 anni                   
TABELLA 2 -  Identificazione dei traumi maggiori:
criteri dinamici e situazionali di centralizzazione
 
Basic or Advanced: Is this the question?
La controversia tra ALS e BLS nel trauma dura da molti anni e appare ben lontana da una soluzione, ma occorre prestare grande attenzione a quali siano i reali termini della discussione. Il termine "avanzato" (Advanced Life Support - ALS) viene utilizzato, spesso impropriamente, per definire la potenzialità teorica di un’équipe a eseguire una serie di atti terapeutici considerati essenziali. Classicamente, si tende a denominare "avanzata" l'équipe di soccorso nella quale è presente il medico, senza verificare che lo stesso esegua effettivamente e in modo corretto le manovre "avanzate" e senza essere in grado di verificare la qualità del soccorso attraverso l’analisi delle prestazioni erogate. L'opportunità di impiegare personale medico nel soccorso pre-ospedaliero al paziente politraumatizzato, è stata a lungo dibattuta. La patologia traumatologica rappresenta un campo del tutto specifico, nel quale l'utilità di ogni singolo atto terapeutico deve essere valutata a fronte dell'allungamento complessivo del tempo di soccorso e dei rischi di complicanze legati all'esecuzione di manovre terapeutiche complesse in condizioni disagiate. È evidente pertanto che, perché il suo intervento comporti dei vantaggi, il medico che interviene sul terreno deve avere assoluta padronanza di tutte le manovre di rianimazione avanzata, tra le quali l'intubazione tracheale è quella che maggiormente influenza l'outcome. In caso contrario, la reale stabilizzazione delle funzioni vitali può rivelarsi impossibile da ottenere e l’impiego dello stay and play può tradursi in un ingiustificato ritardo nell’accesso alla struttura ospedaliera senza alcun vantaggio per il ferito. Ne consegue un’ovvia difficoltà a dimostrare eventuali vantaggi risultanti dall’impiego di équipe ALS nel soccorso preospedaliero, proprio perché l'etichetta "avanzato" non sempre equivale a identificare la capacità effettiva di erogare prestazioni ad alto contenuto tecnico.
La discussione su questi aspetti del soccorso, ancora controversi, non deve però costituire un alibi per coprire manchevolezze in settori del tutto conosciuti. In tal senso, è essenziale sottolineare quanto deleteria sia la mancanza di discussione su quelle manovre di minima che ogni équipe dedicata al soccorso del paziente traumatizzato deve mettere quotidianamente in atto e su cui il consenso scientifico è stato ampiamente raggiunto.
Il dibattito sulla qualità delle manovre di minima assume una rilevanza ancora maggiore se si tiene conto che in Italia esse si estendono oltre i confini del BLS americano in senso stretto. Non va dimenticato, infatti, che nel nostro Paese operano da alcuni anni gli infermieri professionali sulla maggior parte dei mezzi di soccorso e che la tendenza per il futuro è di arrivare a una copertura del 100%.
Anche sulla definizione di cosa sia da considerare "Basic" e che cosa "Advanced" a proposito del soccorso al traumatizzato non esiste un'opinione univoca. Secondo alcuni Autori americani9, ogni équipe "Basic" dovrebbe essere in grado di provvedere al controllo delle emorragie esterne, alle manovre di estricazione, alla protezione del rachide, all'effettuazione della CPR e alla somministrazione di ossigeno. A tali competenze, le équipe considerate "Advanced" devono integrare le abilità necessarie all'intubazione endotracheale, al reperimento di un accesso endovenoso e alla somministrazione terapia con fluidi e farmaci. Differente una parte dell'opinione italiana18, che pur sottoscrivendo i contenuti sovra esposti, integra nelle competenze minime delle équipe professionali dedite al soccorso al trauma la capacità di provvedere alla decompressione toracica d'emergenza con metodiche differenti a seconda del grado di preparazione dell'équipe. La presenza dell'infermiere nelle équipes di soccorso fa sì che la separazione fra BLS e ALS non sia così marcata: è assodato, ad esempio, che gli infermieri sono in grado di provvedere al reperimento di vie venose periferiche e al reintegro della volemia con colloidi e cristalloidi.
Si è già avuto modo di ricordare che in Italia la presenza dell'infermiere sui mezzi di soccorso è ormai una consuetudine, sancita peraltro a livello normativo. La preparazione di base che l'infermiere può vantare è di gran lunga superiore a quella del'EMT statunitense, figura di riferimento per il soccorso preospedaliero, che può tuttavia vantare una formazione specifica indirizzata all'effettuazione di determinate manovre d'emergenza che, spesso, non compare nel curriculum formativo dell'infermiere italiano. Anche per rispondere a questa carenza, l’Italian Resuscitation Council, ha costruito un percorso formativo, basato sulle linee guida e rivolto al personale sanitario professionale, che prevede una stratificazione delle scelte operative da mettere in pratica in determinate situazioni critiche. Le raccomandazioni previste dalle linee guida fanno riferimento a manovre e strategie che garantiscano l'applicazione delle tecniche di soccorso secondo moduli scalari, che tengano conto del livello professionale e di training specifico dei soccorritori. Una delle caratteristiche delle linee guida PTC IRC è di indicare con chiarezza le manovre che, secondo evidenza, sono da considerare le più efficaci, indicando contemporaneamente manovre di minima in grado di garantire il supporto vitale del traumatizzato nel momento in cui l’operatore non sia in grado di eseguire con competenza e in totale sicurezza le manovre avanzate che sarebbero scientificamente indicate. Il numero di manovre complesse, che presuppongono quindi un’apposita formazione, competenze elevate e il possesso di una consolidata esperienza, è volutamente ridotto, nella convinzione che, anche per lo specialista, le manovre terapeutiche nell'emergenza territoriale possono risultare molto più impegnative che nella pratica ospedaliera, per il sommarsi di difficoltà ambientali e per la disponibilità di una strumentazione che, per quanto appropriata, è spesso più limitata.
Pertanto, pur nella convinzione che la cultura dell’emergenza debba diffondersi in modo sempre maggiore, è necessario ricordare che in emergenza non ci può essere spazio per l’improvvisazione: il miglior trattamento possibile deriva dall’applicazione rigorosa di protocolli consolidati e ogni operatore deve eseguire sul terreno solo le manovre di cui ha reale esperienza e per le quali è stato addestrato.
È però necessario che ogni Sistema di soccorso stabilisca uno standard minimo di adeguatezza delle prestazioni, pianificando la prima valutazione e l’immediato trattamento del traumatizzato grave secondo criteri che garantiscano l’applicazione rigorosa di linee comportamentali omogenee e misurabili. Al contrario, accade spesso che i singoli team di soccorso utilizzino o meno una serie di procedure in maniera del tutto acritica e senza che sia posta in atto alcuna modalità di verifica. Del resto, il progresso della conoscenza scientifica è di gran lunga più rapido rispetto a ogni possibile mutazione nelle prassi locali; il gap esistente fra consuetudini operative e quanto propone la medicina basata sull'evidenza riconosce una genesi multifattoriale, legata alla disponibilità di risorse, all'investimento formativo compiuto dal Sistema e al livello professionale garantito dai singoli operatori. Il punto di partenza per qualsiasi opzione di cambiamento in senso migliorativo, deve partire dalla misurazione del livello assistenziale garantito attraverso le procedure esistenti. È essenziale che il lavoro svolto e i risultati ottenuti siano misurati con continuità in ogni singolo aspetto: un ottimo sistema intraospedaliero porterà pochi benefici se i soccorsi preospedalieri sono scadenti (es. i feriti giungono ipossici, ipotesi, non immobilizzati correttamente), così come gli sforzi di soccorritori esperti e capaci sono vanificati da una risposta ospedaliera inidonea (es. impreparazione nella presa in carico del ferito, lungaggini nella fase diagnostica, ritardi nell’accesso alle sale operatorie). L’analisi delle singole fasi dev’essere precisa, a partire dal riscontro della corretta esecuzione delle manovre previste per ogni categoria di soccorritori, fino alla verifica dell’outcome e dalla revisione degli esami autoptici (decessi, decessi evitabili, decessi in funzione di indici di gravità). I risultati del proprio Sistema devono essere quindi confrontati con quanto esistente in letteratura, con l'obiettivo di adeguarsi agli standard internazionalmente riconosciuti validi.
Non è infrequente che tale obiettivo si areni ancor prima di partire, scontrandosi con oggettive difficoltà nel reperimento dei dati, spesso ostacolata dagli stessi operatori che non amano mettere in discussione le proprie certezze. L'efficienza di un Sistema dovrebbe invece passare anche attraverso la consapevolezza che la raccolta dei dati non è uno sterile esercizio statistico, ma l’anima stessa di un processo di miglioramento del quale l'infermiere rappresenta un anello essenziale. Si tratta ora di capire se la professione è in grado di giocare il proprio ruolo in maniera completa e consapevole.
 
L'Infermiere nell'emergenza territoriale: essere o apparire?
L’organizzazione italiana dei sistemi di soccorso territoriale è la più eterogenea: vari i motivi, fra i quali il momento storico della loro nascita, i presupposti che hanno portato alla loro creazione e le risorse disponibili. In alcune realtà caratterizzate da una forte presenza sul territorio delle associazioni di volontariato, la figura dell’infermiere fatica a raggiungere il suo ruolo sui mezzi di soccorso, mentre in altre è saldamente presente da tempo e in altre ancora si sperimenta la funzione ALS con soli infermieri.
In assenza di un percorso formativo post-base e di standard clinici sanciti a livello normativo, l’infermiere sui mezzi di soccorso, laddove è presente, interpreta la professione secondo filosofie eterogenee e assai distanti fra loro. In questo panorama, è essenziale evidenziare che, se da un lato l'infermiere rivendica a gran voce il proprio giusto diritto a essere presente nell'emergenza preospedaliera, dall'altro in troppe occasioni la presenza dell'infermiere sui mezzi di soccorso non si accompagna a un miglioramento sensibile del livello assistenziale garantito, né in senso assoluto, e quindi in relazione a quanto previsto dall'evidenza scientifica, né in senso relativo, poiché spesso i traumatizzati soccorsi da personale non professionale hanno maggiori garanzie di ricevere una serie manovre di base che ogni équipe dedicata al soccorso del paziente traumatizzato dovrebbe mettere quotidianamente in atto. Se l'affermazione appare ingiustamente polemica, le possibilità sono solo due: o chi legge vive in uno dei sistema di soccorso in cui l'infermiere riveste il proprio ruolo in maniera davvero completa, oppure chi legge non ha ben chiaro quale sia lo standard MINIMO di riferimento per il soccorso al paziente traumatizzato!
Sono davvero troppe le realtà nelle quali gli infermieri soccorrono i traumatizzati e li trasportano al Dipartimento d'Emergenza senza aver loro garantito quelle attenzioni più essenziali ed elementari, doverosamente auspicabili quando il soccorso è garantito da personale professionale, quali l'utilizzo costante del collare cervicale e dell'asse spinale, la somministrazione di ossigeno, il reperimento di un accesso venoso con cannule di calibro adeguato. Ma sono molte anche le realtà in cui ai traumatizzati non viene garantito un trattamento coerente col livello di professionalità a disposizione (pazienti con vie aeree parzialmente o totalmente occluse, situazioni di shock più o meno conclamato non evidenziate o non adeguatamente trattate, lesioni non evidenziate, errori nell'indirizzamento del traumatizzato alla corretta sede ospedaliera). Lo stesso discorso, ovviamente, potrebbe essere riproposto per il malato critico con patologia non traumatica. 
Nessuna volontà di puntare l'indice contro l'errore occasionale commesso in buona fede, che rappresenta un potenziale imprevisto nella vita professionale di ogni operatore sanitario. Piuttosto, la sottolineatura della mancanza di una sensibilità che dovrebbe essere alla base della professione infermieristica e che invece in molti casi appare così aliena.
È necessario, e auspicabile, che l'infermiere senta la necessità di stabilire in maniera autonoma e responsabile il livello delle prestazioni che è tenuto a erogare, fondandole sull'evidenza scientifica, correlandole alle necessità e alla specificità dell’ambito in cui opera e, contestualmente, ponendole all'altezza del ruolo che la professione implica. In caso contrario non si capisce perché un sistema di emergenza territoriale dovrebbe sentire l'esigenza di utilizzare gli infermieri sui mezzi di soccorso, quando figure di operatori non professionali possono essere in grado di garantire prestazioni analoghe (e molto più economiche)!
L'infermiere deve saper adeguare la propria sfera di competenze ai bisogni evidenziati dal malato critico e modulare le conseguenti scelte operative sulla base di una capacità autonoma di processare la situazione contingente. Tutto ciò che riguarda il presente della professione dev'essere letto come un processo dinamico che giorno dopo giorno getti le basi per definire le strategie di adattamento alle inevitabili nuove esigenze imposte da acquisizioni scientifiche sottoposte a un continuo processo di miglioramento. In particolare, il nursing deve saper accettare la sfida dell’acquisizione di un nuovo concetto di responsabilità, che sia innanzitutto individuale, ma che riguardi l’intera professione. Dove l'infermiere ha accettato e vinto questa sfida, non c'è nessuno che disponga del benché minimo appiglio per contestare l'essenziale presenza della figura infermieristica sui mezzi di soccorso; anzi, in tali realtà la grande competenza del livello assistenziale offerto dall'infermiere ha messo in discussione non la presenza, ma l'adeguatezza delle prestazioni del medico di emergenza territoriale, che in molte realtà non garantisce quelle prestazioni "avanzate" che, certamente, in questo momento storico non possono essere garantite con sicurezza dall'infermiere (es. intubazione con sedazione e miorisoluzione). 
Parafrasando M.H. Parkinson, è possibile affermare che se il nursing vuole affermarsi come professione, deve saper modificare il suo modo di essere e le sue funzioni in risposta al cambiamento del bisogno di salute nella società. Una professione che definisce se stessa in termini immutati è una professione già morta o che sta morendo. Una professione vitale, invece, rende concreti i piani per il proprio presente e crea i presupposti per l'adattamento al cambiamento futuro. L'auspicio è quello di poter concretizzare nel tempo più breve possibile un gruppo di lavoro per la produzione di linee guida che definiscano, sulla base dell'evidenza scientifica, i livelli assistenziali che devono essere garantiti dall'infermiere dell'emergenza territoriale. Solo attraverso questo processo sarà possibile ambire a quella che è forse la caratteristica più significativa, ma anche la maggior responsabilità, di ogni professione: la credibilità.
 
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