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Congresso Nazionale Aniarti 2002

Emergenza, cure intensive e Livelli Minimi di Assitenza

Sorrento (NA), 07 Novembre - November 2002 / 09 Novembre - November 2002

» Indice degli atti del programma

Sessioni Parallele: Sala Ulisse Rosanna Montesano, Rita Megliorin, Alessandra Nicolini, Annalisa Costa,

Giovanna Morvillo, Nicola Pirozzi, Laura D’Addio


08 Novembre - November 2002: 14:10 / 17:10

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Aspetti etici dell’assistenza al neonato
Laura D’Addio
Firenze,  DAI, Professore associato in Infermieristica Università di Firenze, esperta di etica.
 
Nell’assistenza al neonato e ai genitori la questione della responsabilità è in primo piano. Sono gli infermieri stessi a dichiarare le proprie responsabilità: la salute del cliente, il suo benessere fisico e spirituale, l’informazione all’utente e ai familiari [1].  Il fatto che in molti casi la persona con problemi di salute sia particolarmente esposta all’influenza altrui è una delle ragioni per le quali l’etica rappresenta per gli infermieri, così come per i sanitari in generale, un fondamentale elemento della professionalità. Se ciò è vero in generale, lo è ancor di più quando il nostro assistito è un neonato, per definizione incompetente nel definire ed esprimere le sue scelte di salute, affidate quindi a terzi rappresentati dai genitori. Ciò è ancora più vero in un’epoca di enorme sviluppo tecnologico, di trasformazione legislativa e di profonda modificazione del costume, tutti fattori che impongono una maggiore considerazione dell’autonomia delle persone assistite, del benessere al quale hanno diritto e all’umanizzazione del rapporto con gli operatori di cui esprimono l’esigenza. Proprio in ambito pediatrico il processo di umanizzazione ha mosso i primi passi quando negli anni Ottanta i movimenti per i diritti dei pazienti hanno portato diverse Carte a sostenere il diritto del bambino a poter essere assistito dai genitori in tutta la durata del ricovero ospedaliero, senza essere allontanato forzatamente da loro.
Quello che stiamo vivendo è quindi un momento culturalmente importante, decisivo per un diverso riconoscimento del bambino e dei genitori quali interlocutori delle scelte di salute.
Guardando in modo più ampio alla responsabilizzazione di tutte le figure sanitarie a cui oggi si assiste, si deve evidenziare per l’infermiere un nuovo scenario di riferimento per la sua azione professionale: si può dire che l’infermiere è oggi riconosciuto quale  soggetto con capacità critica e riflessiva spiccata [2], un attore responsabile della scena sanitaria e un agente razionalizzante l’organizzazione.
In modo più analitico, si può dire che l’infermiere deve oggi:
  •  
    assumersi la responsabilità dei risultati più che della conformità delle azioni a norme e consuetudini. Bisogna tendere a ridurre la dispersione delle energie proprie e altrui e individuare percorsi di assistenza da assicurare più che singole prestazioni da erogare
  •  
    affrontare l’incertezza e il dinamismo assumendo decisioni, senza aspettarsi soluzioni dall’esterno e senza poter dire, tranne che in casi di possibile violazione della legge, questo non mi compete
  •  
    migliorare la propria professionalità e contribuire a migliorare l’intero sistema, proponendo soluzioni innovative a partire dalla propria esperienza, mettendo continuamente in discussione le abitudini consolidate, malgrado la sicurezza che danno, e vedendo i problemi non come meri ostacoli, bensì come opportunità di miglioramento
  •  
    rispettare e valorizzare nel luogo di lavoro le diversità culturali di cui sono portatori i diversi professionisti con competenze tecnico-specialistiche o manageriali
  •  
    contribuire ad ottimizzare l’uso delle risorse, soprattutto quelle umane, rendendole il più possibile eque ed efficienti. Si tratta di programmare il proprio lavoro e quello degli operatori di supporto, di integrarsi nell’équipe e di valutare il rapporto costi/benefici delle scelte e delle decisioni
Nella discussione sulla responsabilità fin qui affrontata la questione LEA risulta estremamente pertinente: è infatti ad diverso approccio al senso della responsabilità che la dichiarazione degli standard ci richiama. Definire i  Livelli Essenziali di Assistenza significa dichiarare all’assistito, alle sue persone significative, alla società e alla professione quali standard ci si impegna a rispettare, in un rapporto non più paternalistico, bensì di partnership con l’assistito.
 
Dichiarare all’assistito, alle sue persone significative
Dopo millenni improntati dal modello paternalistico, oggi l’attenzione dei sanitari è alla persona e alle persone per lei significative, intendendo con quest’ultime non sempre e comunque coloro a cui è legata da vincoli di parentela precisi. Questo richiama esplicitamente al modello di empowerment, che attualmente sta subentrando al vecchio paternalismo. Questo nuovo modello propone l’acquisizione di potere da parte del cliente, ovvero accrescere la possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita [3]: ciò si realizza attraverso un migliore accesso alle risorse per le persone che si trovano in condizioni di svantaggio, per esempio all’informazione. In tal modo il cambiamento individuale non viene più delegato ad altre persone o a fattori esterni, ma è sostenuto e aiutato dalla fiducia e dalla convinzione dei sanitari, che anzi si adoperano per facilitare il processo di empowerment  dei propri assistiti. In ciò è implicito un diverso atteggiamento di fondo dei sanitari verso la partecipazione dell’assistito: “ una maggiore ammissione dell’incertezza e della scarsa efficacia delle terapia medica è un passo essenziale verso una migliore presa di coscienza del cliente, in particolare verso l’autogestione della malattia su basi scientifiche, l’incoraggiamento di un più attento approccio alle cure mediche e, come conseguenza, un ruolo più attivo del paziente verso i professionisti della salute” [4]. Si tratta quindi di passare dal vecchio concetto di paziente a quello di persona pienamente responsabile di sé o, se si preferisce, al concetto relativamente nuovo di cliente. Poiché non tutti i cittadini sono ugualmente pronti a compierlo, si impone all’infermiere una estrema attenzione a rispettare il modello tipico di ogni persona. In pratica, passare da questo potere su la persona a un potere con la persona comporta per l’infermiere:
· accrescere l’autostima delle persone, fornire loro la capacità di assicurarsi da sole le risposte ai propri bisogni, compensare i deficit, sviluppare capacità fisiche e psichiche tali da ridurre la necessità di aiuto, quindi la dipendenza da altri. La persona sarà così più consapevole delle proprie potenzialità ed eserciterà un controllo sul proprio destino, che tenderà a costruire e non a subire
· riconoscere il sapere delle persone assistite, utilizzarlo e rafforzarlo nella direzione dell’autogestione, per esempio dei genitori di un bambino ricoverato in una unità di cure intensive. La competenza del genitore può essere migliorata fornendogli risorse informative, o facendogli apprendere abilità manuali specifiche, per esempio quelle necessarie alla marsupio terapia
· mobilizzare e valorizzare le capacità dei clienti, consentendo loro di valutare ciò che facilita o impedisce la realizzazione degli obiettivi stabiliti e di prendere le relative decisioni, per esempio coinvolgendoli nella scelta ponderata di un rientro a casa col proprio neonato
· permettere di utilizzare la propria esperienza per esercitare un ruolo terapeutico anche su altri individui o gruppi, per esempio facendo socializzare alle mamme di una nursery la competenza necessaria all’allattamento naturale o artificiale
 
Dichiarare alla società 
“I valori etici e deontologici propri della professione infermieristica devono garantire alle persone, a cui l’infermiere rivolge le proprie cure, che il processo di assistenza erogato rappresenta la cura e la modalità migliore per rendere sicuro ed efficace l’intero processo, in quel contesto e in rapporto ai problemi presentati. Tutto ciò si traduce nell’aver credito presso la persona e l’intera società e questo, a sua volta, rappresenta una forma di accreditamento” [5]
L’accreditamento del professionista infermiere ha molte dimensioni, poiché è costituito da:
  •  
    il credito che egli ottiene presso il fruitore dell’assistenza in base al rapporto fiduciario che la qualità verificabile del suo operato permette di sviluppare
  •  
    il credito che l’intera professione acquisisce agli occhi della società in quanto è capace di rendersi visibile e trasparente per azioni e risultati che i cittadini possono accertare come appropriati e rilevanti
  •  
    il credito del professionista come singolo e della professione nel suo complesso in relazione a una certificazione formale ed esterna, che diviene garanzia di qualità professionale
 
Quello a cui si sta assistendo è un graduale ma significativo spostamento da un processo di sola autoregolazione (tipico del mondo professionale) e revisione tra pari (cioè di valutazione interna della professione) a un processo di regolazione pubblica, ovvero a un sistema di garanzia per l’utenza regolato per legge. Tale processo mira alla definizione dell’alto livello e dell’appropriatezza delle prestazioni infermieristiche e dell’assistenza in generale, ossia alla capacità di dimostrare che l’intervento offerto è congruente col settore assistenziale, coi problemi del cliente e con lo stato dell’arte, riducendo l’autoreferenzialità professionale. Il sistema qui delineato garantisce che la qualità delle prestazioni è conforme agli standard dichiarati alla luce delle evidenze scientifiche. Le sue implicazioni dirette sono due: esso orienta all’autovalutaizone continua, sia del singolo che del gruppo, e spinge in direzione del miglioramento continuo dell’attività professionale.      
Questa attenzione prioritaria alla garanzia della professionalità ha una matrice etico-deontologica che si può far risalire a certi orientamenti filosofici e culturali del nostro tempo. Si tratta della stessa matrice che ha permesso lo sviluppo dell’evidence based medicine e dell’evidence based nursing. Garantire la competenza del professionista e la validità delle sue prestazioni è sempre stata un’esigenza morale, oltre che economica: essa è ancora più sentita dal momento in cui l’utente dei servizi non è più il paziente passivo, ma un partner e un cliente.
In altre parole, il superamento del paternalismo, ai nostri giorni in corso, comporta l’esigenza di una legittimazione diversa dal semplice e tradizionale agire in scienza e coscienza: l’accreditamento del professionista costituisce una risposta in tal senso. 
  Guardando alla deontologia infermieristica, troviamo che la norma dei professionisti è decisamente allineata al processo culturale in atto; lo esprime chiaramente il Codice Deontologico in varii suoi articoli, alcuni dei quali qui riportiamo:
 
L’infermiere aggiorna le proprie conoscenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull’esperienza e la ricerca, al fine di migliorare la sua competenza.
L’infermiere fonda il proprio operato su conoscenze validate e aggionate, così da garantire alla persona le cure e l’assistenza più efficaci . (art. 3.1)
 
L’infermiere assume responsabilità in base al livello di competenza raggiunto e ricorre, se necessario, all’intervento e alla consulenza di esperti.
Riconosce che l’integrazione è la migliore possibilità  per far fronte ai problemi dell’assistito; riconosce altresì l’importanza di prestare consulenza, ponendo le proprie conoscenze ed abilità a disposizione della comunità professionale. (art. 3.2)
 
 
 
Dichiarare alla professione
Anche se l’accreditamento professionale sta movendo solo i primi passi, è certo che una delle sue tappe essenziali consiste nella definizione di criteri e standard delle prestazioni professionali infermieristiche: questi dovranno essere individuati mediante l’opinione di esperti, la valutazione dello stato dell’arte e delle esperienze innovative in atto, la ricerca. Si tratta quindi dello stesso processo che la definizione dei LEA ci richiede, come processo parallelo e di stessa matrice.
In altre parole è un sistema che rappresenta una risposta, diretta e indiretta, ad alcuni problemi critici delle professioni sanitarie:
 
  •  
    controlla la variabilità nelle prestazioni professionali correlata al mancato aggiornamento delle conoscenze di una parte degli operatori
  •  
    riduce il grado di soggettività della performance del singolo professionista
  •  
    permette di condividere esperienze, sperimentazioni e studi compiuti all’interno della disciplina, favorendo la creazione di un patrimonio conoscitivo anche attraverso la diffusione e condivisione di linee guida per l’attività clinica basate sull’evidenza scientifica.
 
 
All’interno di aziende complesse come quelle sanitarie, è necessario fare in modo che la collaborazione dia luogo a una vera e propria integrazione, cioè al raccordo del lavoro di più discipline professionali in vista di obiettivi comuni. Nel contesto della collaborazione prevista dal Codice Deontologico, l’infermiere è chiamato ad adoperarsi affinché la diversità non ostacoli il progetto di cura. In effetti è spesso la diversità culturale tra le professioni a far nascere problemi di integrazione: formatisi in base a curricoli separati (anche se appartenenti ora a un unico contesto universitario) e a prospettive disciplinari specifiche, i professionisti della salute non riescono sempre a dialogare tra loro come sarebbe auspicabile. Tra le varie considerazioni da promuovere in proposito, risulta particolarmente significativa l’identificazione degli obiettivi che il gruppo intende perseguire a fronte della dichiarazione della propria mission [6]. E’ infatti necessario che si tratti di obiettivi percepiti come urgenti e rilevanti, altrimenti non varrebbe la pena di impegnarsi per superare le tendenze individualistiche con uno sforzo che richiede una motivazione elevata.
     Si deve in effetti ammettere che la collaborazione interdisciplinare ancora oggi è  spesso formale, episodica, limitata a momenti obbligati. A fronte di ciò il primo impegno etico dei professionisti è quello di riconoscersi a vicenda per integrarsi: ciò significa l’impegno a conoscersi, a stimarsi, a verificarsi come diversi, quindi l’integrazione deve essere progettata e non lasciata alla spontaneità dei singoli. La formulazione di progetti, per esempio a partire dalla documentazione clinica integrata tra medico e infermiere, può segnare l’occasione per cominciare a dialogare e a condividere obiettivi e metodi di lavoro, ossia a compiere passi che possono gradualmente condurre a una collaborazione più ampia e stabile.
Anche in questo caso le parole del Codice risultano indicative di obiettivi e percorsi per il loro raggiungimento:
 
L’infermiere ha il dovere di essere informato sul progetto diagnostico e terapeutico, per le influenze che questo ha sul piano di assistenza e la relazione con la persona (art. 4.4)
 
In sintesi, i LEA rappresentano più che un obbligo istituzionale, una grande opportunità per la professione infermieristica e per le professioni sanitarie in generale.

[1] Cfr. Censis, Una professione allo specchio, Milano, FrancoAngeli, 1995
[2] Il Codice deontologico risulta estremamente chiarificatore al riguardo: L’infermiere aggiorna le proprie conoscenze attraverso la formazione permanente, la riflessione critica sull’esperienza e la ricerca, al fine di migliorare la sua competenza (art. 3.1)
[3] Cfr. Francescato D., Ghibelli G., Fondamenti di psicologia di comunità, Roma, NIS, 1988, p. 186
[4] Domenighetti G., “Il paziente consapevole”, in Salute e Territorio, 106/1998, pp. 2-3
[5] Santullo A., L’infermiere  e le innovazioni in sanità, Milano, Mc Graw-Hill, 1999, p. 246
[6] Sul tema cfr. Fasolo F., “I paradossi della mission nei servizi sanitari, in L’Arco di Giano, 18/1998, pp. 207-211

 

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