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Congresso Nazionale Aniarti 2002

Emergenza, cure intensive e Livelli Minimi di Assitenza

Sorrento (NA), 07 Novembre - November 2002 / 09 Novembre - November 2002

» Indice degli atti del programma

1° Intervento Gianfranco Sanson

09 Novembre - November 2002: 09:20 / 10:00

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LA DEFINIZIONE DEI LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA IN AREA CRITICA
Una logica interprofessionale per il miglioramento della qualità
 
Gianfranco Sanson
Pronto Soccorso, Ospedale di Cattinara (Trieste)
 
Verso la razionalizzazione dell'offerta sanitaria?
Nel corso degli ultimi decenni in Italia è dominato un concetto di sanità pubblica garantista al limite del demagogico, ove la teorica possibilità da parte di chiunque di accedere "gratuitamente" a qualsiasi prestazione disponibile nell'ambito del SSN ha generato un aumento esponenziale e spesso ingiustificato del ricorso a procedure diagnostico-terapeutiche di ogni genere, quasi che l'accesso a tali prestazioni fosse un diritto al quale era un peccato rinunciare. Questo il perverso epilogo di quello che, in origine, era stato senz'altro un tentativo di mettere democraticamente a disposizione di tutti e di ciascuno, anche dei meno abbienti, ogni possibile risorsa che potesse contribuire al miglioramento dello stato di salute. Non troppi anni più tardi si è iniziato a fare i conti con le conseguenze di tale scellerata politica gestionale, individuando con certezza e facilità le cause della crisi (eccesso nella prescrizione di farmaci, eccesso nel ricorso alla diagnostica strumentale e di laboratorio, eccesso di posti letto, carenza di personale), ma non essendo in grado di apportare alcun correttivo di sicura efficacia.
Il ricorrente spauracchio del ricorso al ticket, ad esempio, che sembrava poter da un lato apportare ossigeno alle casse del SSN, dall'altro dissuadere dagli abusi nella richiesta di prestazioni, non ha sortito, com'è noto, gli esiti sperati. Coloro per i quali il ticket non rappresentava un problema economico si sono ritrovati nelle condizioni di pretendere ancora di più in termini di prestazioni, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, dietro una logica che, parafrasando Descartes, potremmo riassumere in "Pago, quindi pretendo!". Il giusto fine di garantire i meno abbienti ha immediatamente creato la "rete delle esenzioni" e, parallelamente, quella delle "esenzioni autocertificate". L'esito di tale iniziativa è stato semplicemente devastante, avendo come humus una popolazione, quella italiana, che in certa parte forse non ha ancora troppo chiaro come il proprio diritto abbia come confine il diritto di ogni altro concittadino.
Oltre a incidere pesantemente sui costi, la percezione di poter fruire sempre e comunque di qualsiasi prestazione, anche inutile, ha paradossalmente determinato una generalizzata diminuzione della fruibilità dei servizi da parte di tutti, con la creazione di liste d'attesa interminabili e la ricerca di vie di fuga per accelerare l'effettuazione di visite specialistiche e indagini di laboratorio. Parallelamente, questa logica ne ha innescato un'altra, se vogliamo ancora più aberrante, secondo la quale il ricorso al ricovero ospedaliero rappresenta una comoda, ancorché costosissima, sorta di fast track per by-passare le liste d'attesa. Tutto ciò, ovviamente, reso possibile da quella sorta di complicità legata al non-controllo che spesso contraddistingue i rapporti fra cittadino e soggetto erogatore dei servizi.
Il collo di bottiglia di questa situazione è comunque stato (ed è tuttora) il Pronto Soccorso che, per la sua caratteristica di disponibilità h24, è quotidianamente preso d'assalto e intasato da un numero folle di richieste inappropriate e non urgenti, perdendo, di fatto, la sua peculiarità di Servizio deputato alla soluzione dei problemi d'urgenza ed emergenza per assumere le caratteristiche di un grosso poliambulatorio cui si può accedere senza appuntamento. Anche in questo caso, l'introduzione del ticket sulle prestazioni non urgenti non ha prodotto alcun effetto, anche per la scarsa propensione da parte di medici e amministratori di accollarsi l'onere dell'applicazione e della riscossione del balzello.
È facile osservare come ogni tentativo di contenere la spesa è stato operato attraverso l'imposizione di quella che, certamente, ha sempre avuto il sapere di una sorta di multa. Il valore del tutto negativo attribuito al ticket, così come la percezione di poterlo utilizzare come leva per rinforzare i propri diritti, è sicuramente frutto dell'incapacità dello Stato di farsi promotore di scelte efficaci nell'ambito della razionalizzazione dell'offerta. Eppure l’esigenza di razionalizzare il rapporto fra offerta e spesa sanitaria non è certo una novità. La necessità di definire l'appropriatezza nell'utilizzo dell'ospedale ha portato in un recente passato negli USA alla definizione di un sistema di pagamento dei soggetti erogatori sulla base delle prestazioni rese (Prospective Payment System-PPS). Tale sistema, che deve il proprio successo soprattutto all'introduzione di incentivi finanziari e amministrativi volti a favorire l'attività ambulatoriale rispetto a quella di degenza, ha determinato una significativa modificazione dei parametri di attività degli ospedali per acuti (es. in 7 anni riduzione del 9% nel numero dei posti letto, del 14% nei ricoveri, del 17% delle giornate di degenza, incremento del 10% degli interventi, del 78% del costo per ricovero, del 41% delle prestazioni ambulatoriali). L'introduzione in Italia di un analogo sistema di pagamento a prestazione (sistema a DRG/ROD) ha invece paradossalmente ottenuto come effetto un ulteriore incremento della spesa per assistenza ospedaliera senza alcun miglioramento della qualità. La causa principale, verosimilmente, è da attribuire alla mancanza di adeguati incentivi a quelle attività che avrebbero potuto rendere più conveniente lo spostamento di attività dalla degenza ospedaliera ad altre tipologie di assistenza (ambulatori, Day Hospital e Day Surgery, ospedalizzazione a domicilio). Al contempo, non sono stati adeguatamente contrastati i comportamenti scorretti di coloro i quali hanno utilizzato svariati artifici burocratici (es. privilegiando tra le possibili diagnosi di dimissione quelle più costose) per ottenere del tutto impropriamente un finanziamento superiore a quello effettivamente spettante.
Sulla scorta dell'insuccesso del sistema dei DRG sono stati recentemente definiti sistemi diversi, in parte mutuati da specifici protocolli di valutazione di derivazione statunitense, dimostratisi maggiormente efficaci, costituiti da criteri espliciti e non dipendenti dalla diagnosi che potessero giustificare il ricovero. Uno di questi è il PRUO (protocollo di revisione d'uso dell'ospedale), ampiamente utilizzato in tutto il territorio nazionale. Il PRUO definisce i criteri per classificare la giornata di ammissione e la giornata di degenza per acuti in ospedale come appropriata o inappropriata dal punto di vista organizzativo. Le notizie cliniche sono utilizzate dal protocollo per valutare se nella situazione in esame, il regime di degenza per acuti sia quello corretto dal punto di vista delle prestazioni da erogare. L'appropriatezza organizzativa è definita sulla base di una gerarchia dei livelli assistenziali erogabili in funzione della complessità delle cure, del loro grado di intensività e dall'ottimizzazione dei costi: un ricovero risulta appropriato quando per fare fronte alle necessità assistenziali poste viene utilizzato il livello organizzativo proprio, mentre risulta inappropriato nel caso in cui l'assistenza avrebbe potuto essere correttamente erogata da un livello di complessità organizzativa inferiore.
Probabilmente, il motivo principale che ha finora decretato l'insuccesso delle politiche di razionalizzazione nell'equilibrio tra domanda di salute e offerta di prestazioni è legato al fatto che le regole per il controllo sono state sempre create e messe in opera dal medesimo soggetto che è chiamato a erogare le prestazioni sanitarie, ossia lo Stato attraverso il SSN.
Non si dovrebbe essere sorpresi, allora, se le scelte in tema di politica sanitaria sono state sempre vissute dai cittadini come qualche cosa di alieno, incomprensibile e "calato dall'alto". In altri termini, è mancata la capacità di far comprendere come la rinuncia a prestazioni inutili, superflue o addirittura dannose generi inevitabilmente una maggior disponibilità di risorse da dedicare a ciò che invece è indispensabile o, per lo meno, di dimostrata utilità. Se tuttavia è comprensibile che l'italiano medio possa avere una limitata consapevolezza dei rapporti esistenti tra costi e benefici delle singole prestazioni, della loro appropriatezza, della loro complessiva sostenibilità, è del tutto ingiustificabile che tale consapevolezza non sia patrimonio quotidiano e condiviso da parte di amministratori e professionisti della sanità. È mancata la volontà di attribuire al cittadino-utente la dignità di partecipare alle scelte in tema di politica sanitaria.
La necessità di correlare l'erogabilità delle prestazioni sanitarie in termini qualitativi e quantitativi alle disponibilità finanziarie, ha reso necessario riconsiderare il modello di erogazione dei servizi sanitari, per l'esigenza di allocare quello che, indubbiamente, è un bene posseduto in quantità limitate senza trasgredire al principio fondamentale dell'equità della sua distribuzione. Non basta però tagliare i fondi alle Aziende per ridurre la spesa sanitaria. Gli interventi di razionalizzazione, quali che siano, devono per forza passare attraverso il raggiungimento di quei risultati che, a parità di spesa, si dimostrino più vantaggiosi in termini di efficacia e outcome e contemporaneamente più rispondenti alle necessità dei cittadini, ai quali forse importa poco sentir parlare di grandi progetti organizzativi o di ristrutturazioni di vertici e organigrammi. È assai probabile che essi gradirebbero maggiormente l'applicazione reale di soluzioni chiare e immediate ai problemi reali e quotidiani (del tipo "Chi mi fa l'iniezione che il medico mi ha prescritto?" o ancora "Perché per ottenere una visita specialistica devo fare mezza dozzina di code e perdere tre giorni lavorativi?").
Non è ancora possibile dire se i livelli essenziali e uniformi di assistenza (LEA) recentemente determinati nel nostro Paese, saranno lo strumento in grado di dare un'efficace risposta a queste problematiche. Sulla carta, i LEA si pongono effettivamente l'obiettivo di definire le prestazioni sanitarie che rispondono al duplice criterio dell'appropriatezza e dell'efficacia clinica, salvaguardando da un lato il principio dell’omogeneità dell’erogazione da garantire su tutto il territorio nazionale, dall’altro quello dell'economicità. La sfida, ora, è fare in modo che ciò che è "essenziale" per il SSN lo sia anche per gli utenti.
L'appropriatezza dell'assistenza in area critica: dall’evidenza alle linee guida
Per definire l'appropriatezza dell'offerta assistenziale è necessario far riferimento a specifici criteri (valore qualitativo) e standard (valore quantitativo) volti al raggiungimento dei due obiettivi fondamentali della qualità:
a) efficacia clinica, che gli anglosassoni differenziano in efficacy (capacità di conseguire risultati clinici auspicati in condizioni ottimali) ed effectiveness (capacità di conseguire risultati attesi in condizioni reali) allo scopo di una migliore valutazione di quanto è possibile ottenere in termini di outcome raggiunti, date ben determinate condizioni di partenza e non altre.
b) efficienza organizzativa, intesa come "capacità di massimizzare i risultati erogativi e organizzativi in relazione alle risorse finanziarie assegnate".
La strategia da adottare per assicurare una risposta adeguata a quanto sopra premesso deve partire da una valutazione delle prestazioni da assicurare ai cittadini in base ai quattro criteri di efficienza, efficacia, necessità e importanza sociale, creando così un filtro per definire le prestazioni erogabili. In questo ambito vanno necessariamente distinti due livelli di competenze. Gli standard e gli obiettivi dell'intero SSN devono essere uguali per tutti e determinate a livello nazionale. È tuttavia oltremodo importante che a livello locale (regionale, aziendale), in attuazione di una ormai ineludibile logica federalista, siano elaborati percorsi e protocolli congrui e pertinenti, allo scopo di raggiungere gli obiettivi prefissati a livello centrale utilizzando nel modo migliore le risorse a disposizione. Su questa base, evidentemente, anche i professionisti della sanità che si occupano di area critica devono essere coinvolti e responsabilizzati nella scelta dei trattamenti da erogare, attraverso l'elaborazione di linee guida e protocolli diagnostico-terapeutici e la loro adozione nella pratica clinica. Per fare ciò, il modello metodologicamente corretto e internazionalmente accettato è rappresentato dalla medicina basata sulle prove (Evidence Based Medicine-EBM).
L'EBM (così come l'Evidence Based Nursing, che non è significativo distinguere dal punto di vista metodologico) è una scelta professionale, consistente nel prendere le decisioni relative a specifiche tematiche sulla base dell’uso coscienzioso, esplicito e accorto delle migliori evidenze disponibili. L’approccio suggerito dall’EBM interessa e coinvolge non solo gli aspetti clinici e assistenziali, ma anche le questioni organizzative, economiche e amministrative delle aziende sanitarie. Praticare l’EBM significa integrare e aggiornare la propria competenza individuale, ossia quella capacità di giudizio che ogni professionista della sanità acquisisce attraverso la formazione e l’esperienza, con l'analisi costante della migliore evidenza clinica.
La mole crescente d'informazione scientifica disponibile, di fronte alla quale può essere difficile orientarsi, ha determinato la necessità di dotarsi di strumenti aggiornati che siano la sintesi di un rigoroso processo di consenso. Sono nate così le linee guida, frutto della revisione sistematica dell'evidenza scientifica e della sua valutazione critica da parte di gruppi di lavoro multidisciplinari. Le linee guida rivestono enorme rilevanza come strumento di politica sanitaria per la promozione della qualità dell’assistenza, in quanto capaci di orientare verso un uso razionale e appropriato delle risorse. Secondo la definizione più accettata, quella dell'Institute of Medicine, le linee guida sono raccomandazioni sviluppate in modo sistematico per assistere operatori sanitari e pazienti nelle decisioni sulla gestione appropriata di specifiche condizioni cliniche. LA loro funzione è formulare esplicite raccomandazioni con il preciso intento di influenzare la pratica clinica. Ormai da parecchi anni, le Evidence-based Guidelines hanno progressivamente sostituito le Consensus-based Guidelines. Le linee guida hanno l'importantissimo compito di fondare sull'evidenza scientifica le scelte strategiche, siano esse cliniche, assistenziali oppure organizzative. Obiettivo delle linee guida è migliorare le prestazioni, ridurre le pratiche inappropriate e ottimizzare l’efficacia e l’efficienza dei servizi sanitari, in quanto:
- orientano il professionista della sanità nelle proprie scelte;
- coadiuvano gli utenti nella comprensione e nell'attuazione delle decisioni prese a livello clinico-assistenziale;
- giustificano scelte organizzative e decisioni di spesa in ambito amministrativo;
- consentono a operatori sanitari, utenti e amministratori la verifica continua dell'adeguatezza delle scelte effettuate;
- offrono uno strumento di riferimento per la verifica dell'efficacia dell'assistenza erogata.
Sono raccomandazioni, quindi, non imposizioni, che hanno un peso applicativo differente secondo il livello di evidenza su cui sono fondate. Le procedure e i comportamenti professionali indicati dalle linee guida devono essere intesi come un aiuto nelle decisioni piuttosto che come un vincolo posto alla libertà decisionale; all'operatore è riconosciuta la facoltà di scostarsi da quanto suggerito dalla linea guida in particolari condizioni - cliniche, psicologiche o sociali - purché le ragioni dello scostamento siano giustificate e segnalate. È tuttavia intuitivo che, quanto più forte è il livello di evidenza della raccomandazione, tanto più improbabile è identificare criteri validi che giustifichino la scelta di discostarvisi, con la possibile eccezione per problematiche etiche e deontologiche.
Una linea guida può essere considerata scientificamente valida e autorevole quando essa rappresenti il risultato di un preciso percorso metodologico, che abbia previsto l'analisi delle migliori evidenze scientifiche da parte di esperti del settore. È essenziale che esista una partecipazione multidisciplinare alla stesura della linea guida, principalmente da parte di tutti i professionisti che saranno coinvolti nella loro applicazione (medici e infermieri di varia specializzazione), ma anche di esperti non sanitari (es. pedagogisti, metodologi, economisti, amministratori, sociologi), nonché di rappresentanti di componenti sociali (utenti, malati, ecc.). È invece opportuno diffidare delle linee guida prodotte da una sola categoria professionale o da una sola specialità.
La stesura di una linea guida deve seguire un metodo strutturato per raggiungere il consenso, che preveda: 
- la documentazione della metodologia seguita (esperti coinvolti, fonti di evidenze scientifiche consultate, metodo seguito per raggiungere il consenso);
- la stratificazione delle evidenze scientifiche: per ogni raccomandazione dev'essere precisato il livello di evidenza su cui si fonda;
- l'impostazione di ogni scelta nell'interesse esclusivo del destinatario finale delle raccomandazioni, ossia l'utente, con l'obiettivo di favorire i migliori risultati in termini di promozione della salute e limitazione dei disagi;
- la considerazione dei costi e delle conseguenze organizzative della loro applicazione.
Come già evidenziato, la validità di una linea guida dipende dal valore delle raccomandazioni sulle quali è fondata. Poiché, per definizione, le linee guida sono raccomandazioni, la loro applicabilità è direttamente proporzionale alla loro autorevolezza e diventa un impegno etico e professionale tanto più importante quanto più è correlato alla tipologia e al peso dell’evidenza scientifica su cui si basano. Pertanto, la forza di ogni raccomandazione dev'essere codificata, correlandola a una specifica categoria di evidenza (vedi Tabella).
 
Livello
Tipo di evidenza
I
Trial clinico randomizzato di alto valore statistico o meta-analisi.
II
Trial clinico randomizzato con più basso valore statistico.
III
Studi di singoli gruppi, caso controllo, controlli storici, studi non randomizzati.
IV
Studi descrittivi o di casistica.
V
Rapporti su singoli casi o di tipo anedottico.
Categoria
Grado di raccomandazione
A
Basata su evidenze di Livello I
B
Basata su evidenze di livello II
C
Basata su evidenze di livello III, IV o V.
 
Una linea guida non ha tanto bisogno di essere "adottata", quanto di essere realmente utilizzata! Al momento della stesura, perciò, è necessario siano indicate le strategie per favorirne la diffusione, e l’applicazione. Una linea guida chiara e sufficientemente articolata avrà maggiori garanzie di diffusione e di uniforme applicazione. Affinché una raccomandazione produca l'impatto desiderato in termini di miglioramento della salute, dev'essere fatta propria dal Sistema e applicata costantemente da tutti gli operatori coinvolti, inducendo un adeguamento della pratica assistenziale quotidiana. Per essere realmente applicabili, le linee guida devono essere flessibili e adattabili a specifiche circostanze e situazioni locali; pertanto, non possono prescindere dal considerare le risorse disponibili, proponendo, laddove sia possibile, diverse alternative di trattamento in grado produrre risultati accettabilmente simili.
Proprio per questo, l'applicabilità di una linea guida è spesso indipendente dalla sua validità ed è probabile che essa sarebbe massima qualora gli utilizzatori fossero stati coinvolti nella loro elaborazione. Sebbene, in tal senso, una linea guida prodotta a livello locale potrebbe avere maggior possibilità di compliance da parte degli operatori, è importante chiedersi, prima di intraprenderne la preparazione, se n'esistano già altre disponibili e quale sia la forza delle loro raccomandazioni. È evidente che le linee guida elaborate a livello internazionale hanno già superato un processo di consensus e validazione che è improbabile poter replicare a livello locale. Di fronte alla disponibilità di linee guida aggiornate e internazionalmente validate, rappresenta un non-senso ogni tentativo di reinvenzione a livello locale. Piuttosto, è la loro applicabilità che va verificata. Come già sottolineato, ogni linea guida deve poter essere adattata al contesto locale, senza però per questo snaturarne i contenuti. L'adattamento delle linee guida alla peculiarità delle situazioni locali deve pertanto passare attraverso la stesura di specifici protocolli d'intervento che, pur strettamente fondati sull'evidenza scientifica, consentano di affrontare e risolvere le problematiche operative imposte da esigenze di carattere economico e organizzativo. In tal modo è possibile strutturare una risposta adeguata anche a fattori diversi, ma altrettanto essenziali, quali le caratteristiche della popolazione o elementi di consuetudine locale, purché essi non siano in contrasto con quanto proposto dall'evidenza.
Le linee guida possono condizionare anche i macrosistemi. Infatti, le linee guida cliniche e assistenziali sono sempre in grado di influenzare, in modo più o meno significativo, l’organizzazione delle strutture in cui sono applicate, inducendo condizionamenti anche sostanziali sulla definizione degli obiettivi e sulle modalità gestionali delle unità operative o, addirittura, di intere aziende. Ciò è più evidente se si pone l'attenzione sul fatto che la scelta di una linea guida implica una strettissima correlazione con la programmazione delle politiche assistenziali, in quanto devono essere esplicitate le regole da seguire e le modifiche comportamentali da ottenere, a partire dai singoli operatori, per arrivare a quelle dell'intera struttura.
Non è un mistero per nessuno che esistano in letteratura linee guida di qualità sensibilmente diversa e che talora linee guida elaborate su argomenti analoghi giungono persino a contraddirsi e a entrare in contrasto fra di loro. È a questo punto opportuno chiedersi quante, fra le migliaia di linee disponibili, possano essere realmente autorevoli, in quanto frutto del necessario iter di elaborazione. La selezione delle linee guida è un processo critico complesso che, facendo uso di strumenti obiettivi, deve basarsi sulla valutazione di alcuni punti chiave, quali gli obiettivi della LG, il coinvolgimento delle parti in causa (partecipazione di tutte le categorie professionali coinvolte), il rigore metodologico, la chiarezza espositiva, l'applicabilità e l'indipendenza editoriale. Soprattutto l'ultimo punto, quello forse meno appariscente, è quello che può talora fare la differenza in termini di qualità e affidabilità delle scelte operate, poiché valuta l'indipendenza delle raccomandazioni e l'esplicito riconoscimento di possibili conflitti di interesse da parte del gruppo che ha elaborato la linee-guida e l'indipendenza dei redattori da possibili fonti di supporto economico. Un recente lavoro ha analizzato oltre 400 linee guida sviluppate da società di specialisti alla luce di tre criteri: presenza di professionisti di altre discipline, oltre a quella prevalente, o di rappresentanti dei pazienti, ricerca sistematica degli studi pubblicati e definizione della forza delle evidenze scientifiche a sostegno di ogni raccomandazione. Le conclusioni di tale studio sono tanto sconfortanti, quanto emblematiche: solo il 28% delle linee guida risulta rispettare il primo criterio, il 13% il secondo e il 27% il terzo. Inoltre, solo il 5% delle linee guida rispetta tutti i tre criteri e ben il 54% non ne soddisfa nessuno.
Sebbene sia da sottolineare che le raccomandazioni proposte dalle linee guida non possano che essere di tipo probabilistico e, come tali, non possono comprendere singolarmente tutti i pazienti e le situazioni, quando le linee guida sono frutto di un consenso ampio, strutturato e multidisciplinare, sono comunque in grado di veicolare principi e raccomandazioni generali più omogenei ed espliciti, ma anche di definire rischi, benefici, costi e stima probabilistica degli esiti delle singole raccomandazioni. Proprio attraverso le linee guida è possibile definire i livelli essenziali di assistenza, ovvero quegli interventi sanitari che devono essere garantiti a tutti i cittadini, in quanto si sono dimostrati efficaci e appropriati oltre che vantaggiosi dal punto di vista economico: interventi che non sono riconosciuti come appropriati nelle linee guida (ad esempio perché non supportati dalla necessaria evidenza scientifica) non possono rientrare nei livelli essenziali di assistenza.
Quale strategia per una reale applicazione delle linee guida?
L'aver individuato i LEA riferendosi a linee-guida valide e ben non tutela affatto dal rischio di assicurare un'assistenza disomogenea, erogata a compartimenti stagni, né di veder operare attorno al malato critico una serie scoordinata e scarsamente efficace di operatori. Spesso, infatti, il recepimento di una linea guida ha come conseguenza la stesura separata di protocolli medici e infermieristici, potenzialmente in netto contrasto fra di loro o, addirittura, in conflitto con quelli organizzativi del servizio o della struttura ospedaliera. La mancata integrazione fra le diverse componenti professionali costituisce senza ombra di dubbio il limite principale per un'effettiva applicazione delle diverse linee guida. Ne consegue che la reale applicabilità delle linee guida nella pratica quotidiana deve necessariamente partire da un confronto dialettico interprofessionale, che porti alla stesura di protocolli a contenuto misto, con il concorso di diverse intelligenze, competenze e abilità specifiche, nell'ottica di favorire l'erogazione di un processo assistenziale ottimale e di perseguire i migliori risultati in termini di salute per la persona, garantendo al contempo la migliore razionalizzazione delle risorse. L'affermazione è molto più evidente se si parte dal presupposto, troppo spesso negletto, che in area critica ogni protocollo andrebbe pianificato non in base all'organo o alla patologia specifica, ma in base all'intensità delle cure delle quali quel particolare malato ha bisogno.
In altre parole, una volta stabiliti i presupposti del "cosa fare" attraverso l'analisi dell'evidenza, diviene fondamentale far sì che gli operatori presenti accanto al malato critico divengano un'équipe, ovvero un insieme di diverse professionalità in grado di esprimere un complesso armonico di competenze individuali che confluiscono per il raggiungimento di un obiettivo.
Proprio la mancata percezione dell'identità dell'obiettivo è il fattore che più d'ogni altro impedisce a un gruppo di professionisti di divenire un'équipe: non possono sussistere contrapposizioni né interferenze, quando l'obiettivo è il miglioramento del livello assistenziale! I protocolli progettati in comune dalle diverse professionalità possono valorizzare le peculiarità di ciascuno, nell'obiettivo unico di garantire al malato il massimo livello di prestazioni in termini qualitativi. Lo sforzo principale dev'essere teso a concretizzare le idee, soprattutto quelle di carattere organizzativo, e integrare le capacità dei singoli che, se rimangono isolate, non producono nulla in termini di efficacia ed efficienza.
Alla centralità dei singoli professionisti è necessario quindi sostituire la centralità dell'équipe attorno al malato. Ciò può essere ottenuto:
- stabilendo principi e regole di funzionamento, che definiscano la responsabilità collettiva dell'équipe verso l'utente e la responsabilità reciproca fra i singoli componenti dell'équipe;
- elaborando protocolli interprofessionali clinici e organizzativi, derivati dalle linee guida, dei quali sia condiviso il chi, il come e il cosa fare;
- individuando e organizzando, nell'ambito del percorso formativo delle singole professionalità, momenti di addestramento interprofessionale basate sullo strumento dell'intervento simulato e del gioco di ruolo;
- definendo gli strumenti e i metodi di salvaguardia del clima di lavoro e le modalità di integrazione interprofessionale, nel reciproco rispetto delle specifiche competenze;
- rivedendo in modo critico l'efficacia di ogni singolo intervento, nella convinzione che imparare dai propri errori sia non solo possibile, ma doveroso; evidente, tuttavia, che ciò è possibile solo in un contesto perfettamente integrato in cui la discussione sia un quotidiano strumento di lavoro (briefing e debriefing);
- verificando in modo continuo la qualità delle prestazioni erogate dai singoli e dal gruppo, attraverso la definizione di indici di predizione misurabili, ma anche valutando il gradimento da parte di utenti e operatori.
Un ultimo, ma non trascurabile, aspetto da evidenziare è che le linee guida rivestono una certa importanza sul versante medico-legale per le eventuali conseguenze civili e penali che possono conseguire agli errori commessi. Certo, la loro applicazione non è obbligatoria. Tuttavia, qualora le raccomandazioni siano espressione di evidenze dimostrate e riconosciute è molto rischioso non rispettarle se non si è in grado di giustificare e documentare scelte differenti. Al contempo, l'adesione puntuale a una linea guida non tutela affatto da possibili contestazioni legali per eventuali errori commessi. Una serie di Autori ha evidenziato come negli Usa le linee guida hanno avuto un ruolo rilevante o centrale in meno del 7% delle cause legali per malpractice. Ciò a sottolineare una volta di più come l'aderenza alle linee-guida non può essere un processo passivo; soprattutto chi opera in emergenza deve essere in grado di contestualizzare le proprie decisioni in base alle peculiarità della persona che sta assistendo, alle disponibilità di risorse presenti in quel momento e alla correttezza delle modalità comportamentali previste dal protocollo specifico: ancorché firmato dal Primario, un protocollo potrebbe essere poco aggiornato o contenere direttive scorrette, per le quali risponderà certamente anche l'operatore coinvolto in quel momento!
 
Verso un nuovo concetto di etica
In emergenza non ci può essere spazio per l’improvvisazione: il miglior trattamento possibile deriva dall’applicazione rigorosa di protocolli consolidati e fondati sull'evidenza scientifica. L'applicazione certa, corretta e rigorosa delle linee guida presuppone però che tutto il personale coinvolto ne condivida i contenuti e sviluppi la capacità di lavorare in équipe. Disporre di équipe efficienti e affiatate è un obiettivo cardine per qualsiasi servizio d'emergenza. Tuttavia, un gruppo di operatori che lavorano intorno a un paziente non costituisce per forza un'équipe. Un'équipe è tale quando ha saputo definire obiettivi comuni attraverso un confronto dialettico interprofessionale, quando ha prodotto protocolli a contenuto misto e quando ha trovato il modo di condividere una parte del proprio percorso formativo.
La realizzazione di tali obiettivi è possibile solamente cominciando a ragionare nei termini di un nuovo concetto di etica, nella consapevolezza che l'etica non può essere appannaggio dell'una o dell'altra categoria professionale. È l'etica della decisione, un'etica interprofessionale che affronta questioni sulle quali è necessario che le scelte siano fatte assieme. È una dimensione etica che fa saltare le divisioni interprofessionali e in funzione della quale ognuno conta come persona, anziché avere un peso differente in base al livello che occupa nell'organigramma. È una dimensione etica trasversale, sia perché si avvale di un contributo paritetico da parte delle diverse componenti professionali, sia perché si pone l'ambizioso obiettivo di cancellare in ciascun operatore della sanità la scissione fra essere professionale ed essere sociale.
L'etica della decisione può sancire la fine della parzialità assistenziale e dei compartimenti stagni e non comunicanti. È ormai tempo di pensare all'assistenza come a un contenitore unico, nel quale ciascuno pone in maniera coordinata e competente il proprio contributo affinché ogni processo sia pianificato in termini di globalità assistenziale. In questo modo, sarà anche possibile un utilizzo più accorto e razionale delle risorse, che saranno finalizzate e vincolate al raggiungimento di obiettivi ben precisi e misurabili. A tale scopo è necessario individuare gli indicatori più adatti. Di norma, il sistema più accessibile è rappresentato dalle rilevazioni effettuate sugli esiti clinici. Non è, tuttavia, semplice stabilire se un esito clinico sia la conseguenza di un determinato intervento sanitario oppure dipenda dallo stato di salute generale del paziente! È necessario analizzare i processi assistenziali verificando anche l’appropriatezza delle prestazioni erogate: un trattamento appropriato può essere associato a esiti negativi se la prognosi è inevitabilmente infausta, così come un paziente può avere un esito clinico favorevole anche se ha ricevuto trattamenti diagnostico-terapeutici inappropriati. Alla luce di ciò, appare più corretto associare agli indicatori di esito strumenti in grado di valutare la correttezza e l'efficacia dell'intero processo assistenziale, attraverso un sistematico confronto delle prestazioni erogate con standard di qualità professionalmente condivisi. In tal modo è possibile verificare se il processo assistenziale sia stato o meno erogato in maniera appropriata secondo quanto definito dalle linee-guida. È auspicabile che l'audit clinico, ossia l'analisi sistematica e critica della qualità delle cure sanitarie, incluse le procedure usate per la diagnosi e il trattamento, la gestione delle risorse e la misura degli esiti e della qualità di vita per il paziente, divenga lo strumento di lavoro normale e quotidiano per tutti i Sistemi che si pongano come obiettivo costante il raggiungimento della qualità.
Bibliografia
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- Grilli R. Alcuni spunti per una riflessione su principi e strumenti per il governo della pratica clinica. Forum 1999; 9.3 [suppl.5]:18-22
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