Congresso Nazionale Aniarti 1998
INTENSIVITA’ ASSISTENZIALE RESPONSABILITA’ INFERMIERISTICA
Napoli (NA), 10 Ottobre - October 1998 / 12 Ottobre - October 1998
» Indice degli atti del programma
SESSIONE SPECIALE La responsabilità professionale e il nuovo codice deontologico degli infermieri A.
FEDRIGOTTI D. RODRIGUEZ M. MORI L. D’ADDIO
12 Ottobre - October 1998: 09:00 / 11:30
- Prof.
M. MORI
-
- direttore
di Bioetica. Rivista interdisciplinare,
Zadig editore, Milano
- segretario
della Consulta di bioetica,
- responsabile
della sezione “Bioetica” del Centro Studi POLITEIA di Milano
- ricercatore
presso la cattedra di filosofia del diritto della Facoltà di giurisprudenza
dell’Università degli Studi – Bicocca di Milano)
-
- In via del
tutto preliminare, ritengo importanti due
considerazioni: prima di tutto ringraziare per l’invito ad intervenire a
questa tavola rotonda. E’ davvero un piacere essere di nuovo qua tra voi e
vedere che la collaborazione con l’Aniarti dà frutti. Mi pare, tra
l’altro, che questo Convegno sia particolarmente significativo e
importante per la crescita dell’Associazione, e mi auguro davvero che il
dibattito che stiamo svolgendo
ne favorisca la crescita. Cercherò di fare del mio meglio a tale riguardo
chiarendo le diverse prospettive in gioco: a volte è decisivo avere una
chiara consapevolezza di dove è possibile andare, e il lavoro teorico e
intellettuale serve proprio a questo.
- In secondo
luogo, vorrei sollecitare con calore gli infermieri ad intervenire
pubblicamente sui problemi dell’assistenza sanitaria ed a far sentire la
loro voce sul ruolo dell’assistenza infermieristica nell’assistenza
sanitaria. Bioetica, la rivista che ho l’onore e l’onere di dirigere, già
ha pubblicato nel 1998 la proposta di legge approvata al Senato circa il
riordino della professione, ed il carteggio intercorso tra Emma Carli e il
dottor Aldo Pagni (Presidente della Federazione degli Ordini dei Medici)
su queste tematiche. Credo sia molto importante che si sviluppi in materia
un più ampio dibattito sul piano culturale,
un dibattito che esca dal livello strettamente professionale e tecnico
–noto solo agli “addetti ai lavori”—per assumere una dimensione
pubblica più consistente. Per questo gli infermieri devono dare un loro
specifico contributo intellettuale e teorico, che sollevi i nuovi problemi
emergenti nel settore facendo in modo che da mere questioni “tecniche e
settoriali” (come sono percepite ora) diventino veri e propri
interrogativi culturali che devono
interessare l’intera società. Bioetica
intende sollecitare e promuovere questa riflessione culturale più ampia, e
quindi rinnovo qui, pubblicamente, l’invito (già peraltro formulato anche
per iscritto in un numero del 1994 della rivista) ad intervenire: la voce
degli infermieri è infatti decisiva per avere quel dibattito interdisciplinare cui tende la rivista stessa, la quale è anche
informata al pluralismo etico,
ossia alla presentazione di
posizioni morali diverse. Questo significa che la Rivista si pone come luogo
d’incontro di posizioni diverse, un aspetto che va sottolineato per
chiarire subito un punto importante: quanto verrò dicendo impegna solamente
me in quanto studioso e cittadino, non la Rivista. Voglio cioè ricordare
che in quanto direttore della Rivista il mio compito è quello di
promuovere la riflessione interdisciplinare e pluralista, mentre in
quanto studioso il mio compito è quello di sviluppare le mie idee
personali: i due ruoli sono distinti e diversi, e per questo quel che dirò
in questa sede non coinvolge affatto la Rivista. Detto questo, mi auguro
davvero di ricevere lettere, interventi, riflessioni da parte delle varie
associazioni, dei vari gruppi di infermieri ed anche da infermieri singoli.
- Esaurite le
considerazioni preliminari, veniamo al tema specifico. Il punto di avvio può
esser costituito dal seguente interrogativo: qual è l’importanza e il
rilievo di un Codice deontologico? Su questo forse ho opinioni un po’
diverse da quelle espresse dal professor Rodriguez nell’intervento che mi
ha preceduto. Abbiamo così una interessante occasione di confronto in
materia. L’analisi del prof. Rodriguez è senza dubbio profonda e condivisibile per diversi aspetti, ma non
tiene conto di un punto che io ritengo invece decisivo, ossia il fatto che,
nel mondo, i Codici deontologici sono nati e si sono sviluppati in
situazioni significativamente diverse da quella italiana e pertanto hanno
obiettivi e funzioni diversi da quelli assunti nel nostro paese. In
particolare la funzione primaria di un Codice deontologico è quella di dare
una specifica identità al gruppo
di professionisti –siano essi operatori sanitari o appartenenti ad altre
professioni.
- Questa
diversa funzione del Codice diventa chiara ove si consideri che negli altri
paesi (Stati Uniti, Gran Bretagna, Olanda, ecc.), le Associazioni mediche o
professionali non hanno un valore o riconoscimento giuridico, ossia non sono
(in qualche senso) connesse con lo Stato, ma sono piuttosto libere
Associazioni portatrici di ideali e valori diversi, a volte anche collegate
anche a diverse concezioni del mondo o a differenti prospettive
scientifiche. Così, ad esempio, in ambito medico nel mondo occidentale è
prevalente la cosiddetta “medicina scientifica” e la maggior parte delle
Associazioni sostiene questa forma di “pratica terapeutica” non
riconoscendo validità alcuna né prendendo sul serio (con l’eccezione del
“caso Di Bella” su cui è meglio stendere un velo pietoso) altre forme
di intervento. Ma non va dimenticato che ci sono Associazioni professionali
che promuovono altre “pratiche terapeutiche”, come ad esempio la
omeopatia o altro ed in questo senso il Codice deontologico ha un
significato molto più profondo.
- Ma anche
ove fosse assodato il consenso sulla “medicina scientifica”, non vanno
sottovalutati altri possibili contrasti di tipo etico. Così ad esempio in
Gran Bretagna la British Medical Association aggrega la maggior parte dei
medici, ma non è l’unica Associazione medica, rendendo palese che il
compito del Codice deontologico è simile a quello dello Statuto
dell’Associazione. In Olanda quest’aspetto è ancora più chiaro, dal
momento che la originaria Associazione medica si è scissa in seguito alla
legalizzazione dell’aborto: quei medici (circa il 10% del totale) che
giudicano immorale e inaccettabile tale pratica hanno fondato una diversa
Associazione medica, il cui Codice deontologico vieta la cooperazione
all’aborto ed ora anche all’eutanasia. Gli altri medici che invece
ritengono accettabili tali pratiche sono rimasti nella Associazione
originaria. Infatti, non è affatto vero quel che ha lasciato intendere la
signora Fedrigotti, ossia che l’aborto e il suicidio assistito siano
necessariamente atti intrinsecamente malvagi e sempre sbagliati, o contrari
all’attività medico-sanitaria. Anzi, come ho mostrato in un volumetto
intitolato Aborto e morale (Il
Saggiatore, Milano, 1996) e come spiegherò –sia pure brevemente— in
seguito, a me pare che tali pratiche in certe circostanze siano
perfettamente morali, e che in
certe situazioni aborto ed eutanasia sono scelte a favore della dignità
della persona, così che è sbagliato sostenere il contrario. Su questo,
eventualmente, discuteremo dopo.
- La
situazione italiana è diversa da quella prevalente in altre parti del mondo
perché da noi l’Ordine dei medici o le altre Associazioni professionali
hanno un riconoscimento giuridico più forte di quello delle libere
Associazioni, in quanto l’appartenenza ad essa è necessaria ed
indispensabile per l’esercizio della professione stessa. Insomma, invece
di essere libere Associazioni sostenute da uno specifico “ideale” che
diventa pubblicamente visibile nel Codice, da noi –in Italia— queste
società sono “date” per legge, per cui in qualche senso viene
presupposta come scontata l’adesione ad un “ideale” comune così che
si accentua la funzione di “controllo” sull’attività degli associati
–e il Codice diventa il punto di riferimento per questa attività
normativa di secondo grado.
- Stante
questa significativa differenza, e stante forse l’urgenza di una più
generale revisione dell’intero impianto del discorso –non foss’altro
per adeguarci al quadro europeo— anche nel contesto italiano il Codice
deontologico resta sempre qualcosa di molto importante non foss’altro
perché viviamo in un tempo di vivaci controversie morali per cui non è più
scontata l’adesione al comune “ideale”: il Codice viene a precisare i
diversi valori e le sempre più frequenti revisioni del codice di
deontologia medica mostrano la necessità di affinare il discorso in
materia. Ma nel caso degli infermieri il Codice deontologico è ancora più
importante sia perché costituisce la prima elaborazione organica in materia
–avendo quindi un compito di segnavia—sia perché viene proposto in un
momento di rapida trasformazione e crescita della professione stessa. In
questo senso ho l’impressione che il Codice deontologico degli infermieri
verrà a costituire una sorta di bandiera, il vessillo per identificare la
professione che assume oggi una sua propria dignità specifica: tale
professione cessa di essere una mera sommatoria di mansioni stabilite da un
Mansionario, per assurgere a una pratica con una propria ratio
e una propria organicità. Per questo diventa decisivo sapere quali sono i valori
che tale Codice deontologico viene a proporre. Per far questo credo si
debba ampliare il discorso e considerare il quadro complessivo del mondo
d’oggi. Insomma, dobbiamo guardare lontano per poter capire quel che ci è
vicino, perché senza una visione ampia non riusciamo a discernere quel che
ci sta sotto gli occhi come accade quando guardiamo qualcosa in maniera
troppo ravvicinata per cui vediamo i particolari senza riuscire a
ricostruire l’insieme.
- Quali
devono essere i valori da porre alla base del Codice deontologico? Mi pare
che lo spunto iniziale sia stato dato dal presidente Drigo nella sua
relazione, quando osservava che l’intera medicina –io preferirei parlare
di “assistenza sanitaria”— è in stato di profondo cambiamento. Forse
è una banalità ricordare questo aspetto, ma a me pare che sia una
considerazione quanto mai decisiva. Si tratta infatti di chiarire il tipo di
cambiamento in atto: si tratta di una normale evoluzione, ossia delle
trasformazioni di ordinaria amministrazione, oppure si ha a che fare con un
cambiamento del tutto particolare? Questa è la domanda che non può essere
evitata, e la mia risposta è lineare e netta.
- A mio
giudizio a partire dagli anni Settanta del nostro secolo è iniziata una
vera e propria “rivoluzione” in campo di assistenza sanitaria, per cui
dobbiamo ripensare profondamente e dalle radici l’impresa in materia. Che
quest’opera di ripensamento radicale sia necessaria e si imponga diventa
chiaro quando si considera che prima degli anni Settanta il compito della
medicina era strettamente quello di ripristinare la “salute” concepita
in modo organico, ossia come “normalità statistica di ciò che è dato
rilevare in natura”. Medici ed infermieri dovevano aiutare i malati a
riguadagnare la condizione “naturale” o “normale” eventualmente
compromessa dalla malattia. A questo doveva tendere l’assistenza
sanitaria, la quale aveva un ambito ben preciso e limitato: la cura delle
questioni organiche. D’altro canto, le difficoltà sanitarie erano
costituite dalle malattie infettive, che portavano a morte precoce un gran
numero di persone senza che il processo naturale potesse essere contrastato.
Alla medicina era assegnato il difficile compito di cercare di fronteggiare
tale emergenza.
- In pochi
anni la situazione è radicalmente cambiata. Sono aumentate le conoscenze in
modo straordinario, ed abbiamo guadagnato un’enorme capacità di controllo
dei processi biologici, cosicché oggi le malattie infettive sono in gran
parte sotto controllo. Ma quest’aumento delle capacità tecniche –unito
ad un cambiamento dell’ethos—ha avuto anche altri effetti importanti,
cambiando il nostro modo di intendere il compito della medicina e
dell’assistenza sanitaria. Infatti, da una parte l’aumento delle
malattie croniche (rispetto a quelle infettive) fa sì che vengano
maggiormente considerati gli aspetti concernenti l’aver
cura (care) rispetto quelli riguardanti la cura
(cure) degli acuti. E’ forse paradossale dire questo ad infermieri di
“area critica”, ossia impegnati proprio nella fase più acuta della
malattia, ma non va dimenticato che il più generale cambiamento dello
sfondo comporta una trasformazione profonda anche del modo di concepire la
terapia degli acuti. Inoltre, l’aumento delle capacità d’intervento in
ambito bio-medico ha ampliato le possibilità di scelta anche per quanto
riguarda il “destino biologico”. Mentre un tempo questo era segnato e
aveva una sola direzione –ossia l’eventuale ripristino della salute e la
lotta contro la malattia concepita in modo organico—oggi il “destino
biologico” assume varie direzioni, tanto da consentire un margine di
scelta. Insomma, la natura non detta più la “norma”, dal momento che si
è acquisita la capacità di modificare il processo stesso e di andare oltre
il naturale, che viene così come “migliorato”.
- L’effetto
più immediato di questa nuova situazione è che l’assistenza sanitaria
oggi assume sfaccettature diverse e diventa un’impresa complessa che deve
soddisfare esigenze molto diverse. E’ qui che va ricercata una delle
principali fonti dell’attuale “crisi” del medico: mentre in passato il
medico (tradizionale) aveva un campo specifico, in cui poteva vantare una
competenza indiscussa, che si presentava con una priorità assoluta, oggi la
situazione è profondamente cambiata facendo emergere la crisi del suo
“ruolo”. Proprio perché l’assistenza sanitaria assume sfaccettature
diverse e contorni variegati, da una parte diminuisce l’urgenza di
combattere le situazioni acute generate dalle malattie infettive, mentre
dall’altra assumono crescente rilievo altre situazioni terapeutiche, come
ad esempio l’attenzione alla cronicità o ad altri tipi di disagio che un
tempo non rientravano affatto nell’ambito sanitario –ad esempio la
contraccezione, la procreazione assistita, la chirurgia estetica, ecc. Il
medico assume così funzioni diverse e crescenti, ma proprio per questo
diventano sempre più importanti altre professioni sanitarie, come quella
degli infermieri, degli psicologi, ecc.
- Quello
sopra delineato è un grande cambiamento rivoluzionario della medicina, che
comporta un ripensamento degli scopi tradizionalmente assegnati
all’impresa sanitaria. Oggi non possiamo più continuare a presupporre che
gli scopi tradizionali della medicina siano ancora validi in circostanze
storiche del tutto diverse. L’aspetto più immediatamente appariscente
delle nuove esigenze che si vanno affermando è la repentina fine del
“paternalismo medico”, ossia della prospettiva che assegnava al medico
il diritto (o il dovere) di decidere il da farsi in ambito sanitario. La
prospettiva paternalista è comunque del tutto ragionevole e legittima per
chi presuppone l’esistenza di una “normalità biologica naturale”
conoscibile dal medico, aspetto questo che fonda il suo compito decisionale
in materia. “Buono” infatti sarà ciò che tende a ripristinare
l’ordine naturale, e “cattivo” ciò che invece persiste nella
difformità dalla “normalità biologica”.
- Il rifiuto
del paternalismo medico è quindi indice di un cambiamento ben più profondo
circa la concezione stessa della medicina. Oggi il compito di decidere gli
interventi sanitari è la persona interessata, la quale deve conoscere che
cosa si intende praticare. Sono state così escogitate procedure specifiche
al fine di favorire ed aumentare le capacità decisionali delle persone,
come il cosiddetto “consenso informato”. So bene che nella pratica
queste misure sono ancora molto imperfette, e che spesso sono atti puramente
formali e burocratici. Ma non dobbiamo dimenticare che si tratta di un
cambiamento storico di enorme portata, forse maggiore di quello che
conseguente alla caduta dell’aristocrazia. Dobbiamo quindi avere pazienza
e lasciare che il tempo compia il proprio compito. Di fatto, il “Rubicone
morale” è già stato attraversato, perché oggi –almeno in teoria—si
riconosce che è la persona interessata colei che –dopo essere stata
adeguatamente informata—deve decidere quali trattamenti sanitari accettare
e quali rifiutare. Ciò significa riconoscere che non esiste più una
“norma naturale” valida per tutte, ma che anche in ambito sanitario ci
sono opzioni diverse e svariate, tra cui la persona interessata può e deve
legittimamente scegliere.
- La mia tesi
è che l’abbandono del paternalismo medico costituisce un passo decisivo
in quanto ciò cambia la natura della professione medica in particolare, ma
anche di tutte le professioni sanitarie in generale. Se un Codice
deontologico non tien conto di queste nuove esigenze in via di affermazione,
esso in pratica nasce già morto e superato.
Sottolineo quest’aspetto perché a mio giudizio esso è particolarmente
importante nel caso della professione infermieristica, la quale proprio
perché sta emergendo deve riuscire ad inventarsi ed a ritagliarsi nuovi
spazi. In particolare, a me pare che in materia si debba evitare il pericolo
di voler in qualche modo “sostituirsi” al medico, oppure il pericolo
opposto di continuare a rimanere in una posizione “subordinata”,
accettando di essere un mero esecutore di mansioni o una mera fonte di
informazioni circa il paziente (stante la continua presenza al suo fianco). Proprio perché la situazione sanitaria è in ebollizione, si tratta
di individuare un criterio di parità che favorisca la cooperazione tra
professionisti che operano al fine di promuovere e tutelare la salute nel
nuovo senso variegato e complesso assunto negli ultimi anni. Compito del
Codice deontologico è quello di rendere visibile in poche battute questo
tipo di riflessione.
- Stanti
queste considerazioni generali, è opportuno ora venire a considerare
questioni più specifiche, ed a me pare che siano sostanzialmente tre. La
prima è tuttavia ancora troppo ampia e importante per poter essere trattata
qui, anche solo in breve. Mi riferisco ai problemi di quella che chiamo la
“giustizia sanitaria”, ossia il modo con cui dobbiamo allocare le
risorse in ambito sanitario. Dico questo perché sta diventando sempre più
chiaro che oggi non è possibile dare a tutti tutta
l’assistenza sanitaria possibile, e questo semplicemente perché le
risorse non lo consentono. Dobbiamo riconoscere che in qualche modo si
operano delle scelte, le quali sono inevitabili, e che il problema non è far
finta che non ci siano o che la loro soluzione sia “naturale” o
“automatica”, ma che pur nella tragicità della situazione si tratta di
sapere quali siano le scelte giuste
ed eque, oltre che stabilire chi
deve essere preposto a farle. Sottolineo l’importanza centrale che questo
problema della allocazione delle risorse mediche scarse verrà ad avere, e
che coinvolgerà in prima persona anche gli infermieri, non perché io creda
di avere una qualche soluzione da proporre, ma proprio per la ragione
opposta: perché voglio ricordare che tale problema oggi è pressoché
“intrattabile”, in quanto qualunque sia la strada scelta per risolverlo
essa sembra condurre ad un vicolo cieco e a paradossi insolubili. Tuttavia
rimane un problema decisivo, che un Codice deontologico non può
sottovalutare.
- La seconda
questione da trattare è invece più specifica e per affrontarla possiamo
partire da un’osservazione del professor Rodriguez, il quale nel suo
grafico ha suggerito –se ben ho compreso il suo pensiero—che l’etica
deve diventare parte integrante della scienza stessa. In altre parole, a suo
giudizio non c’è la scienza da una parte che ci dà le indicazioni
tecniche circa l’intervento, e l’etica dall’altra che ci fornisce poi
una valutazione separata dell’intervento stesso, perché nella sua
prospettiva l’etica dovrebbe dare tutt’uno con la professione. In questo
senso, forse, può darsi ci siano etiche diverse, le quali comunque fanno
tutt’uno con modi diversi di intendere la professione stessa dando origine
a “scienze” diverse o comunque a concezioni diverse della professionalità.
Non so se questa prospettiva sia
condivisibile né quanto lo sia, e
devo dire di avere forti dubbi in materia. Ma non è questa la sede per
approfondire la questione, che ho citato solamente perché ci consente di
introdurre uno dei grandi dilemmi etici che la professione infermieristica
dovrà presto affrontare con urgenza, ossia quella dei trattamenti relativi
alla fine della vita.
- Se fosse
vera l’ipotesi del professor Rodriguez, stante che sul modo di intervenire
nelle situazioni di fine-vita ci sono opinioni divergenti ed anche opposte
dovremmo concludere che si hanno concezioni diverse della professionalità,
risultato che mi pare contro-intuitivo. Ma vediamo quali sono le situazioni
di fine-vita particolarmente significative e rilevanti. La prima riguarda lo
sforzo di evitare il cosiddetto “accanimento terapeutico”, ossia quella
pratica tesa a fare tutto il possibile per prolungare la vita quando ormai
non c’è più niente da fare e l’intervento aumenta solamente le
sofferenze terminali o pone l’interessato in una situazione di “indegnità
esistenziale” (su questi temi, si veda il mio articolo “Dal vitalismo
medico alla moralità dell’eutanasia”, in Bioetica. Rivista interdisciplinare, vol. VII (1999), n. 1). La
radicale condanna dell’accanimento terapeutico è uno dei pochi punti su
cui c’è universale consenso in bioetica, eppure in pratica tale pratica
sembra inevitabile. In altri paesi è ormai diffusa l’idea della liceità
del “DNR”, ossia Do Not
Resuscitate –non resuscitare o rianimare—e forse tale aspetto deve
diventare un elemento integrante delle professioni sanitarie stesse. Poiché
per evitare l’accanimento terapeutico è necessario spiegare al paziente
le diverse possibilità aperte in tali situazioni tragiche, l’infermiere
ha un compito decisivo. Infatti, quand’anche spettasse al medico il
compito di informare sulla situazione –aspetto che non è del tutto
scontato e su cui si potrebbe e forse dovrebbe discutere—resta pur sempre
il fatto che data la gravità della situazione è sbagliato credere che sia
sufficiente un colloquio informativo per risolvere le difficoltà. Anche se
tale colloquio fosse effettuato nel migliore dei modi possibili, con tutte
le delicatezze del caso, esso non sarebbe risolutivo. Infatti, le decisioni
su tali temi cruciali di vita e di morte non sono prese immediatamente, in
un minuto, ma richiedono tempo e di essere rielaborate. In materia è raro
che si abbia subito le idee chiare, e di solito prevale lo stato di
confusione: c’è bisogno di tempo e di riflessione per rielaborare
psicologicamente le informazioni ricevute. Può darsi che in futuro si
ravvisi lo spazio per interventi specializzati di psicologi, ma a me pare
che in ogni caso la particolare “vicinanza” al paziente propria
dell’infermiere lo renda idoneo ad assumere un ruolo e un compito
fondamentale in tali situazioni in cui si tratta di evitare l’accanimento
terapeutico. Ciò infatti sarà possibile ove si riesca a conoscere le
decisioni informate e maturate dell’interessato, e certamente l’infermiere può avere
in tale situazione una posizione davvero centrale. Credo che nel futuro
anche il Codice deontologico dovrà individuare gli aspetti cruciali di tale
ruolo assegnato all’infermiere..
- L’altra
questione fondamentale concernente la fine-vita resta quella
dell’eutanasia. Su tale tema ho opinioni diametralmente opposte a quelle
della signora Fedrigotti, perché lei sostiene
che l’eutanasia sia un atto immorale mentre io credo che sia una delle
scelte possibili che in certe circostanze drammatiche e tragiche
contribuisce alla realizzazione della dignità della persona, la quale ha
diritto di scegliere come uscire dalla vita. Si tratta di situazioni senza
dubbio tragiche, ma esistenti e reali. E’ quindi immorale credere che la
soluzione debba essere lasciata alla natura, presupponendo che essa
individui sempre il meglio: quando la natura è matrigna e toglie l’umanità
stessa all’uomo e c’è la richiesta dell’interessato, credo che sia
doveroso l’intervento umano anche eutanasico, e che sia immorale sostenere
l’illiceità di tale atto. Su questo si può discutere e sono disposto a
farlo nel dibattito, ma le ragioni di tale mia posizione sole le seguenti:
la dignità stessa delle persone comporta il rispetto
dell’autodeterminazione e delle decisioni autonome. Gli uomini sono usciti
dallo stato di minorità e non devono rispondere a leggi poste dalla
“natura” o da altri in condizioni storiche profondamente diverse dalle
nostre, per cui in caso di condizioni tragiche e di richiesta
dell’interessato la morte volontaria è moralmente lecita.
- Il punto di
fondo e finale cui intendo accennare riguarda le modalità con cui la
pratica infermieristica riuscirà a favorire le scelte dell’individuo
nelle situazioni di fine vita. Vedo che il tempo passa rapidamente e non
posso approfondire la questione nel modo desiderato, ma spero di poter
indicare almeno la direzione di ricerca. Stante il diffuso pluralismo etico
e la diversità delle concezioni relative al morire, è probabile che in
futuro gli infermieri si trovino a ricevere richieste significativamente
diverse: ci sarà il paziente che richiede di essere sottoposto a tutti i
trattamenti possibili, anche quando comportano “accanimento terapeutico”
pur di ritardare la morte; e ci sarà il paziente che invece richiede di
essere lasciato morire in pace (la cosiddetta “morte naturale”,
rifiutando sia l’accanimento
terapeutico che tende a ritardare la morte sia l’eutanasia con cui invece
la si anticipa; e ci sarà infine il paziente che giunto alle condizioni
estreme richiede la “morte volontaria e dignitosa”.
- Il problema
è sapere quale sia il comportamento etico
proprio dell’infermiere di fronte a questa varietà di richieste. In altre
parole, esiste una linea specifica
e precisa che vincola la professionalità dell’infermiere e tale da essere
inscritta nel Codice deontologico e recepita da esso, oppure no? Oppure
dobbiamo riconoscere che l’infermiere ha il compito di sostenere qualsiasi
tipo di scelta, cercando di aiutare la persona malata a maturare al meglio
la decisione presa? Queste domande sono importanti perché ho
l’impressione che un’opinione diffusa spinge nella direzione che
chiamerei “monista” in quanto propone una soluzione unica o monolitica,
ossia quella secondo cui l’infermiere ha compiti precisi e specifici e
deve astenersi dal collaborare a pratiche contrarie a tali direttive. Anzi,
il dovere in materia sarebbe tanto forte da imporre la cosiddetta
“obiezione di coscienza” di fronte a certe soluzioni normative. So che
in una versione delle proposte di Codice deontologico il ricorso alla
“obiezione di coscienza” era fortemente sottolineato.
- Al riguardo voglio fare due considerazioni: la
prima riguarda l’uso spesso improprio dell’espressione “obiezione di
coscienza” in queste circostanze. Chi volesse approfondire la questione può
vedere un mio studio più ampio in materia (“Aborto e obiezione di coscienza. Alcuni spunti di riflessione per un’eventuale revisione della legge n. 194/78”, MicroMega, n. 2,
1997, pp. 67-78) e qui mi limito ad alcune osservazioni sintetiche ed
essenziali. Il punto di partenza sta nel fatto che l’obiezione di
coscienza è un istituto che presuppone la presenza di un giudice esterno
che valuta le ragioni e la sincerità dell’obiettore, al quale viene
concessa la facoltà di comportarsi diversamente a condizione che svolga un
servizio alternativo di solito più oneroso di quello richiesto dalla
pratica “obiettata”. Se queste sono le caratteristiche essenziali della
“obiezione di coscienza”, diventa chiaro che quella praticata (o
richiesta) oggi da medici e infermieri non è affatto obiezione
di coscienza, ma è piuttosto un permesso accordato loro di non fare
certe azioni da essi ritenute illecite. Può darsi che sia opportuno
lasciare tale liberalità per evitare conflitti sociali più ampi, ma a me
pare si debba sottolineare che tale pratica non è affatto una obiezione
di coscienza nel senso proprio del termine. Infatti, l’obiettore di
coscienza al servizio militare viene giudicato (in qualche modo) da altri e
fa un servizio alternativo a quello che avrebbe dovuto prestare, mentre
nulla del genere viene richiesto all’operatore sanitario che avanza
“obiezione di coscienza”. La questione terminologica è importante perché
l’obiettore di coscienza è solitamente ritenuto essere caratterizzato da
una coscienza morale particolarmente elevata e da una sorta di “idealismo
etico” che lo porta a sopportare ingiuste discriminazioni e altri
sacrifici, condizione che non sempre verifica in ambito di chi avanza
riserve in ambito sanitario, dove invece si presenta un forte conflitto di
opinioni diverse. Insomma, non è affatto vero che chi avanza la cosiddetta
“obiezione di coscienza” in ambito sanitario sia “migliore” o “più
bravo”: ha invece posizioni diverse e non necessariamente quelle
razionalmente giustificate. Per questo credo che il ricorso alla
“obiezione di coscienza” debba essere limitato alle circostanze estreme.
- L’ultima
questione cui voglio accennare è la seguente: nella prospettiva delineata
in cui l’assistenza sanitaria subirà cambiamenti radicali, dovremo
abituarci ad una nuova forma di eguaglianza
tra gli operatori sanitari, e questo aspetto sarà fonte di nuovi problemi
etici. Il Codice deontologico dovrà intervenire in materia. Infatti, nella
tradizione sanitaria la virtù principale dell’infermiere è stata la obbedienza
al medico e il puntuale rispetto degli ordini
del dottore. Prevedo che tale mandato non sarà più proponibile nel
prossimo futuro, e proprio questo aspetto darà origine a nuove controversie
e conflitti derivanti dal
contrasto sui vari obblighi di ruolo. Mentre prima era chiaramente
prestabilito il compito di ciascuno, nel futuro la situazione sarà diversa,
e questo certamente darà origine a problemi nuovi. Per alcuni quest’epoca
di incertezza sarà vista come il segno della perdizione e sarà rimpianto
il tempo in cui tutto era “sicuro” nella tranquilla “verde valle”,
mentre per altri la nuova epoca sarà il tempo di una nuova responsabilità
professionale da assumere con coraggio e determinazione. Siamo agli inizi di
cambiamenti imponenti e grandiosi, e certamente non è facile scorgere la
fisionomia del futuro che si prospetta all’orizzonte. Ho cercato di
delineare alcuni dei problemi che mi paiono più urgenti, perché sono
convinto che il Codice deontologico dovrà tenerne molto conto, anche se
certamente non è chiaro se condividerà la direzione che personalmente
propongo in materia. Grazie per l’attenzione.
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