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Intraossea in emergenza: valutazione del consenso da parte degli infermieri

 

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(Cumulative Index to Nursing and Allied Health Literature) in EBSCO HOST.

Un nuovo traguardo per la diffusione della cultura infermieristica.

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Congresso Nazionale Aniarti 1998

INTENSIVITA’ ASSISTENZIALE RESPONSABILITA’ INFERMIERISTICA

Napoli (NA), 10 Ottobre - October 1998 / 12 Ottobre - October 1998

» Indice degli atti del programma

 

12 Ottobre - October 1998: 11:30 / 12:30

Interviene il moderatore E.Drigo 
  
Apriamo il dibattito nella consapevolezza dell’importanza del confronto su questi temi, e soprattutto nella considerazione dell’importanza di addivenire ad una veduta comune su queste tematiche. Credo che sia abbastanza chiaro di quanto probabilmente sarà sempre più necessario, non tanto produrre un documento che rischia di stare fermo per decenni, quanto piuttosto produrre dei documenti sui quali continuare a confrontarsi e nei confronti dei quali apportare continue modifiche. Questo anche sulla base delle conoscenze che si sviluppano, sulla base dell’evoluzione della società nella quale viviamo e dei valori ai quali cerchiamo costantemente di aderire. E’ emblematico che anche i medici abbiano preparato una nuova versione del loro codice a distanza di pochi anni. Quindi credo che ci dobbiamo porre in questa ottica. Innanzi di tutto di voler approfondire questi temi, cogliere quanto sia complesso raggiungere degli accordi e delle linee orientative; e in secondo luogo comunque porre su questa tematica costante attenzione, anche perché, come si diceva, è uno degli elementi che informano il nostro esercizio professionale. 
  
Prima domanda  
Nome e Cognome: Nunzia Primavera 
Volevo far notare che si parlava di straordinario, secondo me lo straordinario della nostra professione sta nel fatto che dall’altra parte c’è un uomo. Quindi il stare alla pari fino a un certo punto vale, vivere invece dall’altra parte, lo svantaggio di un vissuto, di una situazione di disagio è diverso. Io non sono addentro nel discorso dell’etica, vivo però un quotidiano che costantemente mi mette di fronte problematiche che mi danno spesso insicurezza sulle mie azioni dirette. E’ problematico secondo me l’approccio etico anche per chi lavora in realtà che sono difficili. Quindi spesso ci troviamo a non capire neanche quel puzzle, di cui prima parlava D’Addio. Questo puzzle da quante parti deve essere composto? Il fatto già di non essere mai sicuri fino in fondo di quello che andiamo a fare all’altro uomo, perché pensiamo sempre alla dimensione: chissà se dovesse succedere a me quella situazione? Come si fa a dare un messaggio di questa grandezza, di questa straordinarietà? Dobbiamo cominciare proprio da zero, come si fa? Perché l’uomo in effetti è un infinito, è un infinito in continua evoluzione, è un evento dinamico, come si fa a farci capire in questo marasma? Forse è bello proprio perché c’è questa umanità, forse è bello proprio per questo, secondo me. Io solo questa osservazione volevo fare perché mi sembra difficile l’associazione di quel puzzle se prima non ci rendiamo conto che parliamo di uomini e donne come noi, che concorrono a stare, a far stare, e a ripristinare un benessere fisico e psichico che forse momentaneamente o definitivamente si perde. Grazie. 
  
Seconda domanda  
Nome e Cognome: Leonardo Cortini 
Provenienza: Terapia Intensiva di Cardiochirurgia  
Faccio questo lavoro da più o meno quindici anni. In questi anni c’è stata una grossa evoluzione tecnica, una grossa evoluzione metodologica, quello che non è cambiato è il nostro ruolo. Prima era più difficile salvare certe situazioni, ora è diventato più possibile. La gioia che si prova quando si riesce e il dolore che si prova quando non ci si riesce sono assolutamente gli stessi di quindici anni fa. Personalmente non mi interessa, e spero di riuscire a spiegarmi bene, se un paziente vive o muore, io devo fare di tutto per accompagnarlo in quel periodo, nel miglior modo possibile. Perché è un periodo importante per questa persona che ho di fronte, a maggior ragione se muore. Mi spiace, forse non sono organico, però è difficile mettere insieme tante cose così importanti. Un’altra cosa che vorrei dire è che ritengo difficile unire codici per professioni che hanno ruoli diversi, per fortuna noi non dobbiamo “curare”, noi dobbiamo “prenderci cura”, che è forse l’aspetto materno della situazione, noi siamo quelli a cui il paziente dice: per favore mi dia qualcosa per dormire. E non ha il coraggio di chiederlo al medico, che rappresenta il “babbo”, che è colui che passa, dà gli ordini, fa la visita e poi va via. Noi rimaniamo lì, noi offriamo cibo, sonno, calore, siamo la “mamma” in qualche modo di questi individui, persone, pazienti, clienti, utenti. Credo che se i medici vogliono condividere nostro codice deontologico, benvenuti, ma dovranno cominciare a “prendersi cura” dei pazienti, non solo “curarli”.  
  
Terza domanda  
Nome e Cognome: Isabella Zennaro 
Professione: Caposala 
Provenienza: Rianimazione Ospedale S.Luigi di Orbassano - Torino 
Volevo fare alcune osservazioni in merito all’intervento della Signora Fedrigotti, per quanto riguarda l’argomento dell’eutanasia e dell’accompagnamento alla morte. In questo ambito, dell’eutanasia e dell’accompagnamento alla morte, l’infermiere si trova ad occupare un ruolo che spesso non sceglie. Questo perché la scelta di sospendere o di continuare con le terapie è una scelta che viene fatta dai medici. E’ una scelta che viene guidata spesso da una motivazione forte di autotutela legale piuttosto che da una motivazione di accompagnamento del paziente e dei familiari. Emerge una filosofia forte, per lo meno da quello che ho vissuto io; non tutti, spero, abbiano vissuto l’esperienza che ho vissuto io. Ho lavorato per cinque anni in una rianimazione di un ospedale di Torino come infermiera, poi altri tre anni come Caposala in un’altra rianimazione, sempre di Torino. Ho osservato che la filosofia che guida i medici in questo ambito è: “faccio tutto ciò che è possibile, nessuno mi potrà mai dire che non ho fatto tutto ciò che è possibile”. Non si riscontra in effetti in questo la filosofia dell’accompagnamento alla morte, forse perché i medici non si “prendono cura” come funzione loro propria. Per cui in un ambito di questo genere, secondo me, la responsabilità etica dell’infermiere assume delle connotazioni notevoli, perché non è più solo una responsabilità etica nei confronti del paziente, dei familiari, ma è una responsabilità etica anche nei confronti del gruppo in cui lavora, perché il lavoro è un percorso che bisogna fare con i medici. Un percorso impegnativo perché predomina una filosofia così lontana, così diversa, che ci porta a subire, ad essere eticamente responsabili di scelte su cui abbiamo potuto dire poco la nostra; subire delle scelte fatte da altri è durissimo da accettare.  
Un altro aspetto che volevo sottolineare è che a volte ci si trova a dover addirittura avere una responsabilità etica nei confronti della dirigenza. Faccio l’esempio che si sta verificando nelle nostre realtà: Direzione Sanitaria che da dieci anni non consente di fare l’accertamento di morte cerebrale perché non dispone di un apparecchio EEG. Io ho fatto questo tipo di riflessione, in quanto stiamo lottando per ottenere questo EEG portatile. Secondo me non c’è un problema di tipo economico, perché costa molto meno un elettroencefalografo che non mantenere un cadavere in un reparto di Rianimazione, di cui tutti conosciamo i costi. Piuttosto c’è una paura ad assumersi eticamente delle responsabilità, per cui il problema viene continuamente rimandato, scegliendo delle priorità diverse. 
Un altro argomento che è fortemente correlato all’eutanasia e all’accompagnamento alla morte è quello del consenso informato e del dissenso. C’è stata una tavola rotonda lunedì scorso a Torino, in cui erano presenti avvocati ed infermieri, e si sosteneva che se il consenso o la possibilità di far esprimere il dissenso al paziente fosse praticato profondamente e non solo come atto formale, (Le do il foglietto, me lo firmi, così io mi scarico di ogni responsabilità) probabilmente alcuni soggetti non aspetterebbero le scelte nostre o dei medici rispetto l’eutanasia o l’accompagnamento alla morte, ma sceglierebbero prima di arrivare in una terapia intensiva, avrebbero la possibilità di scegliere prima. Questo non succede perché in realtà il consenso informato non è praticato in maniera profonda, chiara e puntuale. Un’altra considerazione è emersa in quella giornata, in cui c’erano circa cento persone di cui 32, quindi il 30 %, infermieri e Caposala. In quella sala, in quella tavola rotonda esistevano certificati di partecipazione con scritto sopra solo ‘dottore o professore’. Non era neanche stata prevista la nostra presenza, segno che su un argomento di questo genere viene rilevato che non possiamo contribuire nelle decisioni o comunque lo facciamo con molta difficoltà. Secondo me la responsabilità etica in questo ambito è invece rivolta a tantissime figure e io spero che riusciamo ad arrivarci anche noi. Grazie. 
  
Quarta domanda  
Nome e Cognome: Angelina Di Nuccio 
Provenienza: Area Critica 
Volevo innanzi tutto dire che forse qui si fa confusione nella differenza tra l’accompagnamento alla morte serena e l’eutanasia. Credo che sia una differenza sostanziale ed è gravissimo se iniziamo con il confonderle. Anche perché la nostra formazione infermieristica è fondata su cardini di assistenza che finora noi siamo sempre stati convinti fossero quelli giusti. Parlare, come diceva il dott. Mori, del paziente che vuole morire e arriva a noi: chi può decidere se non può farlo? Perché non può farlo? Oppure, il paziente è condannato a morire, non si può fare altro, stop, non ci accaniamo! Io dico questo: noi siamo pieni di incertezze e poco fa si affermava che sono sane incertezze. Lei parlava di libertà e ha tante certezze. Volevo farle solo una domanda. E’ giusto che un individuo sia libero di scegliere e io so che ha questa libertà, però vorrei che anche gli altri sapessero che io come infermiere ho una libertà di scelta, e quindi sono comunque aspetti che vanno analizzati. E anche penso: in questi discorsi c’è sempre un margine che non si può definire. Grazie. 
  
Interviene il moderatore E.Drigo 
Un elemento che credo sia importante tener presente, che è emerso anche dagli accenni degli interventi precedenti dei relatori, sia l’aspetto della dimensione etica a livello molto generale. Considerare la situazione nella quale le strutture sanitarie sono poste effettivamente ad operare e come la nostra società concepisce la sanità oggi. Il diverso modo di concepire la sanità condiziona la realtà, e facciamo riferimento anche a tanti servizi di supporto che potrebbero esserci nei confronti delle persone che vivono situazioni drammatiche e che non esistono. Per questo a volte si esasperano situazioni che portano a scelte così radicali come potrebbero essere l’eutanasia o l’accanimento terapeutico, o condizioni analoghe, che potrebbero essere prevenute. Se fosse impostata una sanità diversa, e qui chiaramente è compito di tutti e non soltanto di chi in questo momento la dirige. Una sanità diversa che prendesse in considerazione anche altri parametri, che non sia soltanto il parametro terapeutico, attualmente comunque fondamentale. In questa direzione credo che gli infermieri potrebbero dire la loro, perché forse vivono più direttamente gli aspetti legati a queste tematiche.  
  
Risponde M. Mori 
Penso di dovere una risposta almeno a due quesiti. Il primo è l’intervento molto bello dell’infermiera di Torino circa il consenso informato. Io non l’ho detto prima per non dilungarmi, ma l’Associazione di cui sono Segretario, la Consulta di Bioetica, ha elaborato la Carta dell’autodeterminazione, che sta avendo grande successo in Italia. Tra l’altro a Torino lavora una Sezione molto importante, diretta dal professor Vitelli. Abbiamo preparato una proposta di legge, e presto due parlamentari la presenteranno al Parlamento, stiamo lavorando in questo.  
Mi chiedevo se l’Aniarti non volesse farsi carico di una collaborazione tra Associazioni volontarie, libere, grazie alla quale cui voi come infermieri promuovete la diffusione della Carta dell’Autodeterminazione presso i pazienti. Una Carta molto libera, è stata studiata a lungo, già del ’91 è la prima versione, ora è sta aggiornata. Ritengo sia un contributo per cercare di favorire la chiarezza circa il consenso informato. 
La seconda risposta riguarda l’ultimo intervento. Vede, io il discorso sulle incertezze, poi Fedrigotti potrà spiegare meglio, non l’avevo proprio capito. Io no riesco a capire cosa si intenda per incertezza nel lavoro. Senz’altro ci sono margini di incertezza, non siamo sicuri di nulla, potrebbe arrivare improvvisamente un asteroide, o esempi di questo genere. Però, premesso questo, molti di voi lo hanno detto prima. A volte sapete e si sa con sufficiente certezza l’evoluzione di un paziente. Quindi l’incertezza lì non c’è. Io vorrei solo dire: senz’altro esiste la libertà di scelta, nel senso che se un infermiere non vuole fare determinate cose, può darsi che la professione consenta di non farle, e questo sarà da discutere, è giusto. E’ necessario distinguere ed entrare nello specifico, perché se ad esempio un infermiere sostenesse che essendo Testimone di Geova non partecipa alle trasfusioni, non so se questo sia lecito o meno. Ciò va valutato attentamente altrimenti chiunque può tirare fuori motivazioni più o meno personali ed invocare l’obiezione di coscienza. Dall’altra parte il punto fondamentale su cui vorrei insistere è su questa idea di continuità con la tradizione avanzata rispetto la formazione: chi ci dice che vale ancora? La domanda che pongo, molto seriamente, se la medicina, l’assistenza sanitaria è in fase di rivoluzione, può darsi che la tradizione millenaria non valga più. Un esempio molto chiaro: la tradizione voleva le donne subordinate agli uomini, tanto che la legislazione italiana fino al 1975 riconosceva il capofamiglia e i suoi diritti. Poi dal ’75 i coniugi sono stati posti alla pari giuridicamente, una delle poche grandi cose riconosciute nella legislazione, troncando la tradizione secolare. Probabilmente fenomeni di questo tipo avverranno anche in futuro, dobbiamo pensarci, discuterne e non rimanere preclusi solo alla tradizione. 
  
Risponde A. Fedrigotti 
Penso che molte delle differenze profonde che notate tra il contributo del professor Mori e le prese di posizione delle infermiere in grande misura dipendano anche dal fatto che c’è una sostanziale differenza tra uomo e donna nella comprensione della realtà. E questa sostanziale differenza la troviamo anche in quello che Cortini definiva l’estrema diversità del ruolo medico e del ruolo infermieristico. Per la medicina l’accanimento terapeutico è stato definito il nuovo nome della speranza, e qualcuno vi si è sottoposto volontariamente, in quanto l’accanimento terapeutico può essere il punto di partenza di una nuova possibilità terapeutica, di una nuova possibilità a favore della vita delle persone. Mentre gli infermieri, proprio perché non curiamo, ma ci prendiamo cura, siamo molto più attenti alla qualità della vita. E sotto questo aspetto l’osservazione che sia di fatto difficile integrare un codice di comportamento tra tutti gli operatori ha del vero. Non di meno la diversità dei ruoli si rivolge ad un’unica persona. Quindi pensare che si possa realizzare un intervento integrato che diventa unitario sulla persona che curiamo penso che sia un punto più alto che viene proposto alla nostra creatività. 
Ringrazio per gli altri interventi. Il consenso informato si sta vivendo come atto burocratico. E’ terribile che gli infermieri prendano il plico dei fogli e li lascino al paziente “analfabeta”, che deve fare la coronarografia, e gli dicano: si legga tutto, se non capisce lei si faccia leggere dai suoi, quando arrivano questa sera. Voi capite che un infermiere, che si comporta così, ha perso l’occasione più straordinaria per attivare un processo di qualificazione del suo rapporto. Voi direte che non c’è tempo, bisogna istituzionalizzare il tempo per il consenso informato...... 
  
Interviene M. Mori 
No! No! Non riguarda l’infermiere, riguarda il medico. L’infermiere dovrebbe fare un’altra attività. Scusatemi, io su questo .... riguarda il medico, poi è vero che le realtà sono complicate, ma il compito toccherebbe al medico, e qui sorgono i conflitti. 
  
Riprende A. Fedrigotti 
Dipende, nel mio caso, in cardiologia, il contenuto doveva essere proposto, commentato, chiarito dall’infermiere. Il medico poi aveva la sua parte, la parte che gli compete.  
  
Risponde D. Rodriguez 
Volevo aggiungere alcune cose sullo spunto degli interventi che sono stati in discussione, per completare anche il mio pensiero. Sono un po’ perplesso sulla piega che sta prendendo il discorso, mi riguardavo l’obiettivo del pomeriggio e forse stiamo entrando più in alcuni aspetti particolari, piuttosto che considerare un disegno generale che si vuole perseguire. Questo mi lascia un dubbioso. A questo proposito, anche per entrare nel tema che volevo sviluppare, vorrei fare questa osservazione. Negli interventi, mi sembra, si sono confusi, non voglio essere assolutamente polemico ma cercare di dare un contributo analitico alla discussione, i piani cui facevo cenno precedentemente. Si è confuso il piano del diritto con il piano deontologico, con il piano etico. Questo secondo me ha un significato ben preciso. Nel momento in cui si parla di una serie di problematiche sorge spontanea l’esigenza di affrontarle da punti di vista diversificati. E’ però estremamente importante stabilire, di volta in volta, “a che gioco giochiamo”. Per esempio vi è stato l’intervento dei mancati accertamenti di morte, che presenta un salto continuo tra il piano scientifico, il piano etico, il piano deontologico e il piano del diritto. Direi che, mantenendo la calma, lì siamo di fronte ad una serie di condotte giuridicamente censurabili; vale a dire vi può essere omissione di atti d’ufficio da parte dell’amministrazione, uso illegittimo di cadavere, forse peculato. C’è da domandarsi: il Caposala è tenuto, sempre dal punto di vista giuridico, a fare una denuncia all’autorità giudiziaria? Tanto per affrontare il caso soltanto dal punto di vista del diritto in senso stretto. A questo punto, dal punto di vista etico, si può ulteriormente valutare: vi sono delle valutazioni di tipo etico che vanno sovrapposte al discorso giuridico, per cui si deve considerare la situazione in modo diverso? Come il Codice Deontologico può intervenire all’interno di queste situazioni, deve dettare norme nuove? Deve semplicemente rimandare alla norma di legge? Per ritornare a quanto dicevo all’inizio, i dilemmi nella nostra attività, dico nostra attività come operatori per la salute, come medico, quale sono io, o come infermieri, sicuramente si presentano in molte situazioni e si tratta semplicemente di stabilire “a che gioco vogliamo giocare”, volendo utilizzare l’espressione usata prima. Cioè se vogliamo starcene al “calduccio”, prendere in mano in codice penale e altre norme dello Stato, si può dire: qui la legge non dice niente, si cerca di assumere un atteggiamento pigro, in qualche modo una soluzione si trova. Se però da questo atteggiamento pigro ci si vuole smuovere e confrontare con il Codice di Deontologia, oppure si ritenesse il Codice assolutamente insufficiente, e anche nel caso lo si trovasse sufficiente, si volesse approfondire la riflessione sotto il profilo etico, si è liberissimi di farlo. L’importante è sapere cosa si vuole fare, come si vuole gestire la propria esistenza professionale.  
Per trasferire questo discorso il rispetto il Codice Deontologico si può valutare: elaborare un Codice, ma con quale prospettiva, con quali obiettivi, e per utilizzarlo in quale maniera? Nella locandina di questo Congresso c’è un richiamo, anche se forse la terminologia usata è un po’ complessa, così riportato: “si ampliano i confini dell’analisi etica ...” sempre con riferimento al nuovo Codice di Deontologia, “...e dell’assunzione libera di difficili decisioni?” Domandiamoci: useremo il Codice di Deontologia come strumento unico per affrontare la scelta tra difficili decisioni, oppure la nostra professionalità ci chiede qualcosa di più consapevole e di più approfondito? E su questo ritorna il discorso, che voglio chiarire ulteriormente: il paradosso di questo Codice di Deontologia che si va a fare, che nasce dal disegno di legge 421, è che dovete elaborarlo per colmare tutta una serie di lacune che attualmente si presentano nella Legge, oppure per esigenze intrinseche della professione? Questo è un discorso veramente importante secondo me. Se c’è un’attività delegata, è doverosa? E se doverosa, deve esprimere contenuti propri oppure rispondere ad esigenze del legislatore? 
  
Risponde L. D’Addio 
Anch’io vorrei fare alcune osservazioni, cogliendo nella proposte dei colleghi alcuni spunti, in questo ultimo giro di presa di parola. Penso che l’intenzione della professione infermieristica italiana non sia quella di andare verso un Codice che sia il “tappabuchi”. L’espressione è un po’ coreografica, ma credo che renda l’idea. Il Codice ha un suo posto e deve mantenerlo. Questo ruolo del Codice penso si possa definire “complementare, integrativo” a quello di altri ambiti come ad esempio il diritto. Oggi la Legge sulla privacy, sulla riservatezza, è dettagliatissima, qualcuno dice anche troppo. Io sono convinta che quando gli infermieri “non rivelano”, o meglio, per non cadere nell’ambito penale, “non dicono” alcune cose che riguardano il cliente lo fanno certo perché sanno che la legge lo prevede, certo perché c’è anche un regolamento, ma lo fanno anche per quella intima convinzione, credo di citare testualmente il Codice attuale, che ci pinge a considerare quanto ha detto il cliente o ciò che lo riguarda come qualcosa che è nostro e suo, forse di parte del team di cura. Sapendo anche bene che c’è un livello di diversità, perché alcune cose possono essere state dette ad una infermiere particolare, perché il cliente lo ha scelto e non vuole farle sapere a tutto il team di cura. Anche questo livello di differenziazione si deve essere in grado di saper cogliere. Ci sono livelli di apertura del cliente sulla espressione di sé che possono essere diversificati. Voi sapete benissimo che a volte i pazienti scelgono un infermiere e con questa persona continua un rapporto particolare.  
Per rilegare gli interventi, io credo che forse la considerazione su cui a me piacerebbe chiudere è contenuta nel titolo e nel sottotitolo di questa occasione. E vorrei richiamarmi proprio all’etica della responsabilità. Credo sia la chiave di volta per appunto rilegare tutto. Gli infermieri hanno la consapevolezza che c’è una responsabilità precisa, e quindi non si tratta di ricominciare da zero, ma da tre, come si è definito a Napoli da qualcuno. Ricominciare da tre significa ricominciare da quello che tutti i giorni gli infermieri fanno, forse concettualizzandolo, sistematizzarlo, perché c’è un profondo spessore morale. Significa raccogliere il disagio degli infermieri. A me è capitato spesso proprio nell’area critica di sentirmi obiettare che i problemi con cui si entra in contraddizione non sono tanto i valori del cliente, anche quelli certo, ma il problema maggiore è rispondere a un progetto di cure che è stabilito da altri, e che non si trova aderente ai propri valori di persona ma soprattutto ai propri valori professionali. La professione infermieristica si è data dei valori di riferimento e in base a quelli, a volte, il cosiddetto accanimento terapeutico si trova a scontrarsi. Questo discorso dell’etica della responsabilità, secondo me, apre molte porte perché consente di considerare che dirci che noi non scegliamo, che noi non abbiamo potere, in realtà poi non è vero. Perché chi non sceglie, implicitamente sceglie: l’etica della responsabilità ci fa dire questo. Se ci si astiene dal scegliere, in realtà comunque una scelta viene fatta. Se ci si limita o ci si astiene dal diventare interlocutori, forse non in senso giuridico, ma in senso morale è certo che si è degni interlocutori; questo lo sostengo da diversi anni. Probabilmente ci si sente meno autorevoli, meno importanti, è un problema di status, ma non è un problema di competenze. Secondo me di questo noi dovremmo essere convinti. Quando non si è d’accordo con il progetto di cura, si può esprimere questo, e si può chiedere che il confronto si apra. Le risposte non verranno dal Codice, verranno dal processo mediante il quale si assumono le decisioni rispetto un progetto di cura della persona. Si può scegliere di scegliere, a volte astenendosi, a volte entrando in merito, comunque si ha una propria posizione, un ruolo all’interno del gruppo di cura. Anche perché sappiamo bene che il cliente ha un’idea abbastanza precisa della quotidianità e della continuità dell’infermiere.  
Un ultimo aspetto sull’etica della responsabilità riguarda anche l’informazione al cliente. Si è parlato del consenso informato. C’è stato molto dibattito nel mio gruppo di lavoro circa l’inserire o meno, nel documento di lavoro che riguarda il nuovo Codice, il tema del consenso informato. Una posizione è questa, ed è anche la mia; il consenso informato, in questi termini, vorrei fosse archiviato come roba da medici, utilizzata male, era una buona chance ma non è servita, è stata la traduzione di come togliersi di mezzo i guai. Io penso che sia il momento di andare verso non il consenso informato ma la “decisione consensuale”. Anche perché il consenso informato appare come qualcosa che scende dall’alto, e quindi riconferma il paternalismo, mentre la decisione consensuale dà più l’idea di due persone che si confrontano e in questa alleanza terapeutica cercano di trovare una chiave di soluzione, una prospettiva. Nella informazione c’è solo una dimensione clinica? Allora, d’accordo, sta al medico, nessuno gliela vuol togliere. Ma apriamo la vista e l’udito, nell’informazione c’è solo una competenza clinica da tirare fuori? Io sono convintissima di no. Le persone da noi non vogliono sapere solo che malattia hanno, qual è la loro diagnosi, vogliono anche tutto quel corollario di aspetti informativi, che comunque avranno forse come nodo centrale l’aspetto clinico, ma non si esauriscono a quel livello. Allora l’infermiere entra necessariamente in campo, perché non c’è solo una competenza clinica dà tirare fuori, c’è una competenza relazionale, c’è una competenza assistenziale.  
Se penso in termini un po’ futuristici, credo che arriveremo al confronto fra le culture, e quindi, per rispondere a Cortini, credo anche che possiamo arrivare a mettere insieme dei Codici, non i Codici Deontologici che è giusto rimarranno proprio specifici, ma una analogo dei codici di comportamento, che possano raccogliere questa comunalità di cultura credo possa essere un obiettivo futuro.  
Quindi, quello che è cambiato profondamente in questi ultimi decenni, siamo infermieri da diverso tempo, secondo me è tanto. Vi propongo invece di guardare solo dentro le quattro mura in cui lavoriamo, di alzarsi più in alto e di provare a vedere gli ultimi anni della professione infermieristica e della cultura in generale. Ora voglio pensare a noi, abbiamo fatto dei passi da gigante, siamo in una posizione di trampolino, siamo le persone che sanno mettersi in relazione con il pubblico di riferimento, chi ce lo fa fare di non considerare tutto questo come una chance. Grazie. 
  
Quinta domanda  
Nome e Cognome: 
Provenienza: 
Più che una domanda, mi viene da riflettere su tutte le cose che ci siamo dette in questa seduta. Un primo aspetto, mi ha molto colpito la parola che D’Addio ha usato: il Codice Deontologico e “la persona” riferito come oggetto della nostra attenzione. Se noi abbiamo questo come punto obiettivo del nostro Codice, del nostro comportamento, del nostro atteggiamento morale, allora mi viene da pensare che cambia totalmente tutto quello che stiamo dicendo. Non mi importa più se parliamo di eutanasia, non mi importa più se parliamo di consenso informato o di tutte quelle problematiche che abbiamo esaminato, noi abbiamo di fronte la persona. Una persona che, come rivoluzione culturale, abbiamo visto che vuole decidere da sola, decide da sola. Quindi noi non possiamo entrare in questo merito. Qual è la nostra azione, che poi svolgiamo? E’ assistere. Assistiamo comunque nell’eutanasia, assistiamo comunque in quello che le rianimazioni producono, “i mostri” della rianimazione, assistiamo comunque nella morte, e andiamo oltre la morte, noi assistiamo il cadavere, assistiamo tutto quello che si sprigiona dopo la morte, quando tutto il resto del mondo sanitario si blocca. Noi andiamo oltre, entriamo in relazione con l’emotività esterne, con riti che si sviluppano dopo. Quindi è un processo complessissimo che andiamo a fare, che facciamo tutti giorni nel nostro quotidiano, anche se questo non viene codificato in nessuna legge. Il Codice Deontologico, cioè un codice di norme, o forse neanche di norme perché non vi può essere di usare termini del diritto, giuridici, è un codice di comportamenti, di regole che devono essere tipici, specifici per quella professione, pur nel rispetto dell’interdisciplinarietà con le altre figure. E specifico perché rappresenta l’essenza di quella professionalità. Mi sembra assurdo ritenere, come ha spiegato prima il signor Rodriguez, che possa essere poi alla fine un codice di diritto, cioè sovrapporsi a quelle che sono le richieste del diritto, che vanno enunciate in tutto un altro piano. Io non riesco a vedere come una opera possibile questa sovrapposizione. Mi ha sconvolto poi vederla enunciata in una legge. Noi dobbiamo costruire delle nostre regole, che poi devono essere usate su un altro piano, mi sembra un po’ sfasante questa idea. Grazie. 
  
Sesta domanda  
Nome e Cognome: Leonardo Cortini 
Provenienza: Terapia Intensiva di Cardiochirurgia  
Volevo cercare di essere meno emotivo e più preciso riguardo questi argomenti, ... Codice, deontologia, responsabilità, etica. Credo che ognuno di noi abbia una propria scala di valori in cui pone questi concetti; prima il codice, prima la legge, prima la parola della legge e poi lo spirito della legge, oppure prima lo spirito e poi la parola, prima la propria etica oppure prima l’etica che sottende a una deontologia o a una legge. Credo sia difficile darsi una risposta che valga per sempre, credo che ognuno di noi si trovi, di volta in volta, a doversi rispondere intimamente prima di tutto, e quindi decidere se obbedire supinamente a una prescrizione, se aprire il dibattito con i colleghi, con i medici, se rifiutarsi di fare qualcosa. Andando incontro alle proprie responsabilità in quei casi. Si potrebbe arrivare a pensare: “a me non sta bene creare un altro mostro da rianimazione, non faccio questa terapia, la faccia chi vuole, la faccia il medico, il collega, che forse mi vuole aiutare in quel momento, io non la faccio”. Credo che sia molto difficile trovare qualcosa che aiuti in questa situazione, credo che questi incontri servano a questo. Vorrei finire anche con una affermazione di don Milani di tanti anni fa, che diceva, lo ha scritto e ha lottato per questo, che l’obbedienza non è più una virtù. 
  
Risponde M. Mori 
Volevo fare solo una considerazione. Nel mio progetto e nel mio piano io non credo che il concetto di alleanza terapeutica funzioni ancora. E’ un vecchio concetto, secondo me, che non riesce più a stare al passo con la medicina del futuro. La medicina nostra e una medicina tecnologica, industriale, e non possiamo pensare di tornare alla medicina della mano nella mano. Da questo punto di vista, io non condivido affatto del prendersi cura della persona, perché questo non è specifico e professionalizzante. L’infermiere non è la mamma. L’analogia con il rapporto materno o è fuorviante o va fortemente specificata, perché altrimenti non c’è il rapporto di carattere professionale. La mamma è una cosa, l’infermiere un’altra. Quando si va all’ospedale, non è che l’infermiere deve fare da mamma, anzi lo troverei, se ci fosse questa idea, la troverei poco rispettosa dal punto di vista del paziente. Il rapporto con la mamma è il rapporto con lei, gli altri non c’entrano. Il discorso della persona, è un discorso troppo globale, bisogna ancora specificarlo; non lo so qual è il termine migliore. Questo riporta ai doveri della professione. Il Codice, Rodriguez è stato molto incisivo, nasce da esigenze intrinseche della professione, questo è come io auspico che sia. So che adesso la legislazione è diversa, ma prospettare di fare la funzione di supplenza della legislazione, a me pare, dipenda da un contesto più generale. Ma se nasce dall’esigenza della professione, bisogna tener conto che tali esigenze devono essere tali da rispondere alle richieste di salute in una società altamente tecnologizzata e che ha compiuto di questi ultimi anni quello che ho chiamato la rivoluzione sanitaria. 
  
Risponde D. Rodriguez 
Sono stato coinvolto dall’ultimo intervento. Ho cercato di esporre dei contenuti in modo neutro, non ho sostenuto nessun punto di vista. Lei ha focalizzato il tema dicendo: è assurdo quanto da me detto. E’ uno dei punti di vista. A me sembra però importante ritornare sulla stessa cosa. Se noi proviamo a riprendere la locandina del programma e ci domandiamo: perché il Codice Deontologico è stato messo assieme al concetto di responsabilità? Se la risposta è, come credo, perché ormai da un anno se ne parla, perché il concetto di responsabilità è stato appiccicato al concetto di Codice Deontologico nel disegno di legge 421. Se l’impostazione è questa, bisogna esserne consapevoli fino a fondo perché, come ha ripreso il professor Mori, voi siede di fronte a una scelta. State svolgendo una funzione di supplenza di un legislatore negligente oppure state esprimendo delle esigenze autonome professionali intrinseche. Detto in altri termini ancora: state proponendo contenuti o siete manovrati dall’esterno. Il discorso è questo, io illustro la questione, perché se si accetta supinamente la dimensione del 421, allora c’è fortemente il rischio di essere marionette. Secondo me la linea è proprio di riappropriarsi dei contenuti propri ed incidere in modo forte all’interno di questa prospettiva. Questo è un punto che deve essere dibattuto in modo molto accurato, perché ne consegue che a seconda della scelta di fondo che viene fatta, che nella quale non voglio assolutamente entrare, c’è la seconda scelta di fondo importantissima: il nuovo Codice dovrà essere dettagliato o dovrà essere per sommi capi come è l’attuale. Se questi fondamenti non si chiariscono prima, ci si ritroverà fra pochi anni a fare dei discorsi parcellari, a rimettersi a parlare, ad esempio, di eutanasia dai vari punti di vista di ciascuno. Per questo dicevo che il discorso stava entrando troppo nel dettaglio, però perdendo di vista l’obiettivo generale, che deve essere espresso da una scelta. Scendere nel dettaglio vuol dire vincolarsi in modo fortissimo, sostanzialmente assumersi degli impegni gravosissimi, sapendo che quello che sarà scritto nel nuovo codice di deontologia sarà la misura in base alla quale verrà valutata la responsabilità. Diventa un sistema assolutamente impegnativo. Per concludere, è assolutamente importante che nel momento in cui si parte nella elaborazione del nuovo codice di deontologia, bisogna avere ben chiaro cosa si fa, perché lo si sta facendo, gli aspetti collaterali che vi possono essere, e così via.  
Un altro aspetto che volevo dire a proposito di un accenno che aveva fatto Fedrigotti prima. Ha accennato al fatto che c’è l’intervento del legislatore come quasi una sorta di compositore delle diversità soggettive. Io sono uno strenuo assertore del fatto per cui se vi sono diversità soggettive, accapigliamoci finché non è fatta chiarezza. Una legge che scende dall’alto, che compone le divergenze, è una legge assolutamente inaccettabile, soprattutto dal punto di vista etico, per cui ben vengano i dilemmi, la valutazione intrinseca del dilemma, al di là della soluzione che ci viene proposta, che poi di fatto è imposta, da parte della legge.  
  
Interviene A. Fedrigotti 
Ne parlavo infatti come di un pericolo, l’irruzione della legge nella composizione. Non trovo niente di scandaloso. Il rapporto tra etica e legge è sempre stato conflittuale, se ci ricordiamo del suicidio di Socrate, muore per rispettare la legge che con la sua morte vuole negare. Quindi un rapporto terribilmente conflittuale. Non di meno, alcuni Paesi trasformano in legge i codici deontologici. I professionisti, per legge, consegnano al Parlamento il loro Codice Deontologico, che lo deve valutare e approvare. Il codice francese del 1992 è entrato in vigore dopo che il Parlamento lo ha votato. Il mio pensiero e la mia esperienza mi fanno dire che i valori etici, per loro natura, i principi etici, per la loro intrinseca natura, sono elementi fragilissimi, che trovano quando incontrano il consenso, forza da una struttura portante come è il diritto. Alcuni autori parlano del diritto come della struttura ossea di un patrimonio valoriale e di principi etici che la comunità affida. Non è la legge che cade dall’alto, ma è una proposta alta che viene data alla comunità perché ne dia il suo consenso. Questo lo dico a fronte di una realtà estremamente frustrante dal punto di vista deontologico. Solo un medico su cento, ad esempio, è risultato a conoscenza della modifica avvenuta quest’anno del codice di deontologia medica. Per dire la lontananza di molti a quello che forse si sente come un arbitrio esterno. Uno degli elementi più critici che gli studiosi hanno rilevato rispetto al “giuramento di Ippocrate” è stato il narcisismo intrinseco, in quanto avrebbe lo scopo di dare forza ad un gruppo professionale nuovo.  
Di fatto i Codici Deontologici nascono con il ruolo di dichiarare a tutti chi si è. Il Codice ha la forza di proporre un’identità, ma quando la proposta di identità diventa autoriconoscimento? Quando ognuno di noi, ogni infermiere si specchierà e dirà: io sono questo. Ma se sentirà la identità professionale estranea da sé, appartenente ad una scuola differente, non si sentirà appartenere a quella forza, è chiaro che il Codice, come arriverà alla sua attenzione, viene buttato. Se un Codice ha la forza di far specchiare il meglio di una professione e di ufficializzare l’identità dell’infermiere e il suo essere risorsa importante per la collettività, io credo che sia già molto. Poi bisognerebbe dire che in questo momento evolutivo noi maturiamo e diventiamo capaci di rapportarci ad un codice di principi, mentre di fatto la richiesta della popolazione infermieristica è un codice di norme. Quindi ci sono molti elementi paradossali e contraddittori che chi si trova a fare proposte si trova a gestire. 
  
Risponde L. D’Addio 
Non c’è tempo per poter riprendere il problema che secondo me la persona non deve decidere da sola, l’infermiere non può abdicare al suo ruolo di patnership, non la chiamerò alleanza terapeutica. Cerco di spiegarmi meglio. L’infermiere non può abdicare, compreso il fatto che possiede conoscenze che il cliente non ha, e questo è profondamente morale se viene agito bene, è profondamente immorale se non si riesce a tradurre nel mio linguaggio quella trasmissione di informazioni al cliente. Io non volevo parlare di una relazione di tipo materno, volevo parlare di una relazione che crea rapporto e non che crea separatezza, ma ora non c’è spazio per approfondire e quindi lo lascio in sospeso. Invece un tema importante è, secondo me, quello che ha richiamato ora Rodriguez e credo sia l’aspetto forte su cui chiudere. Abbiamo bisogno di indicazioni, abbiamo bisogno di poter tenere un filo di confronto con tutto il gruppo infermieristico, perché ritengo profondamente utile quello che è accaduto oggi nel dibattere sulla condivisione di un documento, che magari è ancora un documento di lavoro si sono evidenziate delle prospettive importanti. Perché io credo che sia finito il tempo in cui l’Italia era non so se dire borbonica, burocratica, amministrativa. Quando si produce un documento di lavoro, questo documento deve essere confrontato con il mondo, con il mondo intero, senza questionare su fatto che prima sia stato visto da uno o da qualcun altro. Secondo me tutte le occasioni per confrontarsi dovrebbero essere sfruttate al massimo. Quindi bisogna uscire tutti con le idee chiare su fatto che questo Codice debba essere enciclopedico o no. Perché poi sappiamo benissimo che se affronterà le questioni nella loro generalità gli infermieri di area critica potrebbero sentirsi esclusi, in quanto ribadiscono delle particolarità, era questo il discorso del riconoscimento dell’individualità e del singolo. Lo viviamo anche noi, non soltanto i nostri clienti. Gli infermieri che lavorano in pediatria avanzeranno le loro istanze. Allora che dovrà essere questo Codice? Dovrà regolamentare al massimo, regolamentare nell’accezione giusta, oppure dovrà enunciare i principi, dovrà enunciare delle massime di regolamentazione per lasciare poi l’interpretazione al singolo, alla situazione, e via dicendo? Quindi su questo accenno vorrei chiudere, ringraziando per questa ennesima occasione di confronto i colleghi, però chiedendovi che non finisca qui, teniamoci in contatto, continuiamo a parlarne, continuiamo a scrivere, continuiamo a discuterne, perché c’è veramente bisogno di mantenere tutti l’attenzione su questi argomenti.  
  
Risponde D. Rodriguez 
Proprio sull’ultimo intervento che c’era stato. Cos’è l’attuale Codice Deontologico dell’infermiere. Brevissimamente. Non posso dire quali siano i contenuti, piuttosto segnalare un grande esempio di metodo. Vorrei citare l’articolo 3 dell’attuale Codice Deontologico dell’infermiere perché rispecchia la migliore metodologia possibile per impostare un discorso deontologico. Se ciascuno lo tiene presente proprio come paradigma possibile per la metodologia futura, al di là dei contenuti. Lo leggo: l’infermiere rispetta il segreto professionale, (non è causale il tema), non soltanto per obbligo giuridico, (chiarezza di divisione dei piani), ma per intima convinzione e come risposta concreta alla fiducia che l’assistito ripone in lui. Penso che meglio, di più, un forma così sintetica non si possa esprimere. Quindi vorrei completare il discorso dicendo: facciamo salvi certi contenuti, certi metodi perché non ci potrà essere nessun decreto legislativo che li potrà suggerire in modo migliore.

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