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Congresso Nazionale Aniarti 2003

Criticità ed intensività assistenziale: quali obiettivi, quali competenze, quanti infermieri

Bologna (BO), 12 Novembre - November 2003 / 14 Novembre - November 2003

» Indice degli atti del programma

Complessità, acuzie, rapidità, perizia, integrazione, brevità di degenza/trattamento nella criticità ed intensività assistenziale. - Daniele Coen

12 Novembre - November 2003: 10:50 / 11:20

Complessità, acuzie, rapidità, perizia, integrazione, brevità di degenza/trattamento nella criticità ed intensività assistenziale.

Daniele Coen – PS/MU - A.O. Niguarda Ca’ Granda – Milano

 

Il primo dei termini presentati nel titolo, la “complessità”, è l’elemento chiave per la definizione del contesto all’interno del quale gli altri termini devono articolarsi.

Per definire la complessità, e valutarne la presenza in un contesto sanitario di criticità assistenziale è innanzitutto necessario definirne la distanza verso altri elementi confinanti, altrettanto presenti nell’ambito della medicina in urgenza.

La complessità dunque, e innanzitutto, non è sinonimo di “complicazione”. Molte delle cose che noi tutti facciamo, o dobbiamo conoscere nel nostro lavoro sono complicate. Bisogna studiare, praticare, meditare: formule matematiche, concetti di fisica, biochimica, fisiopatologia non sono facili da comprendere, ma una volta che se ne capiscono  regole e  meccanismi la loro (relativa) prevedibilità, ripetitività e regolarità le rendono facilmente padroneggiabili.   Il campo della risposta alla “complicazione” è dunque quello della competenza tecnica.

Il secondo concetto verso il quale delineare un confine è quello di “confusione”. Anche la confusione fa parte della nostra  esperienza quotidiana. Un pronto soccorso affollato, l’accesso sulla scena di un disastro stradale o di una maxi emergenza, alcune cartelle cliniche… L’aspetto chiave della confusione è la difficoltà ad identificare i singoli elementi e i loro confini. Le cose sono mescolate tra loro in ordine sparso, o sfumano l’una nell’altra, senza una logica immediatamente  riconoscibile.

Me neppure di questo ci vogliamo occupare oggi. Oggi riflettiamo, sinteticamente, sulla complessità. La scienza ha capito che  per comprendere un fenomeno non basta   identificare  i numerosi dati che lo compongono e che non è il numero elevato di variabili in gioco a stabilire la sua complessità, quanto il loro essere visibilmente intrecciate in una serie di relazioni. Complessità tra l’altro vuole dire che non è vero che se l’azione è piccola l’effetto sarà proporzionalmente piccolo, non è vero che se l’azione è “buona” il risultato sarà per forza buono.

L’intervento sanitario in genere, e quello nell’ambito della criticita/intensività in particolare, è dunque complesso non tanto per la sua possibile difficoltà, né per gli elementi di confusione che possono a tratti delinearlo, ma per la numerosità delle relazioni che determinano il suo risultato, relazioni che presentano quasi costantemente dimensioni di competenza tecnica, organizzativa, di interazione interpersonale e di emotività soggettiva.

 

Segue un “banale” e un po’ didascalico esempio di complessità “organizzativa” dove si vede come, in una reale situazione di pronto soccorso, un problema clinicamente minore possa, attraverso scarti successivi di relazioni e di interazioni portare a conseguenze assai lontane dalle intenzioni di tutti gli operatori coinvolti.

 

Storia di un mal di orecchio.

Caso clinico: un paziente si presenta al bancone del triage dicendo di avere male all’orecchio. L’infermiere gli assegna un codice bianco e lo avvia all’area ambulatoriale del Pronto Soccorso, informandolo che il medico lo vedrà quanto prima e se necessario lo invierà dall’otorinolaringoiatra.

Ecco però comparire alcuni elementi, organizzativi e relazionali di complessità:

Ø L’ambulatorio ORL è a 700 metri dal PS

Ø I medici ORL sono in conflitto     permanente con i medici del PS

Ø Il verbale di PS non è ancora informatizzato

 

Ed ecco alcune conseguenze che chiameremo di I livello:

Ø Ci vuole un’ambulanza con due lettighieri per portare il paziente dallo specialista.

Ø Il medico ORL, non potendosela prendere direttamente con il medico di PS se la prende con il paziente. Lo fa aspettare e lo tratta male.

Ø Finita la visita il paziente se ne và direttamente a casa e non torna in Pronto Soccorso, non porta in PS il foglio di visita e parere con le prestazioni effettuate, non paga il ticket.

Ø Il medico di PS dopo un paio di ore chiude il caso segnando sul verbale “abbandona PS”.

 

Ed ecco alcune altre conseguenze, di II livello, verosimilmente già lontane dalla percezione del gentile infermiere di triage:

Ø Le prestazioni eseguite (tamponamento nasale, rimozione CE ecc.) non vengono registrate .

Ø E’ necessario un lavoro supplementare di recupero crediti da parte dell’amministrazione per ottenere il pagamento del ticket.

Ø Il numero di pazienti che abbandonano il PS risulta essere superiore al 2%.

 

Questi aspetti esitano in ulteriori conseguenze, di III livello, dai toni quasi drammatici e certo non previste, né desiderate da alcuno degli operatori coinvolti nella triste faccenda:

Ø Problemi con la certificazione di qualità per l’elevata percentuale di abbandoni del PS.

Ø Problemi con il raggiungimento degli obiettivi di budget per l’elevato numero di prestazioni non registrate.

Ø Possibile riduzione dello stipendio di risultato dei medici.

Ø Bassa qualità percepita ed aumento dei reclami da parte dell’utenza.

Ø Aumento della conflittualità interna.

 

Al di là della sua apparente paradossalità, questa storia ci è utile per definire alcuni ulteriori, importanti elementi della “complessità”:

Ø L’esito di ogni singolo invio non e’ prevedibile.

Ø Il risultato dipende anche dai comportamenti delle singole persone  (varia cioè a seconda di chi e’ il medico di PS, di chi e’ l’otorino e da come   impostano il rapporto con il paziente), cioe’ dipende dalla relazione.

Ø Non esiste una risposta semplice e facilmente applicabile in grado di risolvere tutti gli aspetti del problema senza crearne altri.

 

Una azione piccola ha avuto effetti grandi.

Una azione “buona” ha avuto effetti negativi.

Forse è vero che il battito d’ali di una farfalla a Singapore può causare un terremoto in Indocina.

 

Un caso di complessità clinico/assistenziale

G.B. 37 anni, melanoma con MTS polmonari e cerebrali in progressione dopo una prima chemioterapia, ha appena terminato il primo ciclo di un nuovo schema antiblastico.

Giunge in PS per intensa astenia e febbricola alle 11 del mattino. All’ingresso Hb= 8.4  g/dl. Alle ore 16  Hb=5.4 g/dl  e  bilirubina totale 3.6 mg/dl.  Non evidenti focolai emorragici. Vengono praticate due sacche di emazie concentrate. Alle ore 19 Hb= 4.2 g/dl.

Si riscontra emoglobinuria massiva e viene posta diagnosi di emolisi intravascolare acuta da causa ignota. Il paziente viene ricoverato in medicina d’urgenza.

 

All’arrivo in reparto il paziente è in condizioni critiche, polipnoico, febbrile, accusa mialgie diffuse, è estremamente irrequieto.

Lo accompagnano la moglie, che ha lasciato a casa il bambino di 2 mesi da allattare, e altri 5 familiari. La moglie si sente male e cade per terra in preda a una crisi d’ansia.

Il medico di reparto è solo e sta assistendo un altro paziente grave. In reparto ci sono due infermieri e un OTA. C’è anche il primario che sta chiudendo la porta dello studio per andarsene a casa.

 

Si tratta chiaramente di una situazione drammatica, purtroppo non molto diversa negli elementi generali da tante altre situazioni che si devono affrontare quasi ogni giorno nell’ambito della criticità/intensità assistenziale.

Altrettanto ovviamente si tratta di una situazione che non presenta un unico problema, ne ha un’unica soluzione o una soluzione certamente migliore delle altre. Qualunque risposta si scelga, ci si dovrà comunque confrontare con almeno questi aspetti:

Aspetti tecnici :            a) è un paziente che ha speranza di sopravvivere?                                                                               b) se sì, cosa fare?

Problema etico:            è un paziente con neoplasia in stadio avanzato, anche se fino al giorno                                       prima non era considerato terminale: è opportuno un intervento “aggressivo”?

Problema assistenziale: ci sono da assistere      contemporaneamente due malati gravi                                                 e da gestire la famiglia di uno dei due. Le forze in campo sono scarse.

Problemi relazionali:  a) assistere un malato giovane, che sta morendo

                                    b) sostenere la moglie e dare un ruolo ai familiari

                                    c) superare una diversa valutazione del caso che divide il primario e la sua                               assistente senza creare conflitti né generare sensi di colpa.

 

Ancora gli elementi della complessità: la relazione tra diversi aspetti del sapere e diversi soggetti che si influenzano tra di loro; diversi  percorsi possibili, che una volta intrapresi presentano nuove ed ulteriori occasioni di interazione e di relazione e di conseguenza ulteriori scelte da fare. Anche, infine, percorsi diversi che possono portare ad uno stesso risultato.

 

Due parole su perizia ed integrazione

I pochi accenni sulla complessità fatti fin qui dovrebbero portarci alla comune conclusione che lavorare in un ambiente di criticità/intensività assistenziale, lavorare cioè con persone malate nel momento della loro massima angoscia e sofferenza richieda professionalità e competenze di elevatissimo livello.

Se però abbassiamo lo sguardo e verifichiamo quali sono gli atti che occupano la gran parte del tempo degli infermieri occupati in questo genere di attività, scorgiamo cose molto più piccole, molto meno eroiche , tutt’al più modeste abilità tecniche di cui, con un po’ di pratica, chiunque potrebbe impadronirsi.

Nel Pronto Soccorso di Niguarda per esempio, tolti gli infermieri dedicati al triage o alla sala di emergenza, gli altri occupano l8=% del loro tempo  a fare elettrocardiogrammi, prelevare esami, misurare temperature, assistere suture, fare medicazioni, spostare malati.

Ci si domanda allora: la crescita di perizia ad ogni livello e una continua interazione potrebbero liberare una cascata di energie e di competenze per rispondere alla sfida della complessità ?

In parole più semplici: se gli atti “tecnici” per i quali gli infermieri utilizzano la maggior parte del loro tempo fossero eseguiti da personale a più basso livello di professionalità, gli infermieri potrebbero dedicare maggiore attenzione ai problemi complessi del paziente o del reparto? O c’è il rischio che allontanandosi dal rapporto “fisico” con il malato ci si allontani anche dalla possibilità di stabilire una adeguata relazione e quindi di comprenderne la complessità?

 

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