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Congresso Nazionale Aniarti 2003

Criticità ed intensività assistenziale: quali obiettivi, quali competenze, quanti infermieri

Bologna (BO), 12 Novembre - November 2003 / 14 Novembre - November 2003

» Indice degli atti del programma

Sessioni parallele: Sessione Infermieri pediatrici  

13 Novembre - November 2003: 14:35 / 16:50

Audio Foto

IL MODELLO DELLA COMPLESSITA’ ASSISTENZIALE IN AREA CRITICA PEDIATRICA: LA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI E L’EDUCAZIONE DEI GENITORI.
Relatore: R.Megliorin DAI, AFD
Relatore: C. Gandolfo, Infermiere Pediatrico
Coautori: D.Carlini Infermiere pediatrico e  N. Tofani, Infermiere
 
Terapia Intensiva Pediatrica –Dipartimento di scienze pediatriche e neuroscienze dell’età evolutiva – Università Cattolica del Sacro Cuore - Policlinico “A. Gemelli” –Roma
 
 
“Ad Andrea e al suo raggio di sole
in quel prato pieno di fiori”
 
 
Key words: competenza, responsabilità decisionale, complessità assistenziale, instabilità clinica, dipendenza.
 
 
Obiettivo della relazione:  Fornire spunti di riflessione su:
 
- il nuovo modello dell’analisi della complessità assistenziale e la possibilità di applicazione in area critica pediatrica;
- la possibilità di una diversa lettura dei bisogni dei bambini malati e delle loro famiglie:
- la valutazione dei risultati del nuovo processo di cura, che vede applicato il  modello preso in esame, rispetto a quanto fino ad oggi ottenuto,
- la possibilità dell’infermiere di riappropriarsi del proprio specifico, al fine di garantire una risposta assistenziale conforme alle attese del cittadino/utente, e, per l’area critica pediatrica, garantire alla madre la possibilità di  mantenere una sana  relazione con il proprio bambino.
- Come l’applicazione del nuovo modello di analisi della complessità assistenziale possa migliorare il processo comunicativo tra i vari membri dell’equipe modificando, quindi, in positivo il livello di qualità delle prestazioni erogate e di qualità percepita dal piccolo paziente e dai suoi genitori.
 
Introduzione
 
Il caso analizzato è quello di un bambino di pochi mesi affetto dalla malattia di Werdnig-Hoffmann, ancora non diagnosticata, che giunge in reparto di Terapia Intensiva Pediatrica per grave distress respiratorio, ipotonia muscolare e difficoltà ad alimentarsi.
Il modello della complessità assistenziale applicato permette al gruppo infermieristico di riferimento di analizzare le esigenze del piccolo paziente non più secondo un modello concettuale di “gerarchizzazione” dei bisogni,  dove viene attribuita la massima priorità solamente a quelli di sopravvivenza, bensì  a una nuova concezione dell’assistenza intensiva che va a cogliere le esigenze del bambino e le dispone in un nuovo schema di riferimento che li “assume” come tessere di un puzzle, collegate tra loro, incollate tra loro, grazie al soddisfacimento del bisogno di sicurezza e amore. 
Il modello della complessità assistenziale in area critica pediatrica perciò fa sì che l’equipe assistenziale applichi le proprie energie e competenze:
 - Con l’assoluta consapevolezza dell’importanza della centralità della persona nell’intero percorso assistenziale;
 - Garantendo i diritti del bambino ospedalizzato sanciti dalla Carta di Heach;
- Modificando i propri convincimenti secondo le evidenze scientifiche;
- Attuando  un cambiamento culturale, volto alla ricerca di un sempre più elevato livello qualitativo;
- Conformandosi a quello che è il cambiamento culturale del cittadino che vuole sempre più fermamente essere partecipe nella gestione della propria malattia;
- Sentendo forte il vincolo assistenziale legato al fatto che un bambino che vede il proprio bisogno di sicurezza risolto, è un bambino che riesce ad essere “gestito” meglio dall’equipe curante,  che riesce ad essere ventilato in modo migliore, al quale può venire risparmiata la sedazione, altrimenti obbligatoria.
- Nella piena consapevolezza che il genitore che vive l’esperienza di elevata instabilità del proprio figlio, è un genitore che inizialmente può dimostrare scarsa capacità di comprensione, essendo impaurito, e che, proprio per questo motivo, ricorre alla guida dell’infermiere che più dimostra competenza.
Il genitore quindi affida la situazione del figlio all’infermiere perché difficilmente ha la capacità di discernere ciò che è meglio e giusto e,  non avendo nessuna autonomia d’azione, anche lui necessita di essere preso per mano e accompagnato nel lungo tunnel di una malattia, in questo caso, a prognosi infausta. 
L’elaborato in particolare prende in considerazione la fase della comunicazione della diagnosi ai genitori e l’inserimento di questi nel reparto al fine di educarli ad assistere il proprio bambino anche  in un’ottica di dimissione precoce, applicando a tali momenti lo schema concettuale del nuovo modello assistenziale.
 
1. La diagnosi di Werding – Hoffmann o Sindrome Amiotrofica Spinale 1
 
Il bambino, giunto in reparto per distress respiratorio ingravescente, è costretto ad uno stretto monitoraggio dei parametri vitali: frequenza cardiaca, frequenza respiratoria, pressione arteriosa cruenta, saturazione di ossigeno, diuresi oraria, bilancio idroelettrolitico. È  inoltre intubato e sottoposto a ventilazione meccanica.
Il genitore non ha una reale capacità di comprensione della situazione, per questo motivo l’equipe lo ritiene  totalmente incapace del prendersi cura del proprio figlio, ma per favorirne la risoluzione, quindi la presa di coscienza dell’esperienza, viene costantemente informato della situazione clinica, è dato il permesso di stazionare vicino al bambino, ma viene “esonerato” dallo svolgere qualsiasi compito assistenziale.
 
 In  questo primo periodo di degenza lo sforzo dell’equipe assistenziale è volto a definire la diagnosi dato che l’insufficienza respiratoria appare non semplicemente legata ad un causa infettiva, ed  è stato scongiurato l’interessamento del Sistema Nervoso Centrale con uno studio neuroradiologico. Ci si avvia così ad ipotizzare una causa diversa, magari genetica.
Una malattia genetica di questo tipo è l’ amiotrofia spinale di tipo 1, a prognosi infausta che compare nei primi mesi di vita ed è caratterizzata appunto da una serie di segni e sintomi quali quelli evidenziati nel bambino. La ridotta motilità fino a paralisi dei muscoli prossimali e del tronco è in contrapposizione con la mimica del volto e la vivacità dell’espressione del piccolo paziente che rimane invece conservata. Tipica  è l’interazione del bambino caratterizzata da uno sguardo attento e scrutatore.
 
            La definizione della diagnosi arriva in genere dopo reiterati ricoveri, per lo più  per problemi di insufficienza respiratoria ingravescente, e a seguito di alcune indagini, quali:
 
- dosaggio CPK (il cui valore risulta generalmente alterato)
- la biopsia muscolare e cutanea ( che aiuta nella differenziazione della diagnosi genetica)
- l’elettromiografia . Questo tipo di esame è ormai non più considerato significativo dal punto di vista dell’evidenza scientifica, dal momento che la conduzione nervosa in questo caso si mantiene spesso conservata. E’ comunque usuale che i protocolli di  alcuni centri lo utilizzino inizialmente come screening iniziale tra le varie patologie neuromuscolari.
 
- la ricerca del gene SMN1, ovvero il gene della sopravvivenza del motoneurone, che codifica la proteina SMN  e la cui ridotta presenza, o assenza, definisce in modo chiaro e definitivo  la diagnosi .
 
In questa fase il medico rianimatore e l’infermiere pediatrico rappresentano i due poli che cooperano nel processo di cure; a questi si aggiungono il medico genetista, il tecnico di neurofisiopatologia, il neurologo, utili ai fini della definizione del quadro.
 
L’indagine specifica per la ricerca del gene SMN1 è possibile mediante lo studio di un campione di sangue venoso, inviato al centro  di genetica precedentemente contattato.
La specificità e la peculiarità dell’esame comporta per l’infermiere la necessità di organizzare con il genetista i metodi e i tempi di esecuzione, alcune volte egli deve provvedere anche alla richiesta formale di un’ eventuale sistema di trasporto adeguato del campione biologico allo stesso centro interessato allo studio: la competenza relazionale e la capacità di pianificare dell’infermiere  diventano aspetti essenziali nella prima parte dell’organizzazione specifica ai fini diagnostici, e questo soprattutto perché riguarda un momento così delicato e decisivo dell’iter diagnostico del bambino.
E’ però interessante verificare come l’infermiere esprima ancora in questa fase alcune attività che non hanno un peso assistenziale tale da richiedere  una così elevata valenza professionale. Tra queste ricordiamo: la compilazione dei moduli di richiesta dell’esame, il trasporto del campione, l’eventuale contatto con sistemi in grado di organizzare i trasporti di materiali biologici. E’ in tutti questi casi che si ritiene opportuno evidenziare che non è assolutamente  rilevante l’essenzialità dell’intervento del professionista infermiere, bensì  risulta evidente come questi possano risultare trasferibili ad altri operatori, con la totale assunzione di responsabilità su chi le effettua.
 
Momento fondamentale, di elevata competenza tecnica/relazionale è invece quello relativo all’esecuzione del prelievo venoso.
Durante   questa “tecnica”, infatti, il bambino, che vive una fase di sviluppo definita da J. Piaget di “adattamento”, si scontra con una delle realtà purtroppo tra le più frequenti e dolorose. La ricerca della vena per il prelievo può diventare un momento altamente stressante per il piccolo con difficoltà respiratoria, ventilato artificialmente, o meno che sia.
 
La competenza dell’infermiere in questa procedura  risulta perciò finalizzata a:
 
§ identificare il momento adatto:
 
o  capacità di saper programmare le attività coniugando le necessità tecniche con i bisogni del bambino;
o necessità di non sottoporre il bambino ad uno stress ulteriore in caso di episodi di desaturazione, pianto, …
 
§ evitare il dolore inutile
 
o applicare il protocollo per la gestione del dolore   
o scegliere con cura il sito del prelievo
o accorpare più indagini insieme in modo da escludere procedure inutili
o evitare il contenimento fisico
o far assistere la mamma all’esecuzione della tecnica così da garantire il soddisfacimento del bisogno di sicurezza del bambino
 
§ eseguire correttamente la tecnica
 
o scegliere l’ago idoneo, osservare le norme di asepsi, identificare il tipo di provetta
o praticare il prelievo evitando possibili traumatismi della vena, eseguire una adeguata compressione così da evitare la formazione di ematomi o stravasi,…
o introdurre il sangue prelevato nell’apposita provetta avendo cura di non creare coaguli
 
§ garantire un approccio relazionale che prenda in considerazione il reale stato di sviluppo psicomotorio del bambino, quindi la sua sfera emozionale.
 
Quanto definito rende esplicito che, nell’ambito delle indagini diagnostiche l’infermiere non può porsi come mero esecutore, ma come interlocutore privilegiato, stante la specifica competenza, frutto di una formazione specifica.
L’ipotesi di addurre questa parte del processo di cure ad altri professionisti, quali ad esempio il medico,  risulta quindi un’erogazione di una prestazione professionalmente incompleta e un’offerta assistenziale priva di quel valore aggiunto che si identifica nella capacità propria dell’infermiere di  soggettivizzare l’approccio finalizzandolo allo specifico bambino che ha in cura.
 
 
2. La comunicazione della diagnosi ai genitori
 
Il momento della comunicazione della diagnosi ai genitori è generalmente anticipato da periodiche comunicazioni preparatorie.
Il bambino in questa fase continua a manifestare un elevato grado di instabilità della condizione fisica, la sua dipendenza nel processo di cure, e quella dei suoi genitori, è pressoché totale anche a causa della mancanza di conoscenza della patologia. Questo elevato grado di incertezza fa in modo che, anche per quanto riguarda il grado “comprensione/scelta”, sia quasi totalmente deficitaria la capacità di autodeterminarsi.
 
Durante questo periodo si fa forte il coinvolgimento dell’intera equipe: tale situazione, se non ben dimensionata, rischia di arrecare danni irreparabili a coloro i quali cercano dal gruppo assistenziale un elevato grado di competenza e di maturità emotiva, tra tutti i genitori.
Questa maturità serve a trasformare i sensi di colpa, che i genitori sentono per avere procreato un bambino malato, in capacità di comprendere e condividere i bisogni del proprio piccolo. In capacità di patire con lui.
La competenza dell’infermiere è forte nella sfera relazionale: per questo motivo è in grado di stabilire, di concerto con il medico,  quando e come comunicare la diagnosi.
 L’infermiere è, in questo momento, probabilmente, il professionista che più di altri ha una formazione che gli permette di instaurare una relazione empatica con i genitori, che più degli altri sa coniugare tempi e momenti assistenziali durante i quali offrire le proprie conoscenze e capacità, al fine di sfrondare i tanti dubbi e incomprensioni che non sempre vengono esternate, e questo grazie a  una vera e propria pianificazione della comunicazione.
 
La competenza dell’infermiere in questa fase è tale anche da comprendere  se la comunicazione è stata realmente percepita o se è necessario che il medico, insieme ad altri operatori quali il genetista e lo psicologo, debba riaffrontare il tema e ripuntualizzarlo. Spesso l’infermiere funge da traduttore, offrendo ai parenti del piccolo paziente uno strumento comunicativo più chiaro e comprensibile, oltre alla possibilità, dato il rapporto di fiducia e di capacità empatica, di fare quelle domande aggiuntive che mai sarebbero state rivolte se la situazione fosse avvenuta con un diverso approccio.
 
Da quanto detto si realizza che la figura dell’infermiere in questa fase del processo di cure deve essere quanto più presente. Nessun’ altra professione può in questo momento supplire agli ambiti sopra descritti. Alta motivazione professionale è possibile riscontrare in quell’infermiere che riesce ad essere tanto utile in un così delicato momento.
 
 3. La consulenza del comitato di bioetica
 
Una volta ottenuta la diagnosi, per quanto preannunciata, il dilemma etico va a colpire i genitori che si sentono portati a tutelare il loro bambino proteggendolo da ulteriori sofferenze.
 Si crea la necessità di aiutare i genitori ad affrontare il problema della presa in carico di decisioni così drammatiche: andare avanti con la medicina?
A questa domanda possiamo dare una risposta coinvolgendo un organo che più di altri sa dare delle risposte super partes in così delicate questioni: il comitato di bioetica.
Ci troviamo in questa fase davanti ad un bambino che ha ancora un’instabilità delle funzioni vitali di grado elevato e a dei genitori che hanno cominciato a comprendere ma che non hanno autonomia di cure nei confronti del figlio, visto la  precarietà delle condizioni esplicitata da episodi quali la possibile estubazione, l’eventuale desaturazione,…
E la commissione di bioetica è una conquista fondamentale nel mondo della medicina, in modo particolare nell’area critica.
La relazione infermiere- genitore, in questa fase, è incentrata nella ricerca delle reali emozioni e dei reali bisogni genitoriali di fronte alla necessità di  sapere cosa è “accanimento terapeutico”.
La competenza relazionale e di cura dell’infermiere diventa l’anello, altrimenti mancante, attraverso il quale la commissione di bioetica si avvicina ai bisogni del bambino, traducendoli in termini verbali oggettivi che nel caso contrario rimarrebbero inascoltati.
La capacità decisionale dell’infermiere sta nel non cedere il passo ad altri professionisti, forte della consapevolezza di questo suo importante ruolo, al fine di aiutare i consulenti nel prendere delle decisioni il più possibile a misura dei bisogni di quello specifico bambino malato.
 
4.La pianificazione dell’assistenza infermieristica
 
Generalmente la commissione dà mandato di migliorare la qualità di vita del piccolo paziente ma: come farlo? Quali sono le cose, gli atti, le circostanze che possono determinare una modifica positiva?
Lo strumento fondamentale, di specifica pertinenza infermieristica che può aiutare nel garantire una oggettiva valutazione dei bisogni del piccolo, in funzione anche del nuovo mandato, è il piano di assistenza.
La situazione generale che l’infermiere si trova a ridefinire ha, da una parte, il bambino proiettato verso una situazione assistenziale che tende alla cronicizzazione e, dall’altra, i genitori che stanno finalmente prendendo atto di quanto sta accadendo.
Ancora adesso, di fronte ad un grado di comprensione /scelta relativamente più alto, vi è  un livello di autonomia pari a zero.  Il piano di assistenza tenderà perciò alla risoluzione dei bisogni fisiologici del bambino, mediante la concreta realizzazione della presa in carico dell’attività assistenziale da parte del genitore, e questo proprio in funzione di quanto affermato nella premessa: la sola certezza di arrivare alla risoluzione dei bisogni del piccolo la si può avere nel momento in cui si soddisfa il bisogno di sicurezza e di amore.
 La competenza infermieristica è la garanzia di riuscita e l’infermiere ne risulta l’unico responsabile.
La possibilità di affrontare i problemi e di pianificarne una sorta di risoluzione, nonostante la patologia, dà al professionista infermiere una forte spinta motivazionale, che lo porta ad attivarsi verso nuove soluzioni, che lo stimola a effettuare verifiche continue sul proprio operato, quindi sul vissuto del soggetto delle cure.
Ecco che allora il piano di assistenza può fungere da strumento che aiuta il professionista a vivere in positivo la realtà assistenziale anche quando ha di fronte un bambino con una patologia a prognosi infausta e, in modo particolare, ad allontanare la possibilità di burnout.
Il piano di assistenza inoltre viene considerato dal genitore come uno strumento atto a garantire la continuità delle cure e a prevenire i rischi legati all’attuale stato di salute del bambino, utilizzato da professionisti competenti che offrono una nuova e/o ulteriore immagine di fiducia. L’instaurarsi della fiducia è il punto nodale sul quale si può instaurare l’inserimento del genitore nel processo di cure, caratterizzato da alcune semplici procedure, che nel tempo diverranno più complesse, che servono a dare di nuovo al genitore la sicurezza necessaria per tornare a “rimpossessarsi” del proprio figlio.
Nella nostra pianificazione dell’assistenza quindi ancora una volta ripartiamo dalla necessità di soddisfare in primis il bisogno di amore e sicurezza in una situazione in cui i bisogni del bambino stanno evolvendo verso una situazione di stabilità. Nel contempo sarà possibile valutare il grado di riappropiazione, da parte delle figure di riferimento , del bambino: l’infermiere è quindi pronto a ridefinire il suo ruolo, demandando alcune attività al genitore che, più di qualsiasi altro professionista, vede nel piccolo paziente la reale centralità del processo di cure.
 
La pianificazione dell’assistenza verterà sulla soddisfazione dei bisogni del bambino, tra questi:
 
- bisogno di amore e sicurezza.
 
Come abbiamo già detto, per fare in modo di arrivare alla risoluzione di questo bisogno, l’infermiere ha la necessità di applicare una nuova organizzazione delle attività assistenziali. Si evidenziano in questa fasi le peculiari competenze organizzative/manageriali che lo portano a riorganizzare il lavoro dell’intera equipe ( orari della visita medica, medicazioni, trattamenti in elezione, interventi d’elezione, sanificazione dei locali; la forte esperienza clinica di base pediatrica, nonché l’alta discrezionalità nel decidere una diversa  ripartizione del lavoro e delle attività da eseguire con quel e per quel bimbo.
Ciascuno di questi elementi evidenziati non ha la possibilità di essere delegabile, né demandabile a nessun’altra figura professionale. 
In questa fase specifica l’infermiere può ritrovare un alto livello motivazionale e questo grazie al riconoscimento dei vissuti emozionali madre-bambino, e al  riconoscimento del diverso modo di vivere l’ospedalizzazione da parte del piccolo paziente, che, ritrovata la madre, sembra non avere bisogno di altro.
 
Naturalmente l’inserimento dei genitori all’interno dell’organizzazione, quindi la pianificazione dell’assistenza, costa un utilizzo elevato di energie, ma quelle spese nella “formazione” vengono ad essere risparmiate grazie alla nuova situazione emotiva e psicologica nella quale il bambino accetta senza troppe reazioni negative le “imposizioni” della scienza medica (ventilazione meccanica, postura obbligata, rumore,etc).
Ancora oggi, purtroppo si attribuisce  al fattore “tempo” l’unico motivo per il quale non sembra possibile prevedere l’ingresso nei reparti di terapia intensiva dei genitori.
Per  anni invece i parenti sono stati considerati quasi degli “untori” e, con la scusa, ormai anacronistica, delle infezioni sono stati tenuti al di fuori del contesto assistenziale.
L’evidenza scientifica infermieristica e medica è invece ormai concorde nell’affermare che laddove il corpo infermieristico ha un’elevata competenza tecnica e relazionale il genitore viene ad essere parte integrante della realtà di cura.
E di questo ne beneficia soprattutto il paziente, quindi i risultati del piano di cura.
 
- bisogno di respirare
 
E’ in questo caso garantito dalla possibilità di tracheotomizzare il bambino in elezione, così da ridurre i rischi legati ad un’intubazione prolungata, garantirgli una buona ventilazione, aspirare le secrezioni che si accumulano a causa dell’impossibilità ad eseguire una tosse produttiva.
La preparazione alla tracheostomia ha, in questo caso, una doppia valenza: da una parte l’impegno è volto al bambino nel cercare la canula giusta, la dimensione giusta, di prevenire le infezioni,…
Dall’altra parte vi è invece una vera e propria attività di supporto nei confronti dei genitori che spesso pensano all’applicazione della protesi respiratoria secondo alcuni preconcetti culturali.
Per questo motivo l’infermiere con il medico deve saper informare riguardo ai perché della procedura stessa. In modo particolare l’elevata esperienza di base dell’infermiere può guidarlo nella scelta di far conoscere ai genitori del piccolo altre situazioni più o meno analoghe, chiedendo in questo caso il supporto di altre famiglie – o di associazioni- che hanno già affrontato il problema. Si ritiene comunque indispensabile la presenza dell’infermiere durante la comunicazione della procedura quale interlocutore privilegiato.
 
- bisogno di nutrirsi
Il bisogno di nutrizione rappresenta per il piccolo paziente un modo di relazionarsi con il mondo esterno. Anche per questo motivo si tende a dare la possibilità al bambino di mantenere la suzione di piccole quantità di nutriente anche quando si attua la nutrizione parenterale totale o la nutrizione enterale magari tramite sonda gastrostomica.
Questo atto può rappresentare il primo momento di presa in cura del bambino da parte della madre.Per la madre la possibilità di occuparsi dell’alimentazione, anche se somministrata in modo “artificiale”, dal punto di vista emotivo garantisce lo svolgimento reale della sua funzione primaria.
L’infermiere la educa  a questo nuovo, così particolare, contatto. Il processo di educazione andrà in alcuni casi da una rapida spiegazione dell’anatomia (utile per rendere edotti i genitori sul rischio di ab ingestis), alla esplicitazione della tecnica a cui si ricorre, alla prevenzione delle complicanze.
L’elevata  competenza relazionale, nonché il rapporto di fiducia ormai instauratosi offre in questo momento una forte motivazione dell’infermiere che può misurare, quindi valutare, il raggiungimento di un primo obiettivo verso l’autonomia.
Questo tipo di attività educativa, data l’elevata valenza relazionale, trova ancora una volta l’infermiere a fianco del genitore e del bambino, in un ruolo di sostenitore del processo di “riappropiazione” di cui lui per primo è responsabile.
 
- mantenere integra cute e mucose
E’ un’altra parte essenziale che vede coinvolti i genitori non tanto per il bisogno in sé, quanto per la possibilità di rieducarli ad una corretta e sana “manipolazione”.
Durante questa tecnica demandata al genitore, è importante garantire un livello di sicurezza elevato per entrambi i soggetti sottoposti alla osservazione responsabile dell’infermiere.
Tale livello si ottiene educando il genitore ad effettuare movimenti corretti e non bruschi, offrendogli aiuto e indicandogli gli atti che più gratificano e quelli che più possono mettere a rischio il piccolo.
Forte è il potere decisionale che ha l’infermiere nel decidere quando inserire il genitore nel processo di cure e su quali atti fargli svolgere prioritariamente.
 Alta è la discrezionalità con la quale viene deciso di sospendere la prestazione svolta o il processo di inserimento (peggioramento dello stato del bambino), sapendo quanto questa evenienza possa determinare la necessità di ricominciare da capo.
L’infermiere ancora una volta è responsabile dell’intera decisione di demandare tali interventi.
E’ in questa specifico bisogno che si può avvicinare il genitore alle tecniche di massaggio del corpo del bambino, utili sia allo scopo di stimolare sensorialmente il piccolo paziente che a riattribuire al contatto corporeo la giusta valenza di scambio di emozioni e vissuti. Accanto a questa tecnica si evidenzia la necessità per i bambini colpiti da questa patologia, di essere sottoposti all’idroterapia. Con questo termine si definisce una procedura che si attua mediante l’immersione del piccolo in acqua calda durante la quale si stimola il bambino a fare dei piccoli esercizi, avendo cura di lasciare madre e bambino da soli e di regolare la fonte di luce se artificiale, così da mantenere una situazione di riduzione del disagio al piccolo. L’immersione aiuta il bambino nel movimento  perché riduce lo sforzo muscolare, la temperatura dell’acqua e il massaggio materno lo rilassano favorendo il sonno. La madre subisce una spinta emotiva di forte entità, che se ben guidata l’aiuta  a cercare di ripetere l’applicazione di questa tecnica.
La competenza decisionale nello stabilire la possibilità di effettuare tale prestazione è resa possibile grazie all’elevata esperienza di base dell’infermiere pediatrico che sa riconoscere quando non siano presenti segni  di rischio per il paziente: desaturazione, tachicardia, febbre, tubo endotracheale non perfettamente fissato, ferita tracheostomica ancora non in perfetto ordine,…
La competenza tecnica è quindi manifestata dalla capacità di educare la madre a tenere il bambino in acqua nonostante il set dei tubi collegati al respiratore e a riconoscere i segni precoci di eventuale stress.
L’esperienza legata alla tecnica dell’idroterapia ha un forte impatto emotivo anche nel personale infermieristico che vede un coinvolgimento pressoché totale della “coppia”.
 
5. Il programma educativo
 
Una volta affrontate queste prime fasi, il genitore sarà pronto ad essere iniziato al vero e proprio programma educativo che è teso a formarlo nei seguenti punti:
 
- la gestione della tracheotomia
o detersione del foro della tracheo
o sostituzione della tracheometallina e della fettuccia di bloccaggio
o valutazione di eventuali  segni di flogosi della ferita
o valutazione dell’integrità della cute del collo
o gestione dell’emergenza respiratoria
 
- igiene del cavo orale
o eliminazione delle secrezioni
o pulizia del cavo
o valutazione se segni di flogosi o mughetto
o valutazione dello stato delle gengive
 
-  broncoaspirazione
o aspirare le secrezioni rispettando le norme igieniche e prevenendo i traumi della mucosa
o valutare la quantità e la qualità delle secrezioni
o eseguire i “lavaggetti” in caso di secrezioni dense
 
-  somministrazione dei nutrienti
o preparare il nutriente in modo pulito
o valutare il corretto posizionamento del sondino
o valutare la presenza del ristagno gastrico
o conoscere la tecnica del “gavage”
o pulire il foro della PEG, o sostituire il SNG
 
- cure igieniche
o effettuare il bagnetto
o evitare l’ipotermia
o curare l’idratazione
o valutare i segni patologici della pelle
 
- controllo del respiratore automatico, della saturazione di ossigeno, dei segni di distress respiratorio, sostituzione dei set e dei filtri dei respiratori, pulizia dell’aspiratore, …
 
Tutto questo progetto è possibile quando il grado di comprensione/ scelta dei genitori è pressoché totale, così da poter acquisire la completa autonomia gestionale della situazione legata al bisogno di cure.
Risulta forte il legame professionale tra l’infermiere con elevate capacità relazionali e educative soprattutto nel momento formativo che vede coinvolti i genitori.
 
In   tutto questo risulta evidente la necessaria formazione specifica dell’infermiere al quale viene richiesto sia una competenza in area critica, sia una formazione in campo pediatrico.
 
Conclusioni
 
E’ nostra convinzione che  l’evoluzione dell’assistenza al bambino sia basata, in modo prioritario, su un concetto che ci piace definire “l’assistenza partecipata dei genitori”, e che questa  risponda ad un livello di competenze tecniche, educative, relazionali dell’infermiere talmente elevato da arrivare a garantire al bambino “l’affettuosa professionalità dell’infermiere supportata dalle cure amorevoli del genitore”.
 
Bibliografia
 
Nutrizione entrale e parenterale
 
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Tracheotomia - Ventilazione Invasiva e non invasiva
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www. Evidencebasednursing.it

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