IBATTITO
Interviene
Nome e Cognome Maranelli (?)
Provenienza Unità coronarica, Verona
Professione
Mi
scuso per l’ennesimo intervento.
Silvestro
poneva una domanda: perché parlare sempre di terapia ed assistenza e non di
cura dato che l’obiettivo delle professioni sanitarie è il “to care”,
cioè il prendersi cura della persona?
Quindi
pari dignità significa parlare di cura medica e di cura infermieristica.
Io
vengo dalla montagna.
Il
sentir parlare di piantare paletti mi fa venire in mente che dopo i paletti di
solito si tirano i fili per i recinti, spero che non sia così.
Io
non vedo dove sia il problema; se lavoriamo insieme, accanto, fianco a fianco
il problema non esiste.
L’importante
però è esserci insieme; i problemi interdisciplinari si risolvono se le due
discipline professionali sono insieme.
Richiesta
di chiarimento
Nome
e Cognome
Provenienza Siena
Professione
Vorrei
fare una domanda al Professor Rodriguez.
Con
l’abolizione del mansionario quali sono i rischi da un punto di vista di
responsabilità penale di un infermiere generico addetto all’assistenza
personalizzata in area critica?
Esiste
una responsabilità del caposala o del dirigente infermieristico che mantiene
un infermiere generico in questa posizione?
Interviene D. Rodriguez
La
responsabilità penale personalmente non riesco a vederla, finchè non si
verifichi eventualmente un danno connesso all’agire di questo infermiere.
Dal
punto di vista amministrativo, lei faceva riferimento alle responsabilità del
caposala e del dirigente infermieristico, le responsabilità sicuramente ci
sono, collocandole in una situazione non chiara dal punto di vista
amministrativo
Richiesta
di chiarimento
Nome e Cognome A. Silvestro
Professione Dirigente Servizio Infermieristico Ass 4 Medio Friuli
Provenienza Udine
Vorrei
anch’io un chiarimento.
Se
con la Legge 42/99 è stato abrogato il mansionario per gli infermieri, fatto
salvo il capo quinto che riguarda l’infermiere generico, questo che
significato ha allora?
Perché
in una legge dello Stato del 1992 si dice che l’infermiere generico può
fare solo quello che era previsto dal suo mansionario, praticamente niente.
Anch’io
Professor Rodriguez vorrei un ulteriore chiarimento.
Interviene D.
Rodriguez
Il
fatto di non rispettare un mansionario corrisponde ad una violazione di una
norma penale, siamo di fronte ad un esercizio abusivo di professione oppure
no?
Io
anche in passato, quando si discuteva dell’andare oltre il mansionario, ero
molto critico circa il fatto che si potesse applicare questa norma
dell’esercizio abusivo perché voleva dire andare veramente oltre e contro
la realtà dei fatti.
Di
fatto non c’è stata in Italia nessuna sentenza in cui qualunque
professionista sanitario sia stato condannato per avere svolto delle attività
al di fuori del mansionario, quindi ipotizzarlo adesso mi sembra forse
eccessivo, però nella mente dei giuristi è difficile esserci.
Interviene A. Dalponte
In
questo dibattito sul problema della responsabilità volevo portare quella che
è la mia esperienza.
Noi
stiamo monitorando a Trento, nella nostra azienda sanitaria, da due anni su
dieci reparti, cosa avviene nella presa in cura del paziente dall’ingresso
alla dimissione.
E’
una ricerca che stanno facendo medici ed infermieri.
Stiamo
discutendo i dati raccolti dagli operatori, sia quindi dai medici che dagli
infermieri, in particolare abbiamo coinvolto primari e caposala.
Sono
spaventati, addirittura una
scheda che riguarda proprio tutto il problema della gestione delle terapie,
quasi quasi, hanno detto falla sparire.
Qualche
volta è molto artificioso discuterne a livello di sala, di convegno ma poi in
reparto, invece, c’è un coinvolgimento così stretto e così rilevante
dell’infermiere che nel momento in cui si comincia a fare ricerca ed a descrivere queste cose c’è sorpresa sia da una
parte che dall’altra.
Da
questa ricerca, tra l’altro, sta emergendo quanto e quante sono le aree di
interdipendenza.
Tanto
lavoro per definire i confini poi quando vai a fare ricerca vedi che invece
c’è tantissima attività che è assolutamente integrata.
Per
il controllo di gestione, ad esempio, per fare quadrare i conti, l’80%
dell’attività viene fatta dai caposala e dal personale infermieristico.
Allora,
poiché l’anno prossimo il tema sarà la ricerca, invito proprio ad andare a
vedere cosa succede davvero in questa responsabilità, in queste attività,
chi ne risponde, chi valuta, chi tiene monitorati alcune prodotti ed alcuni
risultati perché credo che sia proprio interessante.
Interviene
Nome
e Cognome Del Vecchio
Professione Caposala
Provenienza Rianimazione Foggia
Tra
le ipotesi di sviluppo della professione infermieristica secondo me c’è
l’acquisizione della laurea in scienze infermieristiche.
Una
proposta al dott. Zanello come
componente della SIAARTI: il suo impegno insieme al Presidente, Prof.
Martinelli, a lavorare insieme affinché venga attuata la normativa per
l’acquisizione della laurea in Scienze Infermieristiche.
Interviene M. Casati
Vorrei
fare una breve riflessione sul discorso diagnosi e terapia, perché
probabilmente è su questo che dobbiamo discutere con le altre componenti, le
altre professioni sanitarie.
Una
delle riflessioni fatte collegialmente in questo ultimo periodo, sia con
persone che sono in formazione e diventeranno infermieri, sia con dei
colleghi, porta comunque a pensare che se la società attuale prevede dei
farmaci da banco, quindi di automedicazione che il singolo cittadino può
decidere di fare con le opportune istruzioni, forse un percorso da attivare in
termini di riflessione seria, congiunta e anche di definizione poi operativa
di una serie di ripercussioni va fatta sul termine diagnosi e terapia.
Perché
comunque il termine diagnosi non è un termine esclusivo, disciplinare della
professione medica, è la definizione di un problema e, come tale, ci sono
comunque dal 1953 in poi in
America gruppi di società scientifiche infermieristiche che validano diagnosi infermieristiche e quindi, anche in questo senso,
bisognerebbe capire qual è la diagnosi di cui si parla, sicuramente al medico afferisce la diagnosi
medica, e anche sul senso della terapia bisognerebbe fare una riflessione,
perché è terapeutico tutto quello che è curativo?
E
se è terapeutico qualcosa di specifico e qualcosa di specifico afferisce al
medico, è terapia solo quella
farmacologica, quella chirurgica o è anche qualcos’altro?
Un
esempio che uno studente porta in aula è “ ma se io vedo una persona
sdraiata, pallida e voglio fargli una glicemia, questo non è un atto
diagnostico? “ e aggiunge : “ e se dopo gli do un po’ di latte con dello zucchero, in quanto
chiaramente in ipoglicemia … questa è terapia? E fino a che punto mi posso spingere
spostando questo in area critica come infermiere ? “
Credo
che queste siano delle riflessioni molto serie, perché al di là di tutto la
diagnosi è medica e la terapia dovrebbe essere specificata qual’è e perché,
anche alla luce di tutti i trattamenti degli altri professionisti soggetti a
profilo, io credo che questo abbia un certo peso.
Interviene M. Zanello
L’area critica è un laboratorio del lavorare assieme, stiamo parlandoci in qualche modo contro perché non vogliamo capirci, quando invece è il momento dell’attività quotidiana, di una integrazione continua e continuativa, credo, di un rispetto e condivisione che viene quotidianamente affrontata e accettata.
Penso
che questi stessi argomenti in altre aree avrebbero dei motivi di acuire ben
diversi, perché quella quotidianità del vivere insieme non so quanto possa
creare momenti di contatto.
Quello
di cui ha parlato lei è un argomento estremamente vivace, è il problema
della intensità delle cose; l’esempio
che ha fatto è, tutto
sommato il diabetico, abituato a controllarsi la glicemia
e
a farsi un auto terapia, addirittura si fa l’insulina, un farmaco che se non
sbaglio deve essere prescritto da un medico, ancora per un po’ poi vedremo.
Quindi
è un esempio, quello che lei fa sicuramente, che fa riflettere, in quanto e
dove sono i limiti e i margini degli
interventi.
E’
chiaro che una diagnosi in sé non ha senso se non apre una terapia.
Allora
in ambito critico questo che limiti ha?
Io
sinceramente le do il mio pensiero del tutto personale, voi contribuite
quotidianamente in modo continuativo alla diagnosi e alla titolazione della
terapia, questo è stato detto, allora questo è sufficiente a riconoscere
questa cosa?
Come
si possono spostare i termini, cioè seguire un monitoraggio per segnalare un
eventuale evento “disturbante”, e collegarli al trattamento non è di
fatto questo uno degli elementi della diagnosi e
della terapia?
Nell’ambito
critico non è fattibile in modo puntuale e statico, non è una fotografia
come può essere una diagnosi in un ambulatorio, è un processo dinamico, che
può richiedere, deve richiedere a mio parere, più competenze, più
professioni di cui queste due, infermieri e medici, sono quelle più vicine fra di loro, sono quelli che hanno più cose in
comune.
Se
vogliamo spingere il discorso più avanti, dove finiscono le cose in comune?
Io
francamente non me la sento, non ho elementi per poterlo dire, io con i miei
infermieri dico sempre, io il vostro mestiere non lo conosco, lo dirò sempre,
cerco di capirlo ma non posso conoscerlo.
Ecco,
se voi avete delle conoscenze in ambito medico, e le avete perché il vostro
percorso formativo le istituzionalizza in modo anche capillare, questo che
spazio di diagnosi e terapia aprono?
Non
credo che stia a me decidere, penso che negli ambienti con la stima e la
conoscenza vicendevole, possono emergere nel lavoro quotidiano fino a che punto uno
può fare e quando ha bisogno di un'altra professionalità.
Questo
è un pensiero personale, non è normato, non vuole portare a niente più di
una organizzazione del lavoro più pertinente.
Un
altro campo credo estremamente importante: il PSN, per esempio,
richiede l’abbattimento in modo sostanziale delle infezioni ospedaliere e
questo é un piano sanitario che deve essere completato nel giro di un
triennio; se questo problema non
viene condiviso tra le due professionalità non sarà a mio parere perseguito.
Interviene M. D’Innocenzo
Vorrei
sottolineare che condivido molte delle cose che diceva adesso il dott.
Zanello.
Vorrei
anche sottolineare il fatto che evidentemente sono stata male interpretata
quando ho indotto nel collega una contrapposizione, anzi avevo colto alcune
sollecitazioni che aveva fatto il medico della SIAARTI e le avevo prese come
spunto per riflettere e per porci delle domande.
Io
ritengo che l’area critica abbia per definizione, nel corso degli anni, ecco
perché condivido l’impostazione del discorso ed i contenuti proposti poc’anzi, rappresentato l’integrazione
professionale.
Quando
si parla di area critica inevitabilmente si parla della prima area che ha
iniziato ad utilizzare i protocolli integrati, che ha fatto delle scelte di
integrazione professionale, le scelte interdisciplinari.
Allora noi siamo consapevoli di questo terreno su cui vogliamo costruire ed è proprio a partire da questo che non capiamo alcune chiusure.
Io facevo riferimento ad alcune riflessioni che il suo discorso mi aveva comportato;
purtroppo lei rappresenta una parte del mondo delle professioni sanitarie e badi non è solo il problema delle professioni mediche, cioè una cultura che osteggia il cambiamento non è solo delle professioni mediche in sanità e fuori la sanità, spesso anche degli infermieri stessi.
Quindi quando io faccio questi ragionamenti, non li faccio solo nei confronti
dei medici, ma anche, come dico qualche volta, il problema degli infermieri sono gli infermieri stessi, perché il
cambiamento passa soprattutto attraverso
di loro, cioè attraverso la consapevolezza, la condivisione, la responsabilità
del cambiamento.
Quindi,
in merito a quello che esprimeva il collega prima, su come spesso
nell’emergenza i ruoli rompono
i paletti, gli steccati a cui faceva riferimento la collega, il problema sorge
là dove si identificano poteri dietro le competenze.
Allora
voglio essere onesta in quanto l’onestà intellettuale ci aiuta tutti
quanti.
Noi
qui rappresentiamo le forze sane che stanno discutendo, però noi dobbiamo
fare anche i conti con quelli che
non ci vogliono capire da questo punto di vista, non che non capiscono, che spesso non vogliono capire, non vogliono
comprendere che si è avviato un processo.
Allora
perché quando io dicevo non sono certificati, accreditati, non lo dicevo
rispetto alle cose che ci poneva lei, dicevo che il problema
dell’accreditamento è uno dei terreni unificanti, ma non è il solo e ci fa
mettere a nudo un po’ tutti i problemi da affrontare e risolvere, gli
obiettivi da raggiungere, dopo di ciò la Legge 42/99 è una bellissima
occasione per l’integrazione professionale.
Interviene D.
Rodriguez
Vorrei partire dall’intervento di Casati la quale ci ha un po’ richiamato all’ordine e ha detto che ci sono tutte una serie di teorie, ma si deve entrare nel concreto di tutta una serie di definizioni sul concetto di diagnosi e terapia.
Vorrei
fare un discorso estremo, sapendo che è un discorso estremo, ma sapendo anche
che è molto difficile dimostrare che questo è un discorso estremo.
Da
nessuna parte c’è scritto che solo il medico può fare diagnosi e solo il
medico può fare terapia.
Questo
è un dato di fatto oggettivo e qui cito a memoria ( potrei avere delle
incertezze) relativamente per esempio ad alcune professioni sanitarie, se non
sbaglio proprio relativamente agli ortottisti si fa riferimento esplicito al
fatto che possano, anzi debbano fare diagnosi relativamente a tutta una serie
di patologie di loro competenza nel senso della riabilitazione che compete
loro.
Allora
questo è sicuramente un punto di grosso confronto, perché, per ritornare alle domande di prima, sull’esercizio abusivo, se domani
un infermiere facesse diagnosi e facesse terapia e facesse l’uno e l’altro
in maniera corretta, ci dobbiamo interrogare se veramente stia facendo
esercizio abusivo di professione.
Non
è una delle condizioni, se così si può definire, sta proprio nel senso di
responsabilità che ciascuno deve
avere e nella consapevolezza delle proprie competenze, però ancora una volta
questa è teoria e quando prima parlavo di paletti intendevo dire che ci
vogliono dei paletti teorici abbastanza chiari all’interno dei quali
riuscirci ad orientare.
Ma
sicuramente la necessità è passare dalla teoria alla pratica e per fare
questo probabilmente il cammino è veramente lungo.
Comunque
questo è un invito a
confrontarsi sul significato della diagnosi, della terapia, sul significato
del prendersi cura e del curare, sul significato del codice deontologico dove
c’è scritto curare e prendersi cura.
Sono
tutte delle definizioni sulle quali occorre riflettere veramente fino in
fondo.
In
questa sede io non me la sento di dare risposte, se non di dire
provocatoriamente: non vedo perché, per definizione diagnosi e/o terapia
debbano essere proibite all’infermiere oppure si debba relegare
all’infermiere soltanto la diagnosi dei bisogni o tutta un’altra serie di
discorsi che si possono fare.
A
questo proposito, circa il discorso dei protocolli e delle linee guida che parzialmente possono entrare nel discorso, sono un po’ perplesso e un po’ critico.
Sono
perplesso perché possono
rappresentare un comodo rifugio di chi non sa assumere le proprie
responsabilità, quasi che si potesse sostituire al mansionario un’altra
gabbia rappresentata da linee guida, per quello dico che il processo forte e
importante è che sicuramente qualunque protocollo venga condiviso a livello
locale, se non addirittura elaborato e idem dicasi per le linee guida, perché
qualunque accettazione acritica è possibile; siccome però vedo che forse le
tendenze sono quelle di trovare delle soluzioni facili, trovare delle
certezze, direi che l’importante è non tanto trovare le certezze, ma
riuscire criticamente a elaborare questi strumenti, che sono poi degli
strumenti di operatività indubbi.
Interviene E. Drigo
Vorrei puntualizzare alcune cose.
Per
quanto riguarda la diagnosi e terapia è palesemente un argomento scottante.
Probabilmente
però non c’è neanche l’abitudine a parlarne in maniera precisa tra di
noi, forse perché è sempre stato un argomento lasciato ai margini e si è
andati avanti con consuetudini nell’operatività quotidiana.
I
medici delegavano alcune cose, gli infermieri le facevano perché erano in
grado di farle e c’era un consenso in questa direzione, il dott.Zanello
stesso ci ha fatto prima menzione di tutti quegli interventi nei quali difficilmente si riesce a definire precisamente una cosa e l’altra.
Io
prima facevo un esempio in riferimento all’infusione di dopamina quando l’infusione deve essere variata anche in tempi brevi e non
c’è la presenza del medico: è chiaro che la variazione della velocità di
infusione è una prescrizione terapeutica,
ma è palesemente impossibile questo discorso ed è anche palesemente chiaro
che la gestione di queste variazioni viene fatta dall’operatore che in quel
momento segue nella sua globalità quel paziente e quindi dall’infermiere.
Quindi
c’è una competenza, non border line in questo contesto, però penso che su questo discorso vanno puntualizzate alcune cose,
soprattutto per fare chiarezza rispetto al passato ed è in questo senso che
sollevavo il problema di ridefinire che cosa intendiamo per diagnosi e
terapia.
Quindi
abbiamo capito che c’è un grosso capitolo sul quale riflettere insieme e
che forse può rappresentare uno degli elementi sul quale incominciare a
fondare un confronto serio tra la professione infermieristica e la professione
medica; confronto che credo non possa più
essere rimandato.
Ma
so che ci sono delle esperienze che vanno avanti da molto tempo e se
riconosciute, se codificate e se prese con la dovuta serenità, senza il
problema di invasione di campo e paletti vari, non rappresentino un problema, in quanto questa è già storia, direi,
e soprattutto in area critica questa è già storia.
Si
tratta semplicemente, a mio
avviso, di definire linguaggi e di puntare sugli obiettivi.
L’altro
elemento importante sul quale dovrebbe svilupparsi il confronto è
all’interno della professione infermieristica.
Se
vi ricordate l’intervento della Dalponte in merito a quell’indagine che
stanno facendo a Trento, sul monitoraggio degli interventi all’interno delle
unità operative dove si evidenzia che per l’80% sono gestiti da infermieri,
vorrei che si sviluppasse una riflessione e un confronto su quegli aspetti a
cui il profilo ci richiama.
Prima
citavo alcuni passi del profilo, dove alcuni elementi ci obbligano a
partecipare all’identificazione dei bisogni di salute della collettività.
Io
credo che questo sia un compito di una dimensione incredibile, se poi parliamo
di pianificare, gestire e valutare l’intervento assistenziale
infermieristico.
Pensiamo
a cosa voglia significare pianificare nel pieno senso di questo termine : significa necessariamente mettere insieme tutte le risorse del sistema,
mettere insieme le altre competenze, le altre professionalità che
all’interno della pianificazione dell’assistenza necessariamente entrano.
Che
cosa vuol dire questo se non mettere insieme le competenze, mettere insieme i
piani, i progetti, vederne la fattibilità?
E’
questo che io credo sia un ambito nel quale veramente la professione
infermieristica per quanto ci riguarda, e la professione medica per quanto
riguarda le loro competenze, deve espandersi all’interno di questa nuova filosofia, che finalmente è entrata con una razionalità e una ragionevolezza nel sistema sanitario nazionale, che punta agli obiettivi da raggiungere, ai risultati di qualità di salute nei
confronti dei cittadini.
Se
volete sono degli obiettivi alti
da raggiungere, credo che siano di un importanza, di un impegno immane, e questo al di la della diagnosi e terapia che sinceramente
penso sia una banalità rispetto al fatto di riuscire a raggiungere tali
obiettivi.
Proviamo
a pensare cosa vuol dire pianificare
l’assistenza infermieristica nei confronti delle altre professioni.
Quando
prima parlavo di medicocentrismo del sistema sanitario, non era per fare
polemica con i medici, con il dott.Zanello o con la SIAARTI, ma è la cultura
italiana da duemila anni che ha costruito questo sistema, è responsabilità
di tutti, anche nostra.
Quindi
non diamo la colpa solo ai
medici, ma ognuno si prenda le proprie responsabilità.
Ormai
siamo obbligati a capovolgere questa visione del sistema sanitario
medicocentrista, però cosa implica pianificare l’assistenza infermieristica
nei confronti di altre professioni come ad esempio la professione medica?
Quale
grossa trasformazione deve fare la mentalità del medico rispetto a questo, ad
esempio pensiamo al loro corso di laurea che non prevede l’organizzazione e
adesso si ritrovano tutti dirigenti, non si può certo dare la colpa al
singolo medico, ma le cose stanno così.
Questo
però è il contesto nel quale ci
troviamo, la grossa fatica che
dobbiamo fare, ciascuno per la propria parte, probabilmente i medici faranno
ancora più fatica di noi a cambiare.
Ma
la grossa fatica che dobbiamo
fare è andare dall’altra parte, assumere un'altra mentalità, perché la
storia di oggi lo richiede.
Questa
credo è la grossa sfida che dobbiamo affrontare con estrema urgenza tutti
insieme.
Sicuramente
ci sono dei problemi di capacità di dialogo, di discussione, ma credo che se
noi andiamo alla radice del problema abbiamo moltissimi motivi per lavorare
bene insieme.
Tra
l’altro se noi guardiamo le nostre unità operative, c’e il riscontro
diretto della condivisione degli obiettivi e di risultati che ciascuno ha.
Allora
se questa è la realtà, penso che il momento del dialogo e della risoluzione
dei problemi sia arrivato, affrontando ad uno ad uno i vari problemi, anche
sulla diagnosi e terapia, senza aver paura l’uno dell’altro, tenendo
sempre presente quello che è l’obiettivo finale.
Interviene
Nome e Cognome Fabio Merelli
Professione Infermiere
Provenienza Rianimazione Adulti S.Orsola-Malpighi Bologna
Volevo
chiedere al Dott.Zanello in quanto membro autorevole della SIAARTI, quale è la posizione ufficiale della SIAARTI riguardo alla laurea in Scienze
Infermieristiche e anche la sua opinione sull’aggiornamento relativo alla
legislazione sanitaria che da parte loro vedo molto scarso, sembra quasi che
tutte questi nuovi interventi legislativi non li abbia proprio toccati o
perlomeno questo è quanto traspare dal loro ambiente.
Interviene M. Zanello
La SIAARTI è una
associazione scientifica e
naturalmente si mette a disposizione delle
istituzioni e cerca di collaborare e dare informazioni, dà suggerimenti anche
al potere politico, che poi venga ascoltato o meno non dipende certo da noi.
L’atteggiamento
della SIAARTI è quello di grande interesse riguardo allo sviluppo della
professione infermieristica sia nell’ambito delle sale operatorie che del
mondo critico.
Questo,
diciamo, è un atteggiamento strategico; non ha avuto tutto questo una sua
espressione pratica perché in mezzo ci sono altre cose, c’è il ministero
della pubblica istruzione che oggi si chiama della Ricerca per la parte universitaria, ci sono sindacati per pilotare
altre decisioni e quindi come organo scientifico ha sempre visto soprattutto
in ambito anestesiologico e di sala operatoria con grande attenzione una
figura che abbia competenze specifiche in questo ambito.
Però,
ripeto, è un organismo scientifico che si confronta essenzialmente con altre
società scientifiche in merito a problemi concernenti il proprio ambito professionale.
Sull’altro
quesito posso rispondere da cittadino, che noi non si sappia molto bene le
leggi penso sia un problema molto diffuso.
Dispiace
che nell’ambito specifico ci sia poca
attenzione, poco interesse; però questo è un problema dei media, della vostra società scientifica, non credo che
debba essere visto così, come cattiva volontà sull’informarsi o un
atteggiamento antistorico, credo che bisogna facilitare questo processo di
apprendimento, di conoscenza, di spazi e di integrazioni.
Senza
voler rovinare tutto mi permettevo di rientrare sull’esempio che ha fatto
prima Drigo, in merito alla
velocità di infusione della
dopamina.
Punto
primo si faccia in modo che il medico sia presente in reparto in quanto è
pagato per farlo.
Punto secondo sarà quel che sarà e credo che tutti dobbiamo essere molto
sereni e aperti a questo,
mi
piacerebbe configurare una potente professione infermieristica con una potente
professione medica numericamente e fortemente sbilanciati, ma questo vuol dire
arrivare a fare chiudere delle facoltà di medicina, fare produrre pochi
medici che sappiano il doppio di quello che so io, perché hanno avuto dei
processi di formazione loro più orientati e mirati, perché la professione
infermieristica ha tolto con un equivalenza di capacità e di conoscenze, una
grossa fetta di quello che doveva essere le conoscenze del medico.
Questo
mi piace molto come atteggiamento, però direi, in attesa che questo possa avvenire, ritornando a quell’esempio, che
il medico stia lì con voi perché
collabora con voi e che caso mai voi diate a lui gli elementi di una diagnosi
orientata.
Ecco
credo che questi possono essere i primi passi per condividere, per rispettarsi, per affidarsi e quindi cedere e
conquistare spazi.
Richiesta di chiarimento
Nome
e Cognome Sonia Gualtieri
Professione
Provenienza Dipartimento di Emergenza di Reggio Emilia
Una
domanda rivolta al prof. Rodriguez.
Ci
troviamo in un intervento di emergenza, in questo caso in un arresto cardio
respiratorio
C’e la presenza di un medico, di un infermiere, di un equipe in grado di
attuare manovre di supporto vitale avanzato ed in questo caso viene
considerato il leader dell’equipe il medico con l’integrazione di tutte le
componenti.
Durante
questo intervento emergono delle criticità di una certa gravità.
L’infermiere
con esperienza di rianimazione, corsi di BLS e ACLS, quindi con competenze certificate si rende conto che il medico
non è in grado di mantenere la pervietà delle vie aeree e di ossigenare il
paziente.
Ha
difficoltà ad intubarlo, non è
in grado di evitargli l’abingestis etc.
A
questo punto l’infermiere che si assume la responsabilità di dire al
medico, “ provo io “, in che condizioni si mette, oppure cosa dobbiamo
fare?
Risponde D. Rodriguez
Il quesito sembra più attenere la responsabilità nell’equipe piuttosto che le responsabilità dei singoli e posso avere dei miei pensieri personali, però ci sono state anche delle sentenze e quindi cerco di rispondere sfruttando quest’ultima via.
All’interno
di un equipe ciascuno ha la sua responsabilità, e già questo è un discorso
grosso e per adesso facciamo finta che non ci siano problemi in questo, e
arriviamo al caso concreto.
La
responsabilità del singolo sopravanza quella
degli altri e ne sentenzia esattamente in due casi, che sono quelli in cui o
il capo equipe ha la responsabilità anche su quello che fanno gli altri sia
in funzione della organizzazione previa, sia in funzione del coordinamento
durante l’attività, oppure
l’altro che in sentenze è
saltato fuori, quando un membro dell’equipe si renda conto che un altro
membro dell’equipe sta facendo qualcosa che non va, allora automaticamente
subentra la sua responsabilità.
Allora
di primo acchito risponderei: l’infermiere che si rende conto che il medico
per un qualche motivo non sta realizzando l’obiettivo principale deve
intervenire, poi i modi , i tempi, lo stile, i rapporti interpersonali è un
altro grosso discorso, ma diciamo che comunque si deve non tirare indietro.
Questo
come obiettivo generale di tutela della salute del paziente.
Il
problema è, di fronte ad un
eventuale resistenza del medico, l’infermiere “ ha la facoltà dì “ oppure
“ ha il dovere dì ”, questo è il problema, al quale io rispondo con un
mio preciso convincimento, che discende da una mia interpretazione sul fatto
che le competenze si acquistano sul campo, sul fatto che credo al curare e
prendersi cura, però se qualcuno mi dovesse dire, guarda che l’assistenza
infermieristica è qualcosa di diverso allora io mi arrendo e mi tiro indietro.
E’
quello che volevo dire prima, la definizione di assistenza infermieristica è
tipicamente la vostra professione.
Se
voi nell’elaborazione culturale
dite che l’assistenza infermieristica corrisponde anche ad un curare,
prendersi cura in alcune situazioni come quella descritta, dico sì, sono
perfettamente d’accordo che “ l’infermiere deve ”.
Allora cercando di sintetizzare, ma sempre in linea con quello che ho detto prima, nell’incertezza del fatto che l’infermiere non possa né fare diagnosi e né terapia, dico che quell’infermiere non solo poteva, ma doveva.