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Congresso Nazionale Aniarti 1999

ACCREDITAMENTO E CERTIFICAZIONE IN AREA CRITICA.

Bologna (BO), 10 Novembre - November 1999 / 12 Novembre - November 1999

» Indice degli atti del programma

 

12 Novembre - November 1999: 16:30 / 17:30

IBATTITO   

Interviene

Nome e Cognome Maranelli (?)

Provenienza Unità coronarica, Verona

Professione 

Mi scuso per l’ennesimo intervento. 

Silvestro poneva una domanda: perché parlare sempre di terapia ed assistenza e non di cura dato che l’obiettivo delle professioni sanitarie è il “to care”, cioè il prendersi cura della persona? 

Quindi pari dignità significa parlare di cura medica e di cura infermieristica. 

Io vengo dalla montagna. 

Il sentir parlare di piantare paletti mi fa venire in mente che dopo i paletti di solito si tirano i fili per i recinti, spero che non sia così. 

Io non vedo dove sia il problema; se lavoriamo insieme, accanto, fianco a fianco il problema non esiste. 

L’importante però è esserci insieme; i problemi interdisciplinari si risolvono se le due discipline professionali sono insieme. 

Richiesta  di chiarimento 

Nome e Cognome 

Provenienza Siena 

Professione 

Vorrei fare una domanda al Professor Rodriguez. 

Con l’abolizione del mansionario quali sono i rischi da un punto di vista di responsabilità penale di un infermiere generico addetto all’assistenza personalizzata in area critica? 

Esiste una responsabilità del caposala o del dirigente infermieristico che mantiene un infermiere generico in questa posizione? 

Interviene D. Rodriguez 

La responsabilità penale personalmente non riesco a vederla, finchè non si verifichi eventualmente un danno connesso all’agire di questo infermiere. 

Dal punto di vista amministrativo, lei faceva riferimento alle responsabilità del caposala e del dirigente infermieristico, le responsabilità sicuramente ci sono, collocandole in una situazione non chiara dal punto di vista amministrativo   

Richiesta di chiarimento 

Nome e Cognome A.  Silvestro 

Professione Dirigente Servizio Infermieristico Ass 4 Medio Friuli

Provenienza Udine 

Vorrei anch’io un chiarimento. 

Se con la Legge 42/99 è stato abrogato il mansionario per gli infermieri, fatto salvo il capo quinto che riguarda l’infermiere generico, questo che significato ha allora? 

Perché in una legge dello Stato del 1992 si dice che l’infermiere generico può fare solo quello che era previsto dal suo mansionario, praticamente niente. 

Anch’io Professor Rodriguez vorrei un ulteriore chiarimento.   

Interviene D. Rodriguez 

Il fatto di non rispettare un mansionario corrisponde ad una violazione di una norma penale, siamo di fronte ad un esercizio abusivo di professione oppure no? 

Io anche in passato, quando si discuteva dell’andare oltre il mansionario, ero molto critico circa il fatto che si potesse applicare questa norma dell’esercizio abusivo perché voleva dire andare veramente oltre e contro la realtà dei fatti. 

Di fatto non c’è stata in Italia nessuna sentenza in cui qualunque professionista sanitario sia stato condannato per avere svolto delle attività al di fuori del mansionario, quindi ipotizzarlo adesso mi sembra forse eccessivo, però nella mente dei giuristi è difficile esserci.   

Interviene A. Dalponte 

In questo dibattito sul problema della responsabilità volevo portare quella che è la mia esperienza. 

Noi stiamo monitorando a Trento, nella nostra azienda sanitaria, da due anni su dieci reparti, cosa avviene nella presa in cura del paziente dall’ingresso alla dimissione. 

E’ una ricerca che stanno facendo medici ed infermieri. 

Stiamo discutendo i dati raccolti dagli operatori, sia quindi dai medici che dagli infermieri, in particolare abbiamo coinvolto primari e caposala. 

Sono spaventati, addirittura una scheda che riguarda proprio tutto il problema della gestione delle terapie, quasi quasi, hanno detto falla sparire. 

Qualche volta è molto artificioso discuterne a livello di sala, di convegno ma poi in reparto, invece, c’è un coinvolgimento così stretto e così rilevante dell’infermiere che nel momento in cui si comincia a fare ricerca ed a descrivere queste cose c’è sorpresa sia da una parte che dall’altra. 

Da questa ricerca, tra l’altro, sta emergendo quanto e quante sono le aree di interdipendenza. 

Tanto lavoro per definire i confini poi quando vai a fare ricerca vedi che invece c’è tantissima attività che è assolutamente integrata. 

Per il controllo di gestione, ad esempio, per fare quadrare i conti, l’80% dell’attività viene fatta dai caposala e dal personale infermieristico. 

Allora, poiché l’anno prossimo il tema sarà la ricerca, invito proprio ad andare a vedere cosa succede davvero in questa responsabilità, in queste attività, chi ne risponde, chi valuta, chi tiene monitorati alcune prodotti ed alcuni risultati perché credo che sia proprio interessante. 

Interviene 

Nome e Cognome Del Vecchio 

Professione Caposala 

Provenienza Rianimazione Foggia 

Tra le ipotesi di sviluppo della professione infermieristica secondo me c’è l’acquisizione della laurea in scienze infermieristiche. 

Una proposta al dott. Zanello come componente della SIAARTI: il suo impegno insieme al Presidente, Prof. Martinelli, a lavorare insieme affinché venga attuata la normativa per l’acquisizione della laurea in Scienze Infermieristiche. 

 Interviene M. Casati    

Vorrei fare una breve riflessione sul discorso diagnosi e terapia, perché probabilmente è su questo che dobbiamo discutere con le altre componenti, le altre professioni sanitarie. 

Una delle riflessioni fatte collegialmente in questo ultimo periodo, sia con persone che sono in formazione e diventeranno infermieri, sia con dei colleghi, porta comunque a pensare che se la società attuale prevede dei farmaci da banco, quindi di automedicazione che il singolo cittadino può decidere di fare con le opportune istruzioni, forse un percorso da attivare in termini di riflessione seria, congiunta e anche di definizione poi operativa di una serie di ripercussioni va fatta sul termine diagnosi e terapia. 

Perché comunque il termine diagnosi non è un termine esclusivo, disciplinare della professione medica, è la definizione di un problema e, come tale, ci sono comunque dal 1953 in poi in America gruppi di società scientifiche infermieristiche che validano diagnosi infermieristiche e quindi, anche in questo senso, bisognerebbe capire qual è la diagnosi di cui si parla, sicuramente al medico afferisce la diagnosi medica, e anche sul senso della terapia bisognerebbe fare una riflessione, perché è terapeutico tutto quello che è curativo? 

E se è terapeutico qualcosa di specifico e qualcosa di specifico afferisce al medico, è terapia solo quella farmacologica, quella chirurgica o è anche qualcos’altro? 

Un esempio che uno studente porta in aula è “ ma se io vedo una persona sdraiata, pallida e voglio fargli una glicemia, questo non è un atto diagnostico? “ e aggiunge : “ e se dopo gli do un po’ di latte con dello zucchero, in quanto chiaramente in ipoglicemia … questa è terapia? E fino a che punto mi posso spingere spostando questo in area critica come infermiere ? “ 

Credo che queste siano delle riflessioni molto serie, perché al di là di tutto la diagnosi è medica e la terapia dovrebbe essere specificata qual’è e perché, anche alla luce di tutti i trattamenti degli altri professionisti soggetti a profilo, io credo che questo abbia un certo peso. 

Interviene M. Zanello 

L’area critica è un laboratorio del lavorare assieme, stiamo parlandoci in qualche modo contro perché non vogliamo capirci, quando invece è il momento dell’attività quotidiana, di una integrazione continua e continuativa, credo, di un rispetto e condivisione che viene quotidianamente affrontata e accettata.

Penso che questi stessi argomenti in altre aree avrebbero dei motivi di acuire ben diversi, perché quella quotidianità del vivere insieme non so quanto possa creare momenti di contatto. 

Quello di cui ha parlato lei è un argomento estremamente vivace, è il problema della intensità delle cose; l’esempio che ha fatto è, tutto sommato il diabetico, abituato a controllarsi la glicemia 

e a farsi un auto terapia, addirittura si fa l’insulina, un farmaco che se non sbaglio deve essere prescritto da un medico, ancora per un po’ poi vedremo. 

Quindi è un esempio, quello che lei fa sicuramente, che fa riflettere, in quanto e dove sono i limiti e i margini degli interventi. 

E’ chiaro che una diagnosi in sé non ha senso se non apre una terapia. 

Allora in ambito critico questo che limiti ha? 

Io sinceramente le do il mio pensiero del tutto personale, voi contribuite quotidianamente in modo continuativo alla diagnosi e alla titolazione della terapia, questo è stato detto, allora questo è sufficiente a riconoscere questa cosa?  

Come si possono spostare i termini, cioè seguire un monitoraggio per segnalare un eventuale evento “disturbante”, e collegarli al trattamento non è di fatto questo uno degli elementi della diagnosi e della terapia? 

Nell’ambito critico non è fattibile in modo puntuale e statico, non è una fotografia come può essere una diagnosi in un ambulatorio, è un processo dinamico, che può richiedere, deve richiedere a mio parere, più competenze, più professioni di cui queste due, infermieri e medici, sono quelle più vicine fra di loro, sono quelli che hanno più cose in comune. 

Se vogliamo spingere il discorso più avanti, dove finiscono le cose in comune? 

Io francamente non me la sento, non ho elementi per poterlo dire, io con i miei infermieri dico sempre, io il vostro mestiere non lo conosco, lo dirò sempre, cerco di capirlo ma non posso conoscerlo. 

Ecco, se voi avete delle conoscenze in ambito medico, e le avete perché il vostro percorso formativo le istituzionalizza in modo anche capillare, questo che spazio di diagnosi e terapia aprono? 

Non credo che stia a me decidere, penso che negli ambienti con la stima e la conoscenza vicendevole, possono emergere nel lavoro quotidiano fino a che punto uno può fare e quando ha bisogno di un'altra professionalità. 

Questo è un pensiero personale, non è normato, non vuole portare a niente più di una organizzazione del lavoro più pertinente. 

Un altro campo credo estremamente importante: il PSN, per esempio, richiede l’abbattimento in modo sostanziale delle infezioni ospedaliere e questo é un piano sanitario che deve essere completato nel giro di un triennio; se questo problema non viene condiviso tra le due professionalità non sarà a mio parere perseguito. 

Interviene M. D’Innocenzo 

Vorrei sottolineare che condivido molte delle cose che diceva adesso il dott. Zanello. 

Vorrei anche sottolineare il fatto che evidentemente sono stata male interpretata quando ho indotto nel collega una contrapposizione, anzi avevo colto alcune sollecitazioni che aveva fatto il medico della SIAARTI e le avevo prese come spunto per riflettere e per porci delle domande. 

Io ritengo che l’area critica abbia per definizione, nel corso degli anni, ecco perché condivido l’impostazione del discorso ed i contenuti proposti poc’anzi, rappresentato l’integrazione professionale. 

Quando si parla di area critica inevitabilmente si parla della prima area che ha iniziato ad utilizzare i protocolli integrati, che ha fatto delle scelte di integrazione professionale, le scelte interdisciplinari. 

Allora noi siamo consapevoli di questo terreno su cui vogliamo costruire ed è proprio a partire da questo che non capiamo alcune chiusure.

Io facevo riferimento ad alcune riflessioni che il suo discorso mi aveva comportato;

purtroppo lei rappresenta una parte del mondo delle professioni sanitarie e badi non è solo il problema delle professioni mediche, cioè una cultura che osteggia il cambiamento non è solo delle professioni mediche in sanità e fuori la sanità, spesso anche degli infermieri stessi.

Quindi quando io faccio questi ragionamenti, non li faccio solo nei confronti dei medici, ma anche, come dico qualche volta, il problema degli infermieri sono gli infermieri stessi, perché il cambiamento passa soprattutto attraverso di loro, cioè attraverso la consapevolezza, la condivisione, la responsabilità del cambiamento. 

Quindi, in merito a quello che esprimeva il collega prima, su come spesso nell’emergenza i ruoli rompono i paletti, gli steccati a cui faceva riferimento la collega, il problema sorge là dove si identificano poteri dietro le competenze. 

Allora voglio essere onesta in quanto l’onestà intellettuale ci aiuta tutti quanti. 

Noi qui rappresentiamo le forze sane che stanno discutendo, però noi dobbiamo fare anche i conti con quelli che non ci vogliono capire da questo punto di vista, non che non capiscono, che spesso non vogliono capire, non vogliono comprendere che si è avviato un processo. 

Allora perché quando io dicevo non sono certificati, accreditati, non lo dicevo rispetto alle cose che ci poneva lei, dicevo che il problema dell’accreditamento è uno dei terreni unificanti, ma non è il solo e ci fa mettere a nudo un po’ tutti i problemi da affrontare e risolvere, gli obiettivi da raggiungere, dopo di ciò la Legge 42/99 è una bellissima occasione per l’integrazione professionale. 

Interviene D. Rodriguez 

Vorrei partire dall’intervento di Casati la quale ci ha un po’ richiamato all’ordine e ha detto che ci sono tutte una serie di teorie, ma si deve entrare nel concreto di tutta una serie di definizioni sul concetto di diagnosi e terapia.

Vorrei fare un discorso estremo, sapendo che è un discorso estremo, ma sapendo anche che è molto difficile dimostrare che questo è un discorso estremo. 

Da nessuna parte c’è scritto che solo il medico può fare diagnosi e solo il medico può fare terapia. 

Questo è un dato di fatto oggettivo e qui cito a memoria ( potrei avere delle incertezze) relativamente per esempio ad alcune professioni sanitarie, se non sbaglio proprio relativamente agli ortottisti si fa riferimento esplicito al fatto che possano, anzi debbano fare diagnosi relativamente a tutta una serie di patologie di loro competenza nel senso della riabilitazione che compete loro. 

Allora questo è sicuramente un punto di grosso confronto, perché, per ritornare alle domande di prima, sull’esercizio abusivo, se domani un infermiere facesse diagnosi e facesse terapia e facesse l’uno e l’altro in maniera corretta, ci dobbiamo interrogare se veramente stia facendo esercizio abusivo di professione. 

Non è una delle condizioni, se così si può definire, sta proprio nel senso di responsabilità che ciascuno deve avere e nella consapevolezza delle proprie competenze, però ancora una volta questa è teoria e quando prima parlavo di paletti intendevo dire che ci vogliono dei paletti teorici abbastanza chiari all’interno dei quali riuscirci ad orientare. 

Ma sicuramente la necessità è passare dalla teoria alla pratica e per fare questo probabilmente il cammino è veramente lungo. 

Comunque questo è un invito a confrontarsi sul significato della diagnosi, della terapia, sul significato del prendersi cura e del curare, sul significato del codice deontologico dove c’è scritto curare e prendersi cura. 

Sono tutte delle definizioni sulle quali occorre riflettere veramente fino in fondo. 

In questa sede io non me la sento di dare risposte, se non di dire provocatoriamente: non vedo perché, per definizione diagnosi e/o terapia debbano essere proibite all’infermiere oppure si debba relegare all’infermiere soltanto la diagnosi dei bisogni o tutta un’altra serie di discorsi che si possono fare. 

A questo proposito, circa il discorso dei protocolli e delle linee guida che parzialmente possono entrare nel discorso, sono un po’ perplesso e un po’ critico. 

Sono perplesso perché possono rappresentare un comodo rifugio di chi non sa assumere le proprie responsabilità, quasi che si potesse sostituire al mansionario un’altra gabbia rappresentata da linee guida, per quello dico che il processo forte e importante è che sicuramente qualunque protocollo venga condiviso a livello locale, se non addirittura elaborato e idem dicasi per le linee guida, perché qualunque accettazione acritica è possibile; siccome però vedo che forse le tendenze sono quelle di trovare delle soluzioni facili, trovare delle certezze, direi che l’importante è non tanto trovare le certezze, ma riuscire criticamente a elaborare questi strumenti, che sono poi degli strumenti di operatività indubbi. 

Interviene E. Drigo 

Vorrei puntualizzare alcune cose.

Per quanto riguarda la diagnosi e terapia è palesemente un argomento scottante. 

Probabilmente però non c’è neanche l’abitudine a parlarne in maniera precisa tra di noi, forse perché è sempre stato un argomento lasciato ai margini e si è andati avanti con consuetudini nell’operatività quotidiana. 

I medici delegavano alcune cose, gli infermieri le facevano perché erano in grado di farle e c’era un consenso in questa direzione, il dott.Zanello stesso ci ha fatto prima menzione di tutti quegli interventi nei quali difficilmente si riesce a definire precisamente una cosa e l’altra. 

Io prima facevo un esempio in riferimento all’infusione di dopamina quando l’infusione deve essere variata anche in tempi brevi e non c’è la presenza del medico: è chiaro che la variazione della velocità di infusione è una prescrizione terapeutica, ma è palesemente impossibile questo discorso ed è anche palesemente chiaro che la gestione di queste variazioni viene fatta dall’operatore che in quel momento segue nella sua globalità quel paziente e quindi dall’infermiere. 

Quindi c’è una competenza, non border line in questo contesto, però penso che su questo discorso vanno puntualizzate alcune cose, soprattutto per fare chiarezza rispetto al passato ed è in questo senso che sollevavo il problema di ridefinire che cosa intendiamo per diagnosi e terapia. 

Quindi abbiamo capito che c’è un grosso capitolo sul quale riflettere insieme e che forse può rappresentare uno degli elementi sul quale incominciare a fondare un confronto serio tra la professione infermieristica e la professione medica; confronto che credo non possa più essere rimandato. 

Ma so che ci sono delle esperienze che vanno avanti da molto tempo e se riconosciute, se codificate e se prese con la dovuta serenità, senza il problema di invasione di campo e paletti vari, non rappresentino un problema, in quanto questa è già storia, direi, e soprattutto in area critica questa è già storia. 

Si tratta semplicemente, a mio avviso, di definire linguaggi e di puntare sugli obiettivi. 

L’altro elemento importante sul quale dovrebbe svilupparsi il confronto è all’interno della professione infermieristica. 

Se vi ricordate l’intervento della Dalponte in merito a quell’indagine che stanno facendo a Trento, sul monitoraggio degli interventi all’interno delle unità operative dove si evidenzia che per l’80% sono gestiti da infermieri, vorrei che si sviluppasse una riflessione e un confronto su quegli aspetti a cui il profilo ci richiama.  

Prima citavo alcuni passi del profilo, dove alcuni elementi ci obbligano a partecipare all’identificazione dei bisogni di salute della collettività. 

Io credo che questo sia un compito di una dimensione incredibile, se poi parliamo di pianificare, gestire e valutare l’intervento assistenziale infermieristico. 

Pensiamo a cosa voglia significare pianificare nel pieno senso di questo termine : significa necessariamente mettere insieme tutte le risorse del sistema, mettere insieme le altre competenze, le altre professionalità che all’interno della pianificazione dell’assistenza necessariamente entrano. 

Che cosa vuol dire questo se non mettere insieme le competenze, mettere insieme i piani, i progetti, vederne la fattibilità? 

E’ questo che io credo sia un ambito nel quale veramente la professione infermieristica per quanto ci riguarda, e la professione medica per quanto riguarda le loro competenze, deve espandersi all’interno di questa nuova filosofia, che finalmente è entrata con una razionalità e una ragionevolezza nel sistema sanitario nazionale, che punta agli obiettivi da raggiungere, ai risultati di qualità di salute nei confronti dei cittadini. 

Se volete sono degli obiettivi alti da raggiungere, credo che siano di un importanza, di un impegno immane, e questo al di la della diagnosi e terapia che sinceramente penso sia una banalità rispetto al fatto di riuscire a raggiungere tali obiettivi. 

Proviamo a pensare cosa vuol dire pianificare l’assistenza infermieristica nei confronti delle altre professioni. 

Quando prima parlavo di medicocentrismo del sistema sanitario, non era per fare polemica con i medici, con il dott.Zanello o con la SIAARTI, ma è la cultura italiana da duemila anni che ha costruito questo sistema, è responsabilità di tutti, anche nostra. 

Quindi non diamo la colpa solo ai medici, ma ognuno si prenda le proprie responsabilità. 

Ormai siamo obbligati a capovolgere questa visione del sistema sanitario medicocentrista, però cosa implica pianificare l’assistenza infermieristica nei confronti di altre professioni come ad esempio la professione medica? 

Quale grossa trasformazione deve fare la mentalità del medico rispetto a questo, ad esempio pensiamo al loro corso di laurea che non prevede l’organizzazione e adesso si ritrovano tutti dirigenti, non si può certo dare la colpa al singolo medico, ma le cose stanno così. 

Questo però è il contesto nel quale ci troviamo, la grossa fatica che dobbiamo fare, ciascuno per la propria parte, probabilmente i medici faranno ancora più fatica di noi a cambiare. 

Ma la grossa fatica che dobbiamo fare è andare dall’altra parte, assumere un'altra mentalità, perché la storia di oggi lo richiede. 

Questa credo è la grossa sfida che dobbiamo affrontare con estrema urgenza tutti insieme. 

Sicuramente ci sono dei problemi di capacità di dialogo, di discussione, ma credo che se noi andiamo alla radice del problema abbiamo moltissimi motivi per lavorare bene insieme. 

Tra l’altro se noi guardiamo le nostre unità operative, c’e il riscontro diretto della condivisione degli obiettivi e di risultati che ciascuno ha. 

Allora se questa è la realtà, penso che il momento del dialogo e della risoluzione dei problemi sia arrivato, affrontando ad uno ad uno i vari problemi, anche sulla diagnosi e terapia, senza aver paura l’uno dell’altro, tenendo sempre presente quello che è l’obiettivo finale. 

Interviene  

Nome e Cognome Fabio Merelli 

Professione Infermiere 

Provenienza Rianimazione Adulti S.Orsola-Malpighi Bologna   

Volevo chiedere al Dott.Zanello in quanto membro autorevole della SIAARTI, quale è la posizione ufficiale della SIAARTI riguardo alla laurea in Scienze Infermieristiche e anche la sua opinione sull’aggiornamento relativo alla legislazione sanitaria che da parte loro vedo molto scarso, sembra quasi che tutte questi nuovi interventi legislativi non li abbia proprio toccati o perlomeno questo è quanto traspare dal loro ambiente. 

Interviene M. Zanello 

La SIAARTI è una associazione scientifica e naturalmente si mette a disposizione  delle istituzioni e cerca di collaborare e dare informazioni, dà suggerimenti anche al potere politico, che poi venga ascoltato o meno non dipende certo da noi. 

L’atteggiamento della SIAARTI è quello di grande interesse riguardo allo sviluppo della professione infermieristica sia nell’ambito delle sale operatorie che del mondo critico. 

Questo, diciamo, è un atteggiamento strategico; non ha avuto tutto questo una sua espressione pratica perché in mezzo ci sono altre cose, c’è il ministero della pubblica istruzione che oggi si chiama della Ricerca per la parte universitaria, ci sono sindacati per pilotare altre decisioni e quindi come organo scientifico ha sempre visto soprattutto in ambito anestesiologico e di sala operatoria con grande attenzione una figura che abbia competenze specifiche in questo ambito. 

Però, ripeto, è un organismo scientifico che si confronta essenzialmente con altre società scientifiche in merito a problemi concernenti il proprio ambito professionale. 

Sull’altro quesito posso rispondere da cittadino, che noi non si sappia molto bene le leggi penso sia un problema molto diffuso. 

Dispiace che nell’ambito specifico ci sia poca attenzione, poco interesse; però questo è un problema dei media, della vostra società scientifica, non credo che debba essere visto così, come cattiva volontà sull’informarsi o un atteggiamento antistorico, credo che bisogna facilitare questo processo di apprendimento, di conoscenza, di spazi e di integrazioni. 

Senza voler rovinare tutto mi permettevo di rientrare sull’esempio che ha fatto prima Drigo, in merito alla velocità di infusione della dopamina. 

Punto primo si faccia in modo che il medico sia presente in reparto in quanto è pagato per farlo. 

Punto secondo sarà quel che sarà e credo che tutti dobbiamo essere molto sereni e aperti a questo, 

mi piacerebbe configurare una potente professione infermieristica con una potente professione medica numericamente e fortemente sbilanciati, ma questo vuol dire arrivare a fare chiudere delle facoltà di medicina, fare produrre pochi medici che sappiano il doppio di quello che so io, perché hanno avuto dei processi di formazione loro più orientati e mirati, perché la professione infermieristica ha tolto con un equivalenza di capacità e di conoscenze, una grossa fetta di quello che doveva essere le conoscenze del medico.  

Questo mi piace molto come atteggiamento, però direi, in attesa che questo possa avvenire, ritornando a quell’esempio, che il medico stia lì con voi perché collabora con voi e che caso mai voi diate a lui gli elementi di una diagnosi orientata. 

Ecco credo che questi possono essere i primi passi per condividere, per rispettarsi, per affidarsi e quindi cedere e conquistare spazi. 

Richiesta di chiarimento 

Nome e Cognome Sonia Gualtieri 

Professione  

Provenienza Dipartimento di Emergenza di Reggio Emilia 

Una domanda rivolta al prof. Rodriguez. 

Ci troviamo in un intervento di emergenza, in questo caso in un arresto cardio respiratorio 

C’e la presenza di un medico, di un infermiere, di un equipe in grado di attuare manovre di supporto vitale avanzato ed in questo caso viene considerato il leader dell’equipe il medico con l’integrazione di tutte le componenti. 

Durante questo intervento emergono delle criticità di una certa gravità. 

L’infermiere con esperienza di rianimazione, corsi di BLS e ACLS, quindi con competenze certificate si rende conto che il medico non è in grado di mantenere la pervietà delle vie aeree e di ossigenare il paziente. 

Ha difficoltà ad intubarlo, non è in grado di evitargli l’abingestis etc. 

A questo punto l’infermiere che si assume la responsabilità di dire al medico, “ provo io “, in che condizioni si mette, oppure cosa dobbiamo fare? 

Risponde D. Rodriguez   

Il quesito sembra più attenere la responsabilità nell’equipe piuttosto che le responsabilità dei singoli e posso avere dei miei pensieri personali, però ci sono state anche delle sentenze e quindi cerco di rispondere sfruttando quest’ultima via.

All’interno di un equipe ciascuno ha la sua responsabilità, e già questo è un discorso grosso e per adesso facciamo finta che non ci siano problemi in questo, e arriviamo al caso concreto. 

La responsabilità del singolo sopravanza quella degli altri e ne sentenzia esattamente in due casi, che sono quelli in cui o il capo equipe ha la responsabilità anche su quello che fanno gli altri sia in funzione della organizzazione previa, sia in funzione del coordinamento durante l’attività, oppure l’altro che in sentenze è saltato fuori, quando un membro dell’equipe si renda conto che un altro membro dell’equipe sta facendo qualcosa che non va, allora automaticamente subentra la sua responsabilità. 

Allora di primo acchito risponderei: l’infermiere che si rende conto che il medico per un qualche motivo non sta realizzando l’obiettivo principale deve intervenire, poi i modi , i tempi, lo stile, i rapporti interpersonali è un altro grosso discorso, ma diciamo che comunque si deve non tirare indietro. 

Questo come obiettivo generale di tutela della salute del paziente. 

Il problema è, di fronte ad un eventuale resistenza del medico, l’infermiere “ ha la facoltà dì “ oppure “ ha il dovere dì ”, questo è il problema, al quale io rispondo con un mio preciso convincimento, che discende da una mia interpretazione sul fatto che le competenze si acquistano sul campo, sul fatto che credo al curare e prendersi cura, però se qualcuno mi dovesse dire, guarda che l’assistenza infermieristica è qualcosa di diverso allora io mi arrendo e mi tiro indietro. 

E’ quello che volevo dire prima, la definizione di assistenza infermieristica è tipicamente la vostra professione. 

Se voi nell’elaborazione culturale dite che l’assistenza infermieristica corrisponde anche ad un curare, prendersi cura in alcune situazioni come quella descritta, dico sì, sono perfettamente d’accordo che “ l’infermiere deve ”. 

Allora cercando di sintetizzare, ma sempre in linea con quello che ho detto prima, nell’incertezza del fatto che l’infermiere non possa né fare diagnosi e né terapia, dico che quell’infermiere non solo poteva, ma doveva.

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