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Congresso Nazionale Aniarti 1999

ACCREDITAMENTO E CERTIFICAZIONE IN AREA CRITICA.

Bologna (BO), 10 Novembre - November 1999 / 12 Novembre - November 1999

» Indice degli atti del programma

Descrivere processi di assistenza in area critica basati sulla logica dell’evidenza scientifica infermieristica. Quale elemento fondante per i loro accreditamento.  

11 Novembre - November 1999: 09:00 / 12:00

LE LINEE GUIDA DELLE MANOVRE RIANIMATORIE DI BASE 

Storia, Sviluppi E Prospettive Nell’evidenza Scientifica 

Reno Dinoi   

IP Pronto Soccorso – Ospedale Civile di Manduria - TA 

 Linee Guida – Definizione

  

Le Linee Guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico, allo scopo di assistere medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche.(1)

Obiettivo del lavoro 

Lo scopo della ricerca è di descrivere analiticamente le tecniche rianimatorie di base attraverso un percorso sull’evoluzione storica e descrittiva mediante l’analisi della letteratura internazionale antica e moderna.    

Esposizione del lavoro 

L’esposizione sarà suddivisa in tre parti:

1. Analisi storica

2. Situazione attuale

3. Possibili sviluppi futuri

Prima parte - Analisi storica 

La rianimazione, intendendo per essa il riportare in vita, un essere non più vivente, è vista come un evento misterioso e di natura soprannaturale. La stessa resuscitazione di Cristo ha sempre evocato sensazioni d’incredulità miste a paura. Negli anni, questa concezione così miracolistica e fatalista della rianimazione, è stata la responsabile di contrastanti e confuse ideologie più che altro basate sul credo ideologico di ognuno. I più scettici hanno caparbiamente ritenuto impossibile quest’evenienza, al contrario dei più possibilisti i quali però hanno descritto tale “prodigio” come una prerogativa del Divino. I due pensieri, negando entrambi la possibilità di uno sbocco scientifico all’atto rianimatorio, ne hanno, di fatto, ostacolato l’uso e quindi la sperimentazione scientifica della materia.La prima descrizione di una manovra salvavita risale a 6 – 7 mila anni addietro quando il profeta Eliseo, pronipote di Noè, salvò un bambino asfittico dopo avergli praticato una respirazione bocca a bocca. L’episodio, descritto nella Bibbia, precede un’altra vicenda narrata questa volta dalla storia mitologica egiziana. Secondo questa legenda, la Dea della salute Iside, tentò di rianimare suo marito Osiride praticandogli la respirazione bocca a bocca.   Da allora, e sino a tutto il medio evo, i tentativi per rianimare, così come tutte le altre tecniche guaritorie in genere, hanno subìto l’influsso della superstizione popolare o delle credenze religiose. Molta importanza era attribuita, allora, a formule e rituali magici o al potere prodigioso riconosciuto ad amuleti o sostanze naturali come le erbe, il fuoco, il fumo di tabacco e così via. Una testimonianza di questo miscuglio di metodi lo troviamo in un antico documento del 1767 della Dutch Humane Society, la società scientifica olandese, che così descriveva il protocollo sulla rianimazione negli annegati: “…Mantenere calda la vittima, rimuovere l’acqua aspirata o ingoiata, fare la respirazione bocca a bocca, eseguire l’insufflazione di fumo di tabacco caldo nel retto…”.  Sino a tutta la metà del 1800, le conoscenze scientifiche sulle manovre rianimatorie erano pressoché nulle. Soltanto a partire dal 1850, con l’avvento della cloroformizzazione o eterizzazione dei malati chirurgici, nacquero dalle sale operatorie le prime indicazioni sulle manovre di rianimazione. L’impulso alla ricerca si ebbe per fronteggiare i frequenti incidenti asfittici a cui andavano incontro gli operati. Gli incidenti asfittici, molto frequenti nelle sale operatorie di fine 1800, impegnarono non poco gli addetti alla cloroformizzazione. Costoro ricoprivano un ruolo marginale nell’équipe chirurgica. Essi versavano su un panno posto sul volto del paziente, la quantità di cloroformio o etere necessaria per farli addormentare. Di tanto in tanto, poi, sollevavano il panno per accertare la presenza d’atti respiratori. L’insufficiente ossigenazione consigliava all'operatore di interrompere l'inalazione di sostanza e di mettere in atto le tecniche di supporto ventilatorio. La prima manovra consigliata in questi casi consisteva nella sub lussazione della mandibola che all'epoca era definita come "rialzamento degli angoli della mascella". 

Trattato di Chirurgia D’urgenza

Se il respiro si rallenta > Togliere la maschera e sollevate la mascella.  

Se la faccia diventa violacea > Afferrare la lingua e portatela dolcemente in avanti. 

Se la respirazione cessa, il polso è piccolissimo, la faccia plumbea > Afferrare la lingua e fare senza precipitazione, metodicamente, trazioni ritmiche, 18 - 20 al minuto.  

Se l'apnea si prolunga > Praticare la respirazione artificiale. 

Se gli accidenti non cedono > iniettare una forte dose di siero (almeno 2 litri) 

“Tutti gli altri procedimenti come l'elettrificazione del frenico, il titillamento delle ripiegature epiglottiche, la tracheotomia seguita da insufflazione d’ossigeno ed anche il massaggio cardiaco, erano considerate di scarsa utilità allorquando le tecniche di trazione della lingua e della respirazione artificiale avevano dato esito negativo”.  

La trazione ritmica della lingua che è consigliata anche in alcuni manuali di medicina pratica del 1954, consisteva nell'afferrare con un’apposita pinza o con uno straccio ruvido, l'estremità mobile della lingua trazionandola ritmicamente. Questa manovra, naturalmente non più usata, si pensava servisse a stimolare i centri bulbari del respiro. In effetti, serviva a liberare il faringe dalla caduta della base linguale, così come si fa oggi con la semplice iper-estensione del capo o come si faceva allora con il sollevamento degli angoli della mascella. A partire dal 1850 e per un altro secolo ancora, gli unici rimedi rianimatori impiegati erano esclusivamente finalizzati al ripristino dell’attività respiratoria. Le tecniche più diffuse erano:  

Metodo Pacini 

Consisteva nella trazione ritmica delle spalle che il soccorritore eseguiva ponendo le mani sotto le ascelle della vittima tirando e rilasciando con una velocità di 18 - 20 movimenti al minuto.    

Metodo Schafer 

Con questo metodo si poneva la vittima in posizione prona e si comprimeva ritmicamente con le mani sul dorso.

Metodo Schultze 

Indicato essenzialmente per neonati asfittici, consisteva nel ribaltamento ritmico delle gambe sull'addome del piccolo mentre il soccorritore lo teneva per il dorso e la testa bloccata tra gli avambracci.

Metodo americano 

Anche questo per neonati asfittici, si basava sulla flessione ed estensione del tronco del bambino afferrandolo per il dorso e le natiche. 

Metodo Laborde 

Trazione ritmica della lingua  

Metodo Silvester 

Era questa la tecnica più usata. Consisteva nell'innalzamento e rilasciamento delle braccia della vittima alternatamente alla pressione del torace. 

Dai primi del 900, periodo in cui s’iniziò a considerare seriamente la ricerca scientifica in campo rianimatorio, un inspiegabile paradosso storico impedì per mezzo secolo ancora, l’introduzione del sostegno cardiocircolatorio. L’unico aspetto che riguardava le varie tecniche rianimatorie era, infatti, quello respiratorio. La cessazione brusca ed inattesa dell’attività circolatoria fu considerata per diverso tempo come una condizione irreversibile, senza speranza. Soltanto nel 1940, il fisiologo americano C. S. Beck introdusse per primo il concetto di “cuori troppo buoni per morire” che contribuì ad aprire le strade alle prime ricerche in questa direzione. Per la verità molto tempo prima, esattamente nel 1882 e più tardi nel 1901, il medico tedesco Schiff e il norvegese K. Igelsvend, fecero degli esperimenti su animali ed anche su esseri umani sulle procedure di rianimazione cardiopolmonare a torace aperto. Nonostante i successi ottenuti da tali esperienze, quest’aspetto della ripresa circolatoria fu trascurato ancora per diverso tempo. Con l’avvento delle grandi guerre, la ricerca e il progresso scientifico sui metodi per ripristinare le funzionalità vitali compromesse, ebbero un positivo impulso. La medicina si trovò a dover affrontare nuove cause di morte impreviste: i traumi. Le guerre, così come gli incidenti infortunistici dell’evoluta produzione industriale, aprirono delle nuove frontiere alla ricerca medica, quella dell’emergenza e della traumatologia. Si presentò allora una nuova causa di morte non ancora contemplata: l’insufficienza circolatoria. I primi ad effettuare ricerche sperimentali sullo shock traumatico ed emorragico furono i russi che durante l’assedio nazista di Mosca del 1941, provarono con successo ad applicare un nuovo metodo di rianimazione su soldati considerati clinicamente morti. Lo studioso Negosvski e la sua équipe, introdussero la pratica del massaggio cardiaco esterno e dell’infusione venosa di liquidi. Questa tecnica però non fu subito accettata dall’occidente. Nel 1947 il chirurgo statunitense Beck, effettuò la prima defibrillazione su un cuore umano a torace aperto. Nonostante le numerose ed apprezzabili scoperte dei ricercatori, nessuno seppe riconoscere l’importanza dell’unificare ed integrare le conoscenze sino allora acquisite in un unico sistema di rianimazione. Si era arrivati alla seconda metà del XIX secolo e le linee guida non esistevano ancora. Fu soltanto nei primi anni 50 che s’iniziò ad unificare le sperimentazioni della RCP dando il via a quelle che non molto tempo dopo diventeranno le “linee guida” della RCP. Il primo a riconoscere l’importanza di dover riunire tutto il patrimonio di conoscenze sperimentali in un unico modello procedurale, fu lo studioso di origini viennese Peter Safar. Fu lui che nel tardo 1950 sintetizzò le procedure rianimatorie di base con l’utilizzo delle lettere dell’alfabeto A=Airway e B=Breating come metodo didattico nell’insegnamento del Basic Life Support (BLS). Circa dieci anni dopo si aggiunse anche la lettera C=Circulation.

Parte seconda – La situazione moderna 

Le prime linee guida degli anni ’50 comprendevano soltanto la rianimazione respiratoria attraverso le vecchie tecniche di Silvester. Fu il dottor Elam a provare per primo che, introducendo con un tubo dell’aria direttamente nella bocca dei pazienti anestetizzati, questi erano in grado di mantenere una buona ossigenazione e per lunghi periodi. Stimolato da questi risultati, Safar cominciò a studiare la tecnica della respirazione bocca bocca abbandonando le altre tecniche ventilatorie prima utilizzate. Utilizzando questa nuova tecnica, gli studiosi si resero conto anche che, mantenendo una posizione neutra della testa dei pazienti in narcosi, il flusso dell’aria insufflata era rallentato dalla base della lingua che, non avendo più la tonicità necessaria a reggersi sollevata, cadeva all’indietro ostruendo così il canale respiratorio. Non potendo con la tecnica bocca bocca mantenere sollevata la mandibola, si provò, grazie all’uso di radiogrammi, che portando la testa all’indietro la base della lingua si ritraeva permettendo un maggiore afflusso di aria. Si accettò così la tecnica della iperestensione della testa. Nel 1957 fu sempre Peter Safar, assieme al professore di elettro ingegneria tedesco Kouwenhoven, a studiare la Fibrillazione Ventricolare, chiedendosi il bisogno di trovare un rimedio per produrre una circolazione artificiale. Un anno dopo, quasi per caso, un altro studioso, l’ingegnere Knickerbocker, mentre premeva ripetutamente con gli elettrodi sul torace di un paziente a cui praticava una defibrillazione elettrica, notò un sensibile aumento della pressione arteriosa prodotta dalle compressioni degli elettrodi sulla gabbia toracica. L’importanza di questa scoperta fu subito capita dallo stesso Knickerbocker che cominciò a documentare elettronicamente sui cani l’aumento pressorio durante la compressione sullo sterno. La sperimentazione fu prodotta con successo anche su esseri umani. Fu così che, riconoscendo anche i vecchi studi dei sovietici di quasi vent’anni prima, nacque il massaggio cardiaco esterno e fu introdotta la terza lettera dell’alfabeto, C, nelle linee guida del BLS. Nel 1965 il Comitato per la rianimazione cardiopolmonare, promosso dalla Word Federation of Societies of Anesthesiologists, commissionò a Peter Safar un manuale sulla RCP. L’opuscolo fu stampato in 15 lingue e diffuso in tutto il mondo con un contributo della Asmund Laerdal Company. Da allora e sino a tutti gli anni ’80, si è assistito a continue modifiche delle manovre del BLS. Le due più grosse società scientifiche che si sono conteso – e si contendono tuttora - il sapere in materia di RCP, sono l’American Heart Association e l’European Resuscitation Council.  Sin dall’inizio degli anni 80, questi due blocchi - Europeo ed Americano - si sono trovati spesso in disaccordo su alcuni passaggi, del BLS. Le differenze, molto marginali, non riguardavano né la sequenza né il principio dell’ABC della rianimazione. Il rapporto tra le compressioni e le ventilazioni (5:1 a due soccorritori e 15:2 ad un solo soccorritore) è stato sempre riconosciuto valido da entrambi. Anche le priorità di intervento erano le stesse (coscienza>respiro>circolo). Le uniche discordanze riguardavano i tempi necessari alle valutazioni del respiro e del polso. Gli Europei indicavano 5 secondi come tempo necessario alle valutazioni, mentre il blocco statunitense ne consigliava 10 ( Queste lievi differenze saranno in seguito appianate da un diplomatico compromesso che vedremo più avanti). I risultati osservati dalle numerose ricerche che man mano erano pubblicate in questo periodo, variano tra esse dando spesso delle conclusioni contrastanti. Le cause di queste divergenze andrebbero ricercate nella non uniformità dei metodi utilizzati per le ricerche, ma anche nelle numerose variabili che l’arresto cardio respiratorio presenta. Nel 1990, si riunirono per la prima volta in Norvegia gli organismi scientifici di diverse Nazionalità con l’obiettivo di unificare le varie procedure. In questo primo grande Council cui presero parte l’American Heart Association, l’European Resuscitatio Council, la Heart and stoke Foundation of Canada e l’Australian Resuscitation Council, si identificarono per prima cosa le più importanti variabili che influiscono nei risultati della RCP, senza la definizione delle quali sarebbe stato impossibile paragonare in maniera significativa studi diversi effettuati in contesti altrettanto differenti. Si disse allora che ogni situazione ha dei differenti gradi di complessità in relazione a tre variabili che furono così classificate:

1. Variabile per Ospedale (organizzazione interna, professionalità, tecnologia); 

2.Variabili per paziente (età, razza, vissuto patologico); 

3.Variabili per tipo di evento (causa dell’ACR, qualità dei soccorsi, stime sulla gravità ecc. Sempre nella conferenza del 1990 furono tracciate le prime linee guida per la classificazione delle fasce d’età che furono:

Neonato = da zero anni a dodici mesi; 

Bambino = da un anno a < 20 anni; 

Adulto = da 20 anni in su. 

Quello del ’90 fu il primo vero Council ispiratore di nuove ricerche in campo rianimatorio. Purtroppo, però, ogni organismo scientifico, ogni gruppo ma anche ogni unità operativa, se non addirittura ogni singolo soggetto, hanno poi di fatto adottato tecniche rianimatorie secondo sperimentazioni le cui interpretazioni dei risultati erano spesso di tipo personale e prive quindi della necessaria scientificità. Si notò pertanto un nuovo grande vuoto nei metodi sperimentali che contribuiva ad alimentare le già numerose interpretazioni soggettive. Furono ancora le Comunità Scientifiche della Conferenza del 1990 in Norvegia, a cui si aggiunse l’altro grande gruppo sud Africano del Resuscitation Councils of Southern Africa, che nel 1995 si ritrovarono con l’intento di trovare dei metodi di ricerca standardizzabili.  Fu così che furono redatte delle linee guida sulle variabili che influiscono sui risultati delle tecniche rianimatorie. Una commissione apposita individuò i quattro interventi critici da includere in tutti i rapporti di ricerca della RCP di base, quali elementi indispensabili per stabilire dei termini di paragone sui risultati.  I quattro parametri furono così identificati:

1. ACR che richiede BLS; 

2. ACR che richiede defibrillazione; 

3. ACR che richiede manovre avanzate per la pervietà delle vie aeree; 

4. ACR che richiede un trattamento farmacologico. 

Grazie a questa nuova classificazione degli eventi, i ricercatori potettero unificare i risultati di ricerca con dei paragoni più univoci. Nonostante questo, però, le linee guida prodotte da queste ricerche non ebbero il tanto sperato attecchimento. La metà degli anni ’90 sono stati quelli con il maggior numero di iniziative didattiche in tutto il mondo (Europa in particolare che nel frattempo era rimasta indietro nei confronti della più avanzata America), tendenti allo sviluppo della cosiddetta “educazione di massa alla rianimazione”. Purtroppo, in ogni Organismo, Associazione o Gruppo delle diverse Nazionalità crebbero forti resistenze corporativistiche responsabili di confusione e scarsa coerenza su quanto era suggerito nella didattica. I sostenitori delle linee guida “uniche ed adatte in tutto il mondo”, si dovettero allora ricredere e nel 1997 fu organizzato un nuovo grande Council, denominato ILCOR (International Liaison Committee on Resuscitation), dal quale nacquero i famosi “Statements”, vale a dire degli estratti contenenti i principi di base della RCP. La novità di quest’ultima assemblea è stata quella di bandire le linee guida da applicare rigidamente in tutto il mondo, ma di stabilire delle tracce (Statements) sulle quali ogni comunità dovrà impiantare delle proprie regole secondo il proprio contesto socio economico e culturale. Le antiche divergenze, ad esempio, sui tempi necessari alle valutazioni (5 o 10 secondi?) sono state risolte con una risoluzione un po Salomonica ma sicuramente più valida. Pur fissando i 10 secondi consigliati dagli americani, si è aggiunto la variante soggettiva (che ha convinto gli europei) del “per non più di 10 secondi”. Questi nuovi concetti delle “variabili” da applicare in maniera soggettiva e coerente con le conoscenze e le usanze del posto in cui le manovre sono applicate, sarà il principio ispiratore di tutti i protocolli ILCOR. Il tracciato rimasto immodificato è quello dell’ABC della RCP secondo l’antica teoria di Peter Safar & C.

Parte terza – Le prospettive future 

Questo nuovo metodo di personalizzare i comportamenti ritenuti nella RCP modificabili, senza per questo stravolgere i punti cardine delle manovre stesse, ha fatto da stimolo a nuove ricerche alcune delle quali abbastanza importanti. I temi attualmente in discussione, per i quali occorrerà una maggiore sperimentazione, riguardano i seguenti aspetti: 

1. La RCP nelle donne in gravidanza avanzata. Quale tecnica utilizzare per il MCE nelle donne incinta il cui peso dell’utero comprime la vena cava addominale impedendo il ritorno di sangue e il conseguente riempimento del cuore? 

2. La quantità d’aria necessaria nella ventilazione artificiale. Quant’è quella necessaria per un organismo in ACC e quindi con un ridotto consumo di ossigeno e una bassa produzione di anidride carbonica? 

3. La necessaria aderenza nella tecnica bocca a bocca nei bambini e lattanti. Dal momento che il passaggio dell’aria nei lattanti avviene attraverso le narici, è possibile praticare la tecnica bocca/bocca naso senza preoccuparsi di mantenere la bocca del bambino da rianimare aperta? 

4. Nella rianimazione post traumatica, è giusto, eticamente e socialmente, il concetto della “rianimazione a tutti i costi ai fini del trapianto d’organi”? 

5. L’attendibilità della sequenza ABC con la possibile inversione in CAB. Nell’arresto cardiaco documentato, è ancora giusto iniziare dapprima a ventilare o non sarebbe piuttosto più opportuno iniziare immediatamente a massaggiare? 

6. Le ricerche sinora effettuate intorno a queste problematiche sono ancora molto scarse e necessitano in futuro di un più attento approfondimento.    

Bibliografia 

Raccomandazioni per la partecipazione delle Società Medico - Scientifiche alla produzione, disseminazione e valutazione di linee-guida di comportamento pratico. 

Qa, organo ufficiale della società italiana per la qualità dell’assistenza sanitaria (VRQ),1996; 

Volume 7, numero 2:77-95 

Centro Scientifico Editore 1996

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