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Congresso Nazionale Aniarti 2000

Funzioni e rsponsabilita' infermieristiche

Genova (GE), 15 Novembre - November 2000 / 17 Novembre - November 2000

» Indice degli atti del programma

Evidence based nursing Daria Da Col Stefano Sebastiani De Paoli Graziella Alessandra Magotti

16 Novembre - November 2000: 09:00 / 12:00

Il dolore nella quotidianità assistenziale
 
IID Daria Da Col
Scuola Italiana di Medicina e Cure Palliative (SIMPA), Milano
 
 
Chi prende i colpi ha un'esperienza diversa da chi li conta.
Proverbio arabo
 
Introduzione 
Nell’assistenza quotidiana sono ancora molti i malati che vivono la tragedia del dolore evitabile e non voluto, non riconosciuto e non trattato. Non riconosciuto, perché a questa esperienza tsi collega l’umiliazione della sofferenza: il malato subisce gli effetti del dolore sul corpo, sul sé, sulla vita personale, e talora anche gli sguardi indagatori di chi, da osservatore esterno, giudica irreali o esagerate le manifestazioni di sofferenza. Non trattato, perché  farmaci analgesici sono in grado di controllare il dolore (1),  eppure , molte persone continuano a sperimentarlo inutilmente, anche in ospedale, dove gran parte dei ricoverati riferisce di avere dolore non controllato. Gli studi di prevalenza effettuati negli Stati Uniti (2-4), in Canada (5), in Inghilterra (6)  e in Olanda (7) , indicano che la percentuale di malati con dolore durante il ricovero varia dal 45% al 79%. Questi risultati sono confermati in Italia da una ricerca trasversale realizzata negli ospedali della Liguria (8): al momento della rilevazione il 40% dei malati aveva dolore, 56.6% nelle ultime ventiquattro ore, e di questi il 61% e il 29% rispettivamente avevano un'intensità massima e un'intensità media superiore a cinque su una scala da zero a dieci. Questi dati sono preoccupanti, se assumiamo il controllo del dolore come un indicatore di qualità delle cure. I numerosi studi sulle ragioni dello scarso trattamento del dolore (9-11) , permettono di individuare tre gruppi di cause che coesistono nei diversi paesi e nei diversi gruppi professionali. Vi sono le cause ideologiche, connesse alla cultura di sopportazione della sofferenza; quelle istituzionali, legate alla scarsa integrazione delle prestazioni sanitarie e alla severa legislazione che ostacola l'uso terapeutico della morfina a domicilio; e quelle connesse alla formazione dei professionisti, carente e fonte di opinioni sbagliate sul dolore e sul suo trattamento.
Gli aspetti cruciali su cui la letteratura ha posto l'attenzione sono da un lato la tendenza degli operatori a sottostimare e sottotrattare il dolore, dall'altro i timori infondati e i pregiudizi comuni per i quali il cittadino rinuncia ad esprimere il proprio dolore, ad accettare di trattarlo prima che insorga, a seguire gli schemi terapeutici efficaci.
Il dolore e la sua valutazione: la parola al malato
La letteratura infermieristica non fa eccezione rispetto ai numerosi studi che documentano una discordanza tra l'intensità del dolore riferita dal malato e quella stimata dai curanti (12-14). In particolare è poco applicata la raccomandazione di domandare sempre al malato, e di accettare la sua valutazione. I fattori che sembrano influenzare la richiesta e l'accettazione del parere del malato sono l'età, i segni vitali e  il comportamento doloroso: i neonati, i bambini piccoli e le persone con disturbi intellettivi sono particolarmente a rischio di non essere interpellati, valutati e capiti nel loro dolore; al malato è richiesta (e viene accettata) la sua valutazione del dolore soprattutto se la mimica del volto è accentuata, se sono presenti i segni di iperattività del sistema nervoso periferico e se il comportamento doloroso è quello culturalmente atteso (15).
La cultura prescrive al malato come deve percepire, esprimere, comunica il dolore e come deve comportarsi nella sofferenza. La cultura stabilisce anche come la medicina deve valutare e curare il dolore. Il sistema sanitario è un sottosistema culturale che motiva le proprie decisioni cliniche con due assunti fondamentali: uno tecnico scientifico, l’altro morale.
L’assunto tecnico scientifico sul modo di interpretare il dolore crea l’aspettativa del professionista, ma anche quella del malato, e l’interazione delle due può portare sia alla collaborazione sia all’incomprensione. Quando il dolore ha una causa organica, l’infermiere tende ad accettarne la descrizione se è nei termini che si aspetta per quella lesione, e a rifiutarla se non è non coerente con la sua visione scientifica. Quando invece la causa del dolore è psicogena, l’infermiere accetta una descrizione che non corrisponde a una lesione, ma è il malato che respinge una valutazione non spiegabile in termini organici.
L’assunto morale si basa sul fatto che i problemi psicologici sono meno rispettabili di quelli fisici. Il dolore psicogeno non è unanimemente accettato dalla comunità scientifica e il malato stesso ricerca una spiegazione organica del suo dolore, rifiutando un poco rispettabile riferimento ai toni dell’umore e alla psiche. Il dolore psicogeno è difficilmente distinguibile da quello causato da danno tessutale se si considera il racconto soggettivo, ma se le persone considerano la loro esperienza come dolore e la riportano nello stesso modo del dolore causato da danno tessutale, si dovrebbe accettarla come dolore
L’incomprensione tra infermiere e malato si risolve in un solo modo: l'esperienza del malato, comunque descritta, deve essere considerata come dolore. E’ questa la posizione espressa  nella definizione dell'Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (iasp) (16) : ”Il dolore è una esperienza sensoriale ed emozionale, associata ad un danno tessutale reale o potenziale, o descritta in termini di tale danno”. Il dolore è tutto ciò che il malato afferma che sia (17);  reale o immaginario, e per quanto insignificante possa sembrare all’osservatore esterno, il malato non ha dubbi sulla sua esistenza e importanza (18).   
Prima di riconoscere che un dolore viene lamentato in buona fede, siamo invece portati a  controllare il valore dell’evidenza organica o funzionale (19). In assenza di elementi obiettivi ci poniamo il dubbio se il malato stia simulando, se il dolore sia psicogeno.  Inoltre il dolore può precedere di molto l’evidenza di segni clinici e strumentali che dimostrino obiettivamente una lesione: succede spesso nei tumori. Sprechiamo molta energia per capire se il dolore è reale eppure i malati che dicono di avere dolore quando non lo hanno sono una piccolissima minoranza. Possiamo scegliere tra il sospettare tutti i malati, e sbagliare in moltissimi casi, o credere a tutti ed essere in errore in pochissimi.
Ad uno stimolo doloroso si associa costantemente una componente emotiva, ed è attraverso questo filtro che il dolore diventa sofferenza. Di tale sofferenza qualcosa traspare sempre nell'atteggiamento dell'individuo, anche se incosciente, e questa espressione, l’atteggiamento doloroso, è tutto quanto possiamo percepire della sofferenza. Da osservatori esterni ed estranei possiamo quantificare solo l'inizio e la fine di questo processo: l'entità dello stimolo doloroso e l'atteggiamento doloroso (20). Per quanti sforzi si possano fare, l’esperienza del dolore altrui non può essere compresa se non se non in maniera remota.
 
Misurazioni soggettive a dimensione singola: l’intensità del dolore
La misura del dolore non è data da quanto gli altri pensano che la persona soffra, ma da quanto il malato dice di soffrire. A questo criterio devono uniformarsi la valutazione e il trattamento. L’autovalutazione del malato è il singolo indicatore più attendibile di intensità del dolore (21,22) e non può essere sostituita dall’osservazione dei comportamenti e dalla rilevazione dei segni vitali. I lamenti, le smorfie, i gesti come quello di tirare una sonda o allontanare da sé una mano che tocca, i segni di iperattività del sistema nervoso periferico nel dolore acuto e le variazioni nel sonno o d'alimentazione nel dolore cronico, il pianto nel bambino e i cambiamenti nella continenza dell'anziano, suggeriscono la presenza di dolore, si possono analizzare e quantificare, ma non danno indicazioni certe sull'intensità del dolore (23) .
E' quasi sempre possibile avere un'autodescrizione che integra l'osservazione del comportamento, anche se l’autodescrizione verbale è preclusa, se la coordinazione visiva e motoria è compromessa o non ancora sviluppata, se le capacità intellettive e percettive sono ridotte. Un mezzo semplicissimo di ampio e sicuro utilizzo per indicare l'intensità del dolore è la scala analogica visiva: una linea lunga dieci centimetri una un'estremità della quale indica l'assenza di dolore e l'altra il peggiore dolore immaginabile (24). Ha delle varianti adatte per i bambini (25), quella con una serie di espressioni facciali che vanno dal viso sorridente al pianto,  e per le persone con difficoltà cognitive (scala dei grigi). La presenza di una di queste scale nella documentazione clinica è considerato un fattore fondamentale di qualità dell’assistenza dei malati con dolore (26).   
 
Misure soggettive multidimensionali
Comprendono il diario del dolore, cioè l’esposizione personale orale o scritta con annotazione del dolore in relazione ad esperienze e comportamenti quotidiani; le mappe del dolore, che consistono in un diagramma che rappresenta una figura umana sul quale sono riportate la sede e l’irradiazione del dolore avvertito; i questionari, composti da un elenco  di parole che descrivono la dimensione affettiva, sensoriale, e cognitiva del dolore; le scale, che danno un a indicazione numerica. Ciascuna misura ha vantaggi e limiti; ad esempio il limite principale dei questionari è di essere lunghi ed utilizzare termini non conosciuti, che non rientrano nel linguaggio comune. Un mezzo  semplice ed efficace è lo schema di intervista pqrst (20), facile da ricordare perché richiama le onde dell’elettrocardiogramma (Tabella 1): cosa lo provoca (e cosa lo allevia), qualità (punge, strappa, opprime), irradiazione (dov'è e dove si irradia), severità o intensità, tempo (continuo, discontinuo, si accentua di notte) .
 
 
Tabella 1 -  Schema PQRST per valutare il dolore (da G. Frova 20)
 
 
Domanda
Provocato da
Cosa lo fa peggiorare?
Cosa lo fa migliorare?
Qualità
A cosa assomiglia?
IRradiazione
Dov’è il dolore?
Dove si sposta?
Severità
Quanto è forte?
Tempo
C’è sempre o va e viene?
 
Il dolore e il suo trattamento: le opinioni infondate
Valutare il dolore anziché giudicarlo è la premessa, ma non la garanzia, di un buon trattamento.Un esempio relativo al dolore cronico è che, nonostante siano disponibili molti strumenti di valutazione ampiamente validati,  il dolore da cancro viene trattato solo nel 50% dei casi nei paesi avanzati e nel 20 % nei paesi in via di sviluppo (9). Un esempio relativo al dolore acuto è che nonostante il dolore postoperatorio abbia una causa organica chiara nell’incisione dei tessuti e nella manipolazione dei visceri, una significativa parte della popolazione chirurgica non ha un trattamento efficace di questo tipo di dolore (27,28).
Nel trattamento del dolore alcune categorie di persone sono particolarmente a rischio: neonati e bambini (29 -31), anziani (13, 32) e donne (16). Le motivazioni scientifiche sottostanti e note, nonché infondate, sono che i neonati non sentono il dolore, i bambini lo dimenticano e le persone anziane lo sentono meno. Ricerche americane evidenziano un inadeguato controllo del dolore nei dipartimenti d'emergenza (33) e che i malati ricevono meno analgesici se sono neri o ispanici (34)
La revisione letteratura e la sistematica raccolta di esperienze di infermieri esperti (36) testimoniano l'esistenza di problemi nel trattamento del dolore, specie se con oppiacei (35, 18), e consentono di elencare le opinioni infondate che rappresentano un serio ostacolo ad un efficace trattamento del dolore. Ecco alcuni esempi di convinzioni erronee dei malati e dei loro familiari che hanno un corrispettivo in timori presenti negli infermieri anche se scientificamente o moralmente infondati:  “devo aspettare il più a lungo possibile prima di chiedere analgesici; è meglio fare iniezioni che prendere pillole; se ho bisogno di una dose maggiore vuol dire che sono dipendente; la morfina si usa solo in casi estremi: solo i farmaci  sono abbastanza forti per controllare il dolore”.
 
Aspettare che il dolore si manifesti
Alcuni malati rinunciano alle misure efficaci per evitare che il dolore si manifesti o accettano di curarlo solo quando non sono più in grado di sopportarlo. Questi comportamenti hanno ragioni diverse, ma tutte accettabili per il fatto che il malato ha il diritto di decidere secondo i suoi valori e ciò che giudica il suo migliore interesse. Se il malato vuole cercare di sopportare il dolore, il professionista deve rispettarne la decisione senza tentare di modificarla, anche se gli pare irrazionale, e tuttavia deve porsi il problema di comprendere le cause del comportamento del malato, per due ragioni. La prima è che è inammissibile non rispettare una persona sul cui corpo si sta per intervenire, ma per rispettarla è indispensabile fare qualcosa per conoscerla, per sapere cosa è per lei il dolore, di cosa ha paura, qual’è il benessere cui aspira.
La seconda ragione è che la scelta deve esser informata, il malato deve sapere che può chiedere analgesici in qualsiasi momento, anche prima che il dolore insorga, e che il ritardo nella terapia e il peggioramento del dolore implicano la necessità di usare dosaggi più elevati di farmaco. Ma anche un malato informato può avere dubbi, può essere combattuto perché vuole mantenere una certa immagine di sé o perché si pone interrogativi morali inquietanti(37) .
Un altro scopo dell’informazione al malato è evitare l’errore della terapia analgesica al bisogno Questo modo di somministrare i farmaci non è accettabile né nel dolore acuto né nel dolore cronico, perché porta a richiedere farmaci solo quando il dolore è insopportabile.
Il malato è teso per diverse ragioni: perché non vuole assumersi la responsabilità di sollecitare la somministrazione, perché l’intervallo tra la richiesta e la somministrazione provoca ritardo nell’analgesia, perché la sua stessa tensione aumenta il dolore (Figura 1). Per le successive somministrazioni è probabile che il malato, sperimentato il ritardo nell’analgesia, chieda il farmaco in anticipo rispetto alla comparsa del dolore o al suo peggioramento. Ed è probabile che il suo comportamento si interpretato come un segnale di sviluppo di “assuefazione”.
E’ dimostrato che, se il dosaggio è distribuito regolarmente, la quantità totale di analgesici nelle ventiquattro ore è inferiore a quella dei farmaci al bisogno, e che sono minori gli effetti collaterali dovuti alle concentrazioni plasmatiche di picco che si ottengono con la singola somministrazione (20) .
La terapia del dolore al bisogno però non si verifica solo per ignoranza scientifica: l’idea di somministrare farmaci solo quando il dolore è insostenibile implica che il dolore o la sofferenza abbiano qualche valore positivo. Ma se anche questo fosse vero, non lo è certamente se avviene per decisione del professionista. 
 
Le vie di somministrazione e l’effetto placebo
Esaminando i livelli plasmatici nel tempo di un farmaco analgesico somministrato per via parenterale e dello stesso farmaco somministrato per via orale (figura 2), si desume che in entrambi i casi, se la dose è appropriata, si supera la soglia di sollievo del dolore: gli  analgesici per via orale, a dosi equianalgesiche sono potenti come quelli somministrati per via parenterale. Il guadagno in rapidità d'azione della via parenterale si accompagna ad uno svantaggio in durata e al rischio di raggiungere la soglia degli effetti tossici, cioè di andare oltre la finestra terapeutica, rischio che con la somministrazione orale è ridotto (38)
 
  La via endovenosa è indicata per il trattamento nel dolore postoperatorio, mentre se il malato non vomita, può deglutire e non ha dolore acuto, la via orale è da preferire perché efficace, semplice, ben accettata e non causa ulteriori fastidi. Le iniezioni accrescono il disagio e nei bambini possono portare ad un rifiuto della terapia, in alcuni casi aumentano la possibilità di lesioni della cute, e obbligano l'individuo, se già non è costretto, a dipendere da altri.
La via intramuscolare può essere richiesta e proposta per varie ragioni, tra cui la suggestione o effetto placebo, che funziona anche in altri modi, per esempio: due capsule di placebo sono più efficaci di una e una capsula grande è più efficace di una piccola.
L'uso del placebo è, salvo rarissime situazioni, un non senso, un errore sul piano clinico ed etico. E' dimostrato che un terzo di tutti i malati che ricevono un placebo attiva le proprie sostanze endogene simili alla morfina, le endorfine, ed ha un sollievo dal dolore. Il meccanismo di risposta al placebo è complesso ed è sempre attivo in ogni situazione terapeutica, farmacologica e non, a prescindere dalla terapia del dolore. Non vi è dunque una giustificazione razionale dell’uso del placebo nemmeno per evidenziare la potenziale natura psicogena del dolore. I placebo dovrebbero essere usati unicamente in pochi studi farmacologici controllati, con il consenso informato del soggetto (39).  
L’effetto placebo è una risposta fisiologica che fa diminuire l’ansia, se il malato crede nel trattamento o nel professionista. Il fenomeno però tende a non durare, il malato si accorge dell'inganno, si arrabbia, e perde la fiducia nei curanti. L'uso del placebo è un errore sul piano etico e sottomette l'individuo ad un rapporto che lo rende oggetto di sospetto e inganno piuttosto che soggetto che chiede aiuto e comprensioneIl codice deontologico dell’infermiere enuncia, nel punto 4.14: l’infermiere si impegna a ricorrere all’uso di placebo solo per casi attentamente valutati (40), eppure l’uso frequente del placebo testimonia quanto il dolore sia poco rispettato. “Nulla è così facilmente sopportabile come il dolore degli altri”, diceva La Rochefoucauld. 
 
Dipendenza e tolleranza
La paura di prendere gli oppiacei e in particolare la morfina è provocata principalmente dal timore della dipendenza. L’esagerata paura dei curanti di causare dipendenza contribuisce a rallentare l’uso degli oppiacei (41,42)  tanto quanto la confusione sui termini: ”dipendenza”, “tolleranza”, “assuefazione” possono essere sinonimi nel linguaggio del malato e dei familiari, ma non devono esserlo in quello dei medici e degli infermieri.Tra i possibili fattori in grado di  accrescere la preoccupazione che insorga dipendenza per effetto della terapia con oppiacei (età del malato, tipo di farmaco usato -  codeina o morfina - , causa del dolore cronico – cancro o altra malattia -  e durata della somministrazione), quello che influenza maggiormente gli infermieri sembra essere la durata del trattamento (15) .  Una In realtà quando gli oppiacei sono usati per la terapia del dolore la dipendenza è molto rara (minore dell’1%), anche se la durata del trattamento è di un mese o più. La tolleranza e la dipendenza fisica, invece, rare se il trattamento dura pochi giorni, si verificano nella maggior parte dei malati che assumono oppiacei per un mese o più (43) . La dipendenza fisica che gli oppiacei provocano è un fenomeno reversibile e ben distinguibile dalla dipendenza psicologica cioè dall’atteggiamento compulsivo di ricerca del farmaco per scopi ulteriori rispetto al sollievo del dolore. La dipendenza fisica è la necessità di non interrompere bruscamente il trattamento pena l’insorgenza di effetti indesiderati. I malati in trattamento con oppiacei per il controllo del dolore sono dipendenti (fisicamente) dal farmaco così come lo sono i diabetici in trattamento con insulina, per i quali la sospensione della terapia può comportare un coma diabetico. Il malato che ha bisogno di aumentare la dose degli oppiacei per il controllo del dolore non sta diventando dipendente, può essere che stia  dimostrando tolleranza: l'organismo richiede dosi crescenti di farmaco per mantenere gli stessi effetti. Alcuni studi sui malati di cancro indicano che la causa principale dell’aumento delle dosi sia l’aumentare del dolore dovuto alla progressione del tumore: persone con malattia stabilizzata rimangono con le medesime dosi per lungo tempo (44,45).  D’altra parte sono spesso gli errori nell’uso degli analgesici, dovuti a sotto dosaggio, che causano una “tolleranza precoce” e danno la falsa impressione di dover aumentare continuamente e inutilmente le dosi.
Un'insieme di disinformazione e paure fa sì che a differenza di quanto accade per altri farmaci analgesici gli effetti collaterali della morfina vengano esagerati fino alla deformazione e che sia considerata un farmaco da usare in “casi estremi”. La definizione di “farmaco estremo” è fuori luogo perché la morfina viene usata da anni per lenire i dolori che accompagnano il decorso dell’infarto miocardio acuto e nel post operatorio; nel cancro trova indicazione non solo per affrontare le sofferenze gravi che segnano la fase terminale, ma anche per placare dolori oncologici precoci.
 
Terapie farmacologiche e non farmacologiche
La terapia del dolore agisce a vari livelli delle vie del dolore: i farmaci posso agire a tutti livelli, da quelli più periferici (recettori) a quelli più centrali (corteccia), a livello intermedio agiscono le terapie fisiche e manuali come la ginnastica, il massaggio, la magnetoterapia, il laser, gli ultrasuoni; a livello centrale i metodi di rilassamento e distrazione, come il rilassamento muscolare, la meditazione, la visualizzazione guidata e la musicoterapia. L’utilità di queste tecniche nasce dalla constatazione che le soglie del dolore sono influenzate anche dai processi emotivi e cognitivi della corteccia, e che molte situazioni di stress e tensione funzionano da amplificatore degli stimoli dolorosi. Quando si è soli, preoccupati, malinconici o in preda a cupi sentimenti, la sensazione dolorosa può essere resa insopportabile anche da blandi stimoli luminosi o acustici. Il collegamento tra dolore e stati d’animo impone tuttavia una certa cautela. L’ansia e la depressione possono far crescere le sensazioni dolorose ma accade frequentemente anche il contrario, cioè che il dolore provochi tensione e insonnia, che isoli l’individuo da familiari e amici, che lo rinchiuda nel proprio corpo e gli impedisca pensare ad altro: “mettiti questa palla di cannone nell’intestino e vedi quanto puoi preoccuparti del chiaro di luna sulle dune di sabbia(46).
Può darsi però che il malato non abbia il concetto di terapia multidimodale del dolore o che
non riconosca come terapie le tecniche fisiche e manuali che impiega nel quotidiano come il riscaldamento o il massaggio della parte dolente. E può darsi che non conosca l’uso antalgico dei metodi come il rilassamento muscolare, la visualizzazione guidata, la musicoterapia. Queste terapie sono ormai recepite dall’evidence based nursing, e malgrado la dimostrata efficacia non trovano grande impiego in Italia se non con i bambini. E anche laddove gli infermieri, in ambito pediatrico, utilizzano un ventaglio di tecniche non farmacologiche, spesso il bambino ha un ruolo passivo (47). Esistono invece evidenze anche per l’impiego nell’adulto. Uno studio americano descrive gli effetti positivi della visualizzazione guidata nel periodo postoperatorio di adulti con bypass coronarico (48). Negli hospice, i luoghi di ricovero per i malati terminali, la visualizzazione guidata, la musicoterapia, l'arte terapia sono un capitolo importante della strategia di controllo del dolore, insieme ai farmaci (49)
Le ragioni per cui queste tecniche sono poco usate sono probabilmente molte, ma e c il linguaggio stabilisce una potente gerarchia: terapie farmacologiche e non farmacologiche.
 
Il dolore e la sofferenza: il sentimento della persona
Sofferenza è temine che indica una dimensione antropologica del dolore, un vissuto negativo nel quale la coscienza è direttamente implicata (50). La sofferenza è propriamente sentimento della persona, inevitabilmente la coinvolge: i corpi non soffrono, le persone soffrono (51). La sofferenza non è solo il dolore, è un’insieme di sensazioni negative, di sentimenti e pensieri che fanno male, è dolore esperito come peso, minaccia, contraddizione rispetto all’ideale di vita umana. La sofferenza può prescindere dal dolore, e non sempre vi è una proporzione tra dolore e sofferenza: vi sono situazioni in cui la consistenza obiettiva del dolore è significativa, ma la sofferenza percepita è minima, mentre esistono sofferenze profonde che hanno minimo rapporto col dolore fisico.  
Il dolore connesso ad una malattia o un trauma ha una componente somatica sui cui si innestano risonanze emotive, culturali ed esistenziali; è sempre fisico, ma non è mai solo fisico perché ad esso si può aggiungere un insieme di altre sensazioni negative. Non sempre è chiaro se i farmaci siano buoni o cattivi, migliori o peggiori di altre opzioni, ma i farmaci per la terapia del dolore sono sicuramente efficaci, di migliore efficacia antalgica rispetto ai trattamenti analgesici invasivi, che trovano indicazione in pochi casi. Nessuno studio inoltre ha mai correlato uno scarso controllo del dolore allo scarso uso dei trattamenti non farmacologico, per quanto ne sia riconosciuto il valore.,,.
La terapia con farmaci analgesici è la modalità più efficace di controllare molte forme di dolore, da quello postoperatorio a quello a cancro. L’utilizzo di farmaci analgesici è un problema che certamente non riguarda solo gli infermieri ma riguarda anche gli infermieri, che possono e debbono mettere in atto anche degli interventi indipendenti per almeno tre ragioni.
La prima è che talune persone non hanno possibilità di esprimere il loro dolore e non hanno la possibilità di esprimere una legittima richiesta di farmaci antalgici: "il dolore spesso non riesce a farsi sentire; facciamo in modo che chiami ed abbia risposta attraverso la voce, le richieste e le azioni degli infermieri" (52). La seconda: i malati che possono dar voce alla loro esperienza  non sempre hanno le informazioni necessarie per scegliere e chiedere i trattamenti che riducano il dolore. Fornire loro queste informazioni, è un impegno di grande civiltà per tutti i professionisti della sanità e l'infermiere non fa eccezione.La terza ragione è che talora l'uso dei farmaci è un mezzo per essere al servizio della persona e dei suoi bisogni, il mandato prioritario di un infermiere.
La somministrazione di farmaci è chiaramente parte dell'attività infermieristica, e la somministrazione di analgesici, eliminando o riducendo il dolore, contribuisce a realizzare un ulteriore scopo: aumentare il benessere della persona, cioè ridurre la sua sofferenza.
La sofferenza certo non è solo collegata al dolore. La sofferenza è anche vedere che il proprio dolore non è riconosciuto, non sentire il sapore dei cibi, avere sete, non riuscire a parlare, sentire l'odore delle proprie feci, non poter vedere le persone care, dover rimanere a letto o su una carrozzina. L’impiego dei farmaci può non bastare, come possono non bastare le terapie non farmacologiche e l’aiuto di Socrate, Confucio o Sant’ Agostino. In alcuni casi, per alcuni  malati, i farmaci e gli altri mezzi di cui la terapia del dolore dispone nonché una fede solida sono d’aiuto; in molti casi e per molti malati sarà d'aiuto una competente attenzione ai loro bisogni.
Una ricerca sui familiari di persone morte per varie cause, ha mostrato che i familiari associano un inadeguato controllo del dolore al fatto di essere stati poco coinvolti nelle cure, al fatto che i bisogni quotidiani del malato – come l'alimentazione - non erano stati sufficientemente soddisfatti, e che il malato non aveva ricevuto abbastanza sollievo per
disturbi come la bocca secca (53)
 
Alcuni problemi etici 
L’azione dell’infermiere deve tendere a realizzare prestazioni di sicura efficacia e benessere e ad evitare sofferenze inutili. L'infermiere, in ragione del suo ruolo professionale, può provocare dolore, specie in ambiti come i centri per ustionati, anche solo pungendo la cute, togliendo un bendaggio adesivo, medicando una ferita. Pochi studi hanno considerato le reazioni dell’infermiere a questa situazione (54)  . Alcune ricerche evidenziano il disagio degli infermieri di area critica quando le terapie provocano sofferenza senza dare benefici proporzionati (55-57) .
L'infermiere, specie in area critica, applica una tecnologia invasiva, in grado di salvare la vita ma anche di provocare dolore e sofferenza. L’infermiere compie una valutazione etica e non ha dubbi sulla cosa giusta da fare, né quando mantiene le funzioni vitali con mezzi aggressivi, né quando fa il monitoraggio dell'attività dell'organismo frequentemente e con mezzi invasivi. Ma l’infermiere è capace anche di una valutazione etica sulla qualità della vita. E se il monitoraggio richiede la manipolazione dei presidi applicati oppure uno spostamento del malato, valuta la possibilità di dilazionare il controllo, assumendo così una prospettiva che riunisce in sé l'attenzione per la vita (nel senso biologico) e per chi la vive. Il problema si pone quando non solo un monitoraggio invasivo ma anche gran parte degli esami di routine, non solo la rianimazione ma anche la nutrizione artificiale, sono inappropriati e fonte di dolore e sofferenza inutili.
Tra i fattori che danno una forte connotazione etica a un caso clinico, almeno due sono tipicamente presenti in area critica: una è l'emergenza – urgenza; l’altra è l’impossibilità di informare il malato se è incompetente, cioè incapace di scegliere razionalmente, di manifestare la sua scelta, di comprenderne le conseguenze. Tuttavia, in emergenza - urgenza o no, che il malato sia competente o non lo sia, alcuni trattamenti non si devono offrire né attuare.Si tratta dei trattamenti futili, che danno un beneficio illusorio, come la nutrizione parenterale totale nello stato vegetativo persistente; di quelli molto onerosi o rischiosi rispetto ai benefici, come la ventilazione per una dispnea da tumore polmonare; di quelli che non danno un beneficio neanche in termini di qualità di vita. 
 
Un uomo con tumore della testa o del collo può morire per disfagia, asfissia, emorragia, polmonite. Gli effetti della disfagia si possono evitare con una gastrostomia: il malato vivrà abbastanza da avere una ostruzione tracheale, che si può risolvere con una tracheostomia. Allora vivrà ancora fino ad avere una emorragia, e se si praticano delle trasfusioni fino ad avere una polmonite, curabile con antibiotici. Il malato avrà ricorrenti emorragie una delle quali sarà fatale.
 
I trattamenti che risolvono un evento critico permettono al malato di vivere fino ad un evento peggiore del precedente. Se si considera "proporzionato" ciò che serve alla continuazione del processo biologico, non c'è accanimento; se invece che al processo biologico si pensa alla qualità di vita la sproporzione è manifesta. Nel codice deontologico dell’infermiere, al punto 4.15,  è indicato che “l’infermiere tutela il diritto a porre dei limiti ad eccessi diagnostici e terapeutici non coerenti con la qualità di vita del malato (40) .
In area critica si presentano situazioni estreme come la sospensione delle terapie salva vita e delle terapie infusive, e la sedazione terminale
 
“… si verificò in Norvegia il più grave incidente ferroviario che la storia di quel Paese ricordi. Tra le lamiere inestricabilmente contorte rimasero prigioniere, ma ancora vive, alcune vittime del disastro, che non avevano possibilità alcuna di essere estratte. L’opinione pubblica norvegese si commosse del fatto che i medici accorsi sul luogo dell’incidente decisero, compassionevolmente, di somministrare morfina a quanti, tra atroci dolori, si trovavano lì intrappolati”  (58 ) .  
 
Una solida argomentazione portata dal mondo cattolico legittima la sedazione terminale per evitare una morte tra atroci dolori. E’ la teoria del doppio effetto, secondo la quale se l'intenzione del professionista è togliere il dolore e la sofferenza, la perdita di coscienza e l'eventuale abbreviazione della vita possono essere accettate come conseguenza indiretta. E’ la posizione espressa da Pio XII nel 1957 (59) e ribadita dal concilio vaticano II.
Togliere il dolore, anche in queste circostanze, è un dovere scientifico ed etico. A livello scientifico valgono le evidenze, e bisogna stabilire se la terapia del dolore è efficace e migliore di altre opzioni. Sono ormai molte le segnalazioni in letteratura degli effetti deleteri del dolore sul decorso clinico oltre che sulla qualità di vita. Il controllo del dolore è un elemento importante per migliore il cosiddetto outcome chirurgico,  sentire dolore ha effetti negativi sulla situazione emotiva attuale e a distanza, il dolore accentua i limiti relazionali che già di per sé la condizione di malato e di degente comporta.
A livello etico valgono le argomentazioni. I pareri dei comitati etici e i testi del Magistero Cattolico, la letteratura bioetica, dimostrano che il dibatto c’è già stato e che togliere o limitare il dolore e la sofferenza comincia ad essere considerato un dovere fornito di adeguate basi etiche oltre che scientifiche. In questi due campi l’azione dell’infermiere può essere immediata.
 
Due cose che l’infermiere può fare subito
Ogni cittadino ha il diritto di sottrarsi alla tragedia del dolore inutile e all'umiliazione della sofferenza (60). Ha anche il diritto che la valutazione del dolore sia “appropriata”, non solo nel senso che il professionista debba essere competente, ma anche in quello che sia considerata la sua “propria” esperienza. L’infermiere può impegnarsi per evitare ulteriori ritardi nella garanzia di questi diritti, così come garantisce una attenzione competente ai bisogni delle persone, soprattutto di quelle che non hanno mezzi per difendersi. Ha almeno due modi concreti attuabili subito: il primo è migliorare la propria capacità di valutare i casi anche dal punto di vista etico; il secondo è conoscere i dati scientifici correnti per correggere le opinioni sbagliate.
 
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